Il viaggio di due cugini nel luogo delle origini per soddisfare il desiderio della nonna, fuggita dalla propria terra per via delle persecuzioni razziali.
A real pain, secondo lungometraggio di Jesse Eisenberg, è arrivato nelle nostre sale cinematografiche pochi giorni prima della notte degli Oscar 2025, durante la quale Kieran Culkin è stato premiato come miglior attore non protagonista. Culkin impersona Benji, un trentenne dall’aspetto trasandato che, nella prima scena, appare con lo sguardo perso mentre osserva ciò che avviene intorno a sé nell’aeroporto dove attende David (lo stesso Jesse Eisenberg), suo cugino.
I due giovani uomini sono ebrei americani, figli di famiglie emigrate a causa delle persecuzioni razziali durante la Seconda guerra mondiale: sono in procinto di partire per la Polonia con l’intento di soddisfare l’ultimo desiderio della nonna, ovvero di conoscere il paese da cui lei proviene e la casa dove è nata.
Sin dal primo incontro si percepisce la diversità tra di loro e il legame controverso che li unisce: vi è una continua alternanza tra premura e irritazione (pain in inglese significa anche seccatura) di David nei confronti di Benji, che mostra senza filtri la propria vulnerabilità, condividendo apertamente il periodo depressivo che si è da poco lasciato alle spalle anche con i componenti del gruppo con cui faranno il viaggio.
Ciò che accomuna tutti è l’essere ebrei e la scelta di intraprendere un tour nei luoghi delle origini e dell’Olocausto sembra rappresentare il desiderio di entrare in contatto con un passato non vissuto, ma che pesa in termini identitari e verso il quale non ci si può sottrarre.
Si torna ad attraversare la terra che si è dovuta abbandonare, per non dimenticare, per vedere, toccare, vivere le tracce di ciò che è stato il reale dolore di un popolo e di un’intera umanità.
Di fronte a tutto questo, la sofferenza del singolo potrebbe sembrare quasi fuori luogo e forse ognuno dei componenti del gruppo si chiede quanto il loro essere privilegiati dia risarcimento e giustizia a ciò che è stato. Eppure, in questa pellicola, il registro del soggettivo e del collettivo coabitano e si alternano, l’uno è la cassa di risonanza dell’altro: tutto è attraversato dai notturni malinconici di Chopin e incorniciato dai luoghi della Polonia che presentano le proprie cicatrici e ricostruzioni, i vuoti e i pieni. Le luci del campo di concentramento di Majdanek si mescolano a quelle delle città di Lublino, azzerando una distanza fisica ed emozionale tra il passato e il presente.
Il dolore soggettivo dialoga, si scontra, si unisce al dolore collettivo e la voce di Benji nell’essere sovversiva, riesce a stravolgere e appassionare ogni membro del gruppo, guida compresa, nel momento in cui li richiama ad un contatto più profondo e autentico con il dolore che stanno attraversando.
Il caos emozionale che produce con le sue distonie provoca scomodità e turbamento, ma lascia il segno perché tocca l’autenticità della fragilità del singolo. David lo segue con la paura di chi, inibito e ossessivo, assiste qualcuno che nel disordine ha perso sé stesso: si avvicina e si allontana da lui come accade con ciò che nella sua pericolosità fa stare distanti e al contempo attrae. Insieme però, si ritrovano nei ricordi di infanzia e nell’amore per la nonna che ha tramesso loro la nostalgia di una terra e di una cultura che le esigenze della vita hanno costretto ad abbandonare.
Al termine, i due cugini si lasciano dove si erano trovati, in aeroporto, un non-luogo in cui tutti transitano e in cui nessuno resta: Benij ama perdersi in questo spazio dove ci sono persone “fuori di testa”, in cui incontra un’umanità che fugacemente sosta e che, nella non afferrabilità, gli rimanda la propria solitudine. David, con una famiglia a cui tornare, mostra il suo essere vittima della scansione del tempo e delle responsabilità, pesi a cui però, nel contatto con le realtà, non ci si può sottrarre.