L’opera di Marshall McLuhan del 1967, The medium is the massage, apriva una riflessione in merito all’importanza del contenitore mediatico sulla trasmissione del contenuto: la peculiarità della struttura comunicativa di ogni medium lo rende non neutrale perché essa suscita negli utenti-spettatori determinati comportamenti e modi di pensare.
La trama di Adolescence non è particolarmente originale, forse banale, per dirlo alla Hanna Arendt: un adolescente accusato di aver brutalmente assassinato una sua coetanea.
Adolescence è uno squarcio impietoso sul nero degli adolescenti, o meglio dell’adolescenza.
Se ci chiediamo come mai questa serie abbia acceso innumerevoli dibattiti e superato i sessantasei milioni di visualizzazioni nelle prime due settimane di uscita, possiamo rispondere che essa si interroga sull’enigma dell’adolescenza – la fragilità, la solitudine, il bullismo, il ruolo dei social, la distanza incommensurabile tra le generazioni, la violenza – e che quindi tratta temi propri dell’umano come il sesso e l’aggressività.
Certamente. Ma non si può prescindere dal medium. Le quattro puntate della serie, perché si tratta di una tragedia in quattro atti, sono ciascuna girate in piano sequenza, una tecnica cinematografica che, escludendo quasi completamente l’uso del montaggio, fa coincidere il tempo dell’azione rappresentata con quello dello spettatore, dando un effetto di immediatezza, come nel teatro, ma con l’attenzione alla gestualità, alla mimica e all’espressività degli attori tipica del cinema, e che consente una partecipazione intensa a quello che viene rappresentato e una profonda identificazione.
Il piano sequenza è già portatore di contenuto.
Sono le sei di mattina quando una squadra di poliziotti armati fa irruzione con violenza eccessiva e sproporzionata nella casa di un tredicenne, svegliandolo di soprassalto e arrestandolo per omicidio. Lo spettatore, che osserva la scena in tempo reale, vede un bambino di tredici anni, perché Jamie è un bambino terrorizzato, che si fa la pipì addosso quando i poliziotti entrano in casa sua, e lo segue nelle fasi drammatiche dell’arresto fino al tragico epilogo dell’interrogatorio.
Il tempo della rappresentazione e quello della visione coincidono quasi perfettamente.
Il pubblico è lì.
Emilia De Rosa (1996), evidenziava le reazioni degli individui e dei gruppi rispetto a comportamenti antisociali negli adolescenti; queste oscillano tra la rigida repressione, come i poliziotti che fanno irruzione, e l’indulgenza, la compassione, perché ci si identifica con la parte sofferente del ragazzo, in un movimento riparativo che è sano e terapeutico perché porta alla comprensione. Raramente la cronaca dei giornali, dei telegiornali o ancora meno dei social, forse perché troppo immediata, sbrigativa, concreta, sensazionalistica e quindi non attenta alle sfumature, consente questo tipo di pensiero e accende un dibattito.
Invece, così come i genitori, gli insegnanti, i poliziotti, i familiari di Jamie, noi, il pubblico, siamo presenti e ci interroghiamo e cerchiamo di capire cosa sia accaduto, come sia stato possibile.
Si prova una profonda inquietudine che deriva dalla cruda consapevolezza che tutto ciò che fino a quel momento, finché erano bambini, finché eravamo dei bambini, era possibile solo in fantasia, può essere fatto: si può fare sesso, si può fare fisicamente del male, si può uccidere.
Ma al fondo del buio, dello squarcio impietoso, c’è speranza. La speranza è quella del poliziotto, padre anche lui di un adolescente, che chiede il permesso di entrare nella scuola per avvicinarsi a quel mondo che sente puzzare di “sudore, cavolo e masturbazione”.
Anche il pubblico, dopo l’irruzione della prima scena e la profonda empatia provata per quel non-più-bambino spaventato, è condotto attraverso il piano sequenza dentro la scuola, nella stanza di terapia, nella casa dei genitori di Jamie.
Viene introdotta, in questa serie riuscita, una dimensione che attiene alla complessità dell’adolescenza e degli affetti. Il piano sequenza, il medium, è fondamentale nel trasmettere questa complessità.
Diversi punti di vista, quindi, diversi livelli e diverse possibilità di identificazione attraverso le quali possiamo provare a capire sapendo che non possiamo capire. L’esclamazione insistente ed esasperata della psicologa “sto solo cercando di capire!.”, è anche la nostra.
Ma la risposta non c’è perché Jamie per primo non ha capito. Eppure, egli ci indica la via per una comprensione attraverso la domanda sofferente e disperata “mai io ti piaccio?”.
Noi che guardiamo possiamo forse rinunciare a comprendere cognitivamente e spostarci sul piano della sintonizzazione affettiva, provando a tenere insieme, dentro di noi, quei bambini sorridenti mostrati in foto all’apertura di ogni puntata, e la sofferenza, l’inquietudine di quella che è stata definita “l’età di maggior follia della vita” (Lussana).
Questo movimento ci consente di contattare la dimensione nostalgica dell’infanzia, che non è perduta, e della speranza per il futuro, che non è perduta neppure quella. E la nostra partecipazione, e la commozione, e gli interrogativi e i dubbi, ci mettono profondamente in discussione, come adolescenti, come adulti o come genitori. Siamo il terzo occhio che assiste al dramma, e così identifichiamo, e piangiamo, e rimaniamo attoniti, e sgomenti, e possiamo pensare e comprendere e non perdere la speranza perché noi siamo il gruppo che può sostenere e può aiutare.