Sulla serata di "Radici di una storia: La Shoah prima della Shoah" con S. Facioni
La recente serata che si è svolta presso il Centro Psicoanalitico di Roma sull’interpretazione talmudica del testo biblico e sulla figura di Giuseppe porta a contatto con alcuni temi centrali per il pensiero psicoanalitico: tra gli altri il tema della ripetizione vivente di tracce come tentativo di trovare nuovi-e antichi- significati; quello dell’”uscita” (che non è fuga) come separazione che permette di tessere la relazione con l’Altro, estraneità fuori e dentro di sé; l’importanza della storia, miscuglio inestricabile delle vicissitudini dei singoli e delle loro relazioni reciproche. Però anche, mi sembra, con un tema sul quale da sempre pensiero filosofico e psicoanalitico si interrogano, cioè la ricerca del “vero”. Difficile definire quale legame la mente instauri con ciò che considera o sente vero e come, ad esempio nel corso di una analisi, possa intendersi e modificarsi tale rapporto. Forse la prima cosa da dire è che-in questo caso- non si considera una verità maiuscola, uguale per ciascuno, né una verità che è sempre stata lì, fuori di noi, in attesa soltanto di essere scoperta- bensì una verità come nucleo affettivo profondo, idioma che si articola e si gioca nell’essere e nel mettersi in rapporto (Bollas, 1987). Sono gli aspetti del sé percepiti come spontanei, vivi e personali. Una verità, dunque che, lungi dall’essere metro di paragone assoluto è il dispiegarsi di un processo personale e vivo all’interno del tempo di vita di un soggetto. Un vero, ancora, che sia un accordo profondo con la declinazione complessa del desiderio. Si tratta di una cifra che ha origine con l’origine stessa del soggetto e che pure è sempre in divenire e solo nella storia di un essere singolo e irripetibile si dispiega.
Su questo dispiegarsi, poi, molti enigmi rimangono, per fortuna, aperti. Sembrerebbe così che la verità non si dia mai in piena luce, poiché l’essere umano non la tollererebbe e ne resterebbe accecato; d’altronde anche gli enigmi antichi, indovinelli dagli esiti tremendi e nefasti, non svelano mai in un discorso chiaro e pienamente comprensibile la verità nuda e cruda.
Se invece pensiamo alla verità sempre incerta, intermittente, ogni volta guadagnata e persa- è così anche nella traversata analitica-, immaginiamo allora quel procedere incompiuto in un bosco buio e intricato di cui dice Heidegger, dove di tanto in tanto ci si imbatte in un diradamento nel quale più luce filtra dagli alberi ed è possibile approdare a una visuale più ampia. Si è sempre immersi in un chiaroscuro, ogni presenza si staglia su una assenza e il procedere e, per forza di cose, impervio.
Ma-si dirà-cosa ha a che vedere questo con i temi della serata del Centro?
Silvano Facioni ha raccontato un passo della genesi nel quale il personaggio di Noè, dopo aver piantato una vigna e bevuto in quantità, si era ubriacato e denudato. Il figlio Caan, allora, vedendo la nudità del padre, va a chiamare i fratelli, Sem e Jafet; gli altri due figli prendono un mantello, se lo mettono sulle spalle e “camminando all’indietro” coprono la nudità del padre.
Le interpretazioni del testo biblico ruotano intorno ad alcune questioni centrali: cosa significa coprire la nudità? Quali sono i motivi del sottrarre alla vista? Le vesti hanno la funzione di velare, nascondere, coprire. Così il bell’intervento di Silvano Facioni ci dice di come la parola “tunica”, il termine utilizzato per dire ciò che vela e copre, è omofona a quella di “simbolo”. Come a dire che possiamo attingere all’origine solamente attraverso la mediazione simbolica; che il contatto con l’origine (o con il vero?) della nostra storia non può che avvenire attraverso il simbolo e non può che avvenire coprendo, velando, nascondendo.
Ancora, come il camminare all’indietro ci dice, il procedere verso qualcosa di vero necessita di avanzate come di arretramenti, così come, sembra di poter dire, di una luce che non sia troppo forte. La luce che filtra ma non inonda, che permette di scorgere anche cosa accade nell’ombra o quanto meno di addentrarvisi. Luce obliqua e non diretta.
Anche il simbolo, forse, ha bisogno d’ombra. Non è mai coincidenza, mai rispecchiamento perfetto o unisono, ma sfasatura, dissimmetria vivente, breccia che si dischiude su nuovi significati possibili. Il simbolo- aggiunge poi Facioni-, è infatti un salto: non sereno passaggio da un senso all’altro, ma cambiamento di livello proteso a cogliere ciò che in parte sfugge a qualsiasi presa, rimanendo sempre inesprimibile.
Forse solo la poesia può sostenerci in questo:
“...Dì tutta la verità ma dilla obliqua-
il successo è nel cerchio-
sarebbe troppa luce per la nostra debole gioia
la superba sorpresa del vero...”
E. Dickinson