Avant-coup e Après-coup

Cancellazione e #cancelculture - di Chiara Buoncristiani

Intervento per la serata del 12 febbraio “Dialogo, censura e cultura della cancellazione”


Cancellazione e #cancelculture - di Chiara Buoncristiani

Maurizio Bettini, con il suo saggio Chi ha paura dei Greci e dei Romani, solleva un problema che oggi non riesco più a pensare come esterno alla stanza d’analisi, all’istituzione psicoanalitica e neppure all’inconscio.

Per avvicinarmi al problema temo che cercherò volutamente di riprodurlo, ripeterlo, nella scrittura. Nel 2022 rividi Travolti da un insolito destino di Lina Wertumuller, quello che per me è un “classico” cinematografico.

Che cos’è un “classico”?

Sarebbe differente se mi chiedessi cosa è un classico “per un’analista”?

Soprattutto: quale sistema epistemico sto implicando? E quale potere definitorio mi sto attribuendo oppure sto mettendo in questione, anche solo con queste brevi domande?

Che posizione occupo nel porre queste domande?

Interrogandomi sul “che cosa” non sto già all’interno di un discorso che sottintende tutta una concezione metafisica, occidentale e per così dire “classica”?

Dopo aver visto il film della Wertmuller scrissi proprio sul sito del Centro Psicoanalitico di Roma un articoletto critico nei confronti della cancel culture, in cui sottolineavo quanto poco politically correct fosse quello che consideravo un “classico” cinematografico. Tanto acuto quanto brutale. Esilarante e geniale nella rappresentazione della lotta di classe messa in scena attraverso il prisma passionale di un rapporto erotico e a tratti violento. C’erano un uomo e una donna. C’era la Melato che prendeva un sacco di botte, Giannini che la chiamava tutto il tempo “bottana industriale”, lei che lo serviva e riveriva sull’isola deserta…l’inconscio, lo sappiamo, non è politically correct. E poi… nell’inconscio non si cancella nulla. Nell’arte, quando cerca di esprimere la complessità di una contraddizione, neppure. Mai film fu tanto scorretto e anarchico allo stesso tempo.

Ma allora l’inconscio sovverte sempre la cancel - come qualunque altro tipo - di culture? O è anche vero che il solo parlare di cancel culture è uno degli effetti di un movimento inconscio molto frequente nella nostra epoca?

Vorrei dire subito - e molto apertamente - che se il diavolo sta nei dettagli, in questo caso il problema sorge quando questi dettagli li nomiamo. L’etichetta “cancel culture” ha assunto all’interno della semiosfera (Lotman 1985; Bifo 2024) una certa precisa coloritura. Un’analisi genealogica mostra che nel 2020 sono stati il senatore repubblicano Tom Cotton e il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, a usarla in senso accusatorio per cercare di mettere in secondo piano le rivendicazioni del movimento Black Lives Matter. Da allora è un termine ombrello che ricorre in strategie comunicative di diversa radice, ma che hanno come effetto comune quello di spostare l’attenzione dall’esistenza stessa di questioni come la subalternità e la discriminazione. Così, al di là delle intenzioni di chi le usa, l’effetto è un depotenziamento dei discorsi che cercano di contestare razzismo, sessismo, eteronormatività, abilismo. A sventolare poi il ‘meme’ della “cancel culture” sono state le destre ultraconservatrici. Inoltre, è molto interessante notare come il primo gesto di Trump, una volta salito al potere, sia stato proprio quello di cancellare molti diritti delle minoranze. Un atto che spinge a domandarsi (Cordioli e Porzio Giusto, 2025) se l’uso del significante “cancel culture” altro non sia che la proiezione del proprio intenso impulso a cancellare.

Un decorso, quello di quest’etichetta, che molto ha a che fare con il dominio. Da psicoanalisti non possiamo ignorare la complessità del problema. Non possiamo cioè dimenticare come anche il dominio sia una passione e come questa passione trasformi anche il campo intellettuale in campo di potere (Bourdieu, 2001; 2003).

La cancel culture, la decolonizzazione dei classici, sono solo alcuni di quelli che potremmo leggere come etichette-sintomo di una radicalizzazione: gruppi sociali si identificano in termini di minoranze marginalizzate da un passato-presente di ingiustizia e discriminazione. La memoria o situazione cui esse si riferiscono le connata come assoggettate a un trauma. Da qui parte una politica della memoria e dei nomi. Che è una lotta che utilizza la strategia simbolica della decostruzione e dell’attacco ai simboli di quel passato razzista, maschilista, omofobo...

Si combatte con i nomi e con le categorie. In sostanza si combatte una guerra appropriandosi dei mezzi di produzione dei segni quotidiani, per dirla con Klossowsky.

Come una volta si occupavano le fabbriche oggi si occupa il linguaggio.

Quello che vale la pena non dimenticare, però, è che se l’etichetta cancel culture fa sintomo, lo fa rispetto a uno sfondo, che si vorrebbe neutro ma non può esserlo per definizione. Perché questa definizione, come ogni definizione, è avvitata intorno ad asimmetrie di sapere e di potere. Qualcosa che serve come organizzatore: un modello   che distribuisce privilegi e istituisce marginalità e produce scarti.

Cosa sarebbe successo se Dora, Anna O. e le “isteriche” tutte - avessero avuto a disposizione un ashtag #Isteriche - come il #Metoo - con cui identificarsi, costituirsi come gruppo di pressione e accusare la cultura del proprio tempo di averle rese vittime: non tanto e non solo di un abuso sessuale, reale o fantasticato, ma di averle prima marginalizzate e poi di aver parlato al posto loro, etichettandole come “isteriche”?

