« La théorie, c’est bon, mais ça n’empêche pas d’exister ! » Ovvero : Pontalis e Winnicott affermano con forza che tutte le teorie sullo psichico non sono mai compiute del tutto.
Come sappiamo, uno dei motivi per il quale Pontalis introdusse il pensiero di Winnicott. in Francia si riferisce alla sua ammirazione e alla sua identificazione verso quello spirito di libertà con cui quest’ultimo si contrapponeva criticamente anche e soprattutto alle figure di maestri e padri teorici. Tuttavia, in un primo momento, come è stato detto, e per sua stessa ammissione, Pontalis ha dovuto fare una radicale operazione di esplorazione e di assimilazione profonda della teoria originaria freudiana con grande rigore e accuratezza metodologica. Quasi a fissare quegli “ancoraggi” ad invarianti irrinunciabili che gli permisero di “navigare” oltre, con uno spirito temerario.
Winnicott, apparentemente, non si è sentito in dovere di compiere questo percorso all’interno della metapsicologia in maniera sistematica, pur non smettendo di dialogare con Freud e con la Klein lungo tutto il suo tragitto di vita.
In realtà, anche se Winnicott. dichiarava a tratti di avere un rapporto idiosincratico con la metapsicologia, tuttavia evidenziava spesso una conflittualità attrattiva mai sopita verso la Strega ,
Il suo teorizzare è stato, come disse Pontalis “ingenuo e sapiente al tempo stesso, ma sempre portatore di complessità”.
Basta pensare, per esempio, al suo testo sull’aggressività primaria, “L’aggressività ed il rapporto con lo sviluppo emozionale” e a ”Uso di un oggetto” cui fa riferimento anche Pontalis. E come abbia inventato una metapsicologia originale come base teorica del fenomeno della regressione.
In fondo la teoria winnicottiana è una riproduzione riuscita del suo concetto di area transizionale: egli conserva alcuni invarianti fondamentali della concezione freudiana- il trovato- e la articola, lavorando su di essa attraverso l’esperienza clinica, con il suo “creato” personale (Giuffrida in Riolo “Teorie psicoanalitiche a confronto”).
La differenza tra i due Autori di cui ci stiamo occupando sta nel fatto che, mentre Winnicott è un inventore di concetti psicoanalitici (area transizionale, vero, falso sé, ego-relatedness, solitudine essenziale, e altro) Pontalis è un poeta, un grande visionario per certi versi, che si distacca meno dalle fonti ma le trasforma in figurazioni sognanti, allucinatorie, esteticamente catturanti.
Indubbiamente due processi creativi diversi ma egualmente fertili.
Entrambi gli Autori esplicitano l’aspetto paradossale che attraversa lo svolgersi e l’attuarsi dello psichico, che deriva in parte anche dal pensiero freudiano relativo al fatto che l’apparato di cui ci occupiamo abbia come oggetto di osservazione e teorizzazione il proprio funzionamento. Questo con tutti i limiti epistemologici che tale operazione comporta, e con tutti gli aspetti fecondi.
Entrambi affermano con forza il fatto che tutte le teorie relative allo psichico non sono mai compiute del tutto; non appartengono al modello in cui “tout se tient”. Sono teorie che rimangono nella dimensione dell’essere “tra”, come l’area potenziale, tra vari modelli, euristicamente in ricerca.
Per dare corpo a queste affermazioni vorrei aggiungere ancora qualche elemento al discorso dell’uso che fa Pontalis del pensiero winnicottiano scegliendo di descrivere il suo percorso teorico, paradigmatico a mio modo di vedere, a proposito del concetto di Sé. Concetto assente dalla Enciclopedia e per molto tempo considerato “scandaloso” da gran parte della psicoanalisi francese.
Sappiamo che Winnicott. mantenne per quasi tutta la sua produzione teorica un’ambiguità sull’uso dei concetti di Sé e Io, così come anche Freud, mantenne una ambiguità e una polivalenza semantica a volte anche contraddittoria nella sua definizione dell’Io e delle sue funzioni. Nel testo sul Narcisismo, ci avverte Pontalis, Io e Sé vengono usati come sinonimi.
Non mi dilungo sulla posizione freudiana, citata qui solo per arrivare alla domanda fondamentale di Pontalis e cioè: “Chiediamoci soltanto se la bipolarità proposta tra un io – sub struttura definita dalle sue funzioni…- e un sé – definito come persona in sé in opposizione agli oggetti esterni e all’altro (l’”individuo” della psicologia classica, l’immagine di sé) – sia giustificata, rispetto alla teoria psicoanalitica, e feconda rispetto alla clinica. (Tra il sogno e il dolore pag 165) (Qui il riferimento porta principalmente sul concetto di Sé di Hartmann).