Bettini solleva il tema delle differenze, mettendolo in tensione rispetto a un’altra etichetta, quella di “classico”. Un testo su cui intere generazione si formano. Può essere utile ricordare la “classica” distinzione di Laplanche (1988) tra la nozione di differenza e quella di diversità: la prima rispondente una logica degli opposti, della negazione reciproca, dove un elemento è definito in relazione alla sua assenza o negazione; la seconda basata su una logica del contradditorio, dove ciò che si aggiunge, non si oppone necessariamente, ma elementi diversi riescono a coesistere, arricchendosi a vicenda. La diversità, quindi, non nega l'identità, ma la integra, la completa e risponde a una logica dell’inclusione e di identità dinamiche.

Non è forse un caso che siano proprio gli analisti che si occupano degli itinerari multipli di sessualità e genere, e più in generale quelli che esplorano il campo simbolico che ciascun soggetto può costruire, a evidenziare la necessità di tenere distinte le nozioni di differenza, differenza sessuale e diversità, facendole lavorare ed esistere insieme, in un pensiero complesso, stratificato e non binario (Glocer Fiorini, 2022).

È Derrida, altro “classico”, in questo caso del pensiero filosofico, a declinare la differenza come verbo all’infinito: la difference è un differenziarsi, ma è un’operazione di sottrazione costante del modello. Una molteplicità che fa a meno di questo modello. Una cancellazione costante del modello, del cosiddetto “Uno”? Deleuze lo dice bene quando sintetizza la nozione di molteplicità con la formula “N-1”: “Si può concepire l’inverso, (…) sprigionare dei divenire (…) dei pensieri contro la dottrina, delle grazie e delle disgrazie contro il dogma” (Deleuze e Guattari, 1972).

A partire dalle lotte femministe in poi, chi si trova nella posizione di parlare, compreso lo stesso elemento che vorrebbe costituirsi come cornice paradigmatica fuori dalla serie – comprese le istituzioni, gli psicoanalisti e le femministe stesse - non può più considerarsi uno schermo bianco, fuori dalla politica. E neanche – aggiungiamo noi - fuori dagli effetti dell’Inconscio.

Cosa avviene nella psiche individuale quando un elemento traumatico provoca una spinta alla “cancellazione” dell’evento doloroso che si tenta di occultare?

Il tema del cancellare in psicoanalisi è enorme e non mi avventuro ad approfondirlo qui: mi limito a dire che molto ha a che fare con i meccanismi freudiani di rigetto o diniego. La cancellazione è un gesto psichico nell’ordine del lavoro del negativo (Green 1993; Balsamo 2021). Come tale è qualcosa che può passare attraverso il formato eterogeneo di una sottrazione che produce una memoria senza ricordi, una traccia muta che continua a ripetersi.

Qui ci si potrebbe chiedere: cosa significa in analisi, entrare nel gioco della cancellazione/sottrazione? Cosa avviene nella psiche quando un elemento traumatico provoca una spinta alla “cancellazione” dell’evento doloroso che si tenta di occultare?  E attraverso quali processi, al contrario, diventa possibile contestualizzare e storicizzare (Bastianini 2024), ospitando nella propria mente anche ciò che ha potuto ferirci? Come possiamo tollerare che anche l’onnipotenza, il diniego, la nostalgia di un umano che prescinda da ogni separatezza e “cancelletto” categoriale ci appartengono?

Capita che i pazienti ci chiedano di lasciarci attraversare dall’angoscia originata dalla rinuncia a interpretare questo come un sintomo, a partire dalla visione del mondo che condividiamo con la comunità analitica di cui facciamo parte. A volte ci costringono a dislocare le nostre categorie affettive ed epistemiche altrove, magari dalle parti di qualcosa di ibrido. Scopriamo così finali “sorpresa”, che magari rimaneggiano i più “classici dei finali a sorpresa”.

Nell’Uomo Mosé, testo che da molti viene considerato alla stregua di un caso clinico sull'universale Uomo, Freud mostra come il metodo analitico sia un lavoro di costruzioni proprio là dove il trauma ha cancellato il ricordo. Tra le tante domande aperte da questo testo ce ne è una intorno al problema delle dinamiche del divenire umano, come condizione antropologica che abbandona la specie del “sapiens” al destino di un incontro asimmetrico con l’Altro.

È nei sintomi, nei conflitti irrisolti e negli intoppi che spesso si esprimere il punto nel quale una singolarità resiste e magari - rifiutandosi di affermare - continua a domandare.

Perché la produzione di senso è innanzitutto produzione di scarti e gli scarti sono, per definizione, quanto resistendo alla trasformazione della materia, spinge avanti il processo.

Per concludere, farei un omaggio a Bettini rifacendomi a Platone.

Dare una forma, mettere il mondo in forma, significa imbattersi negli scarti, nei capelli e nel fango che, nel Parmenide platonico, già inquietavano il giovane Socrate alle prese con le obiezioni del vecchio filosofo eleate. Al Socrate saccente ragazzetto ateniese, Parmenide, nella finzione platonica, aveva chiesto se anche su quegli scarti di lavorazione risplendesse la luce della verità di cui Socrate si era fatto alfiere con la sua teoria delle Idee. E al rifiuto di quello di accordare uno statuto ontologico a cose di nessun valore, Parmenide aveva ribattuto con una affermazione che suona come una delle più singolari definizioni della filosofia presenti nel corpus platonico: “Quando non disprezzerai più nessuna di queste cose, allora forse la filosofia ti avrà veramente preso”.



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