A questa domanda Pontalis risponde di no, adducendo varie critiche riassumibili nella considerazione che il sé naturale primario nega il conflitto tra istanze e il radicale essere altro a sé stessi del soggetto. Comporta un vertice genetico forte, tendente alla negazione della complessa dialettica delle identificazioni del soggetto e infine insiste sul fatto che le funzioni del sé, evidenziate dalla psicologia dell’io, sono insite e già presenti nella concezione freudiana dell’io.
Questa brevissima sintesi non rende giustizia alle ricche argomentazioni di Pontalis. Ma si possono trovare nel testo “Tra il sogno e il dolore”.
Sorprende tuttavia, anticipando su quella che sarà la sua posizione finale, che poche pagine dopo Pontalis tenti di recuperare la fertilità della nozione di Sé tanto da fargli scrivere;” Mi rendo conto di quanto sia oscillante la mia andatura: sostengo che l’esperienza clinica ha reso necessaria l’introduzione del self e che il concetto non è accettabile! … In effetti a parer mio, sia dalla parte del paziente che da quella dell’analista, quello che accade o fa difetto è un fenomeno soggettivo, che il termine self tende a mettere in luce, molto più che una struttura della persona o la persona stessa. Per stabilirlo, farò riferimento ad alcuni lavori di Winnicott, anche se la nozione di sé appare presso di lui meno centrale che presso altri autori” (pag 167).
Egli prosegue nel suo discorso (177) dove evidenzia la funzionalità della dicotomia concettuale vero e falso sé, laddove: “Noteremo subito che “falso e vero sé” non designano mai due tipi di personalità, ma formano una coppia, una bipolarità in seno al medesimo individuo. Coppia la cui relazione non è univoca: il falso sé dissimula il vero sé così come lo protegge…”
Non nascondiamo il fatto che il vero sé evoca per entrambi gli Autori quella necessità di proteggere il bisogno di non comunicare, quella “solitudine essenziale” così cara a Winnicott e che ci induce a pensare in associazione che Pontalis, pur “mostrandosi” e dipingendo con le parole, soprattutto nei suoi brevi racconti, alcune delle sue (auto) rappresentazioni, attraverso aneddoti che recano un’impronta autobiografica, condividesse lo stesso bisogno. Come abbia risuonato nel suo profondo “il pressante bisogno di comunicare e il bisogno ancora più pressante di non essere trovato…Essere nascosto è una gioia ma è una catastrofe non essere trovato”! (Winnicott “Comunicare e non comunicare”, citato da Pontalis in “Tra il sogno e il dolore”)
Riecheggia in noi il famoso motto di Goethe citato da Freud; ”Non c’è modo migliore per nascondere qualcosa che metterlo in piena vista”!
E Pontalis “ci rivela l’essenza del suo pensiero” (177) quando cita Winnicott, il quale imbarazzato dalla domanda di una traduttrice, afferma:” Credo che chi utilizzi il termine self non si situa sul medesimo registro di chi utilizza il termine io. Il primo registro concerne direttamente la vita, il fatto di vivere.”
Ciò che anima l’io per PONTALIS non sta nell’io stesso, aggiungerà. Il sé è …il “rappresentante del vivente": spazio aperto, ai due estremi, sull’ambiente che lo nutre prima e che in cambio egli crea. Essere qualcuno che vive”. (178)
E conclude l’articolo scrivendo:” Qualsiasi sia la riserva da fare sui termini vero e falso ripresi da Winnicott, non bisogna perdere di vista che per lui si inseriscono all’interno di una teoria molto elaborata dei ruoli rispettivamente giocati dalla maturazione e dall’ambiente nello sviluppo del bambino. La bipolarità “falso sé-vero sé” dipende dall’equilibrio, sempre così difficile da edificare, tra le forze maturative e gli apporti dell’ambiente. Molto schematicamente, si potrebbe dire che il falso sé giunge a organizzarsi e a funzionare come una quasi-persona nel caso in cui l’influenza dell’ambiente sia eccessivamente valorizzata per compensare un difetto di maternage, di holding; il falso sé salvaguarda allora il bambino dal rischio di una disintegrazione, da ciò che Winnicott. chiama l’angoscia “impensabile”.
Ecco, secondo me, un esempio di elaborazione teorica che, pur aderendo in maniera irrinunciabile alle basi metapsicologiche della psicoanalisi non disdegna, sopportando quindi l’apparente/sostanziale contraddizione, di integrare fecondamente e far lavorare, nel suo procedere teorico, concetti utili e pragmaticamente ancorati alla clinica
Senza fascinose indulgenze concettuali, ma anche contro una certa “concezione e pratica dell’analisi, (il riferimento è soprattutto alla Klein) che farebbe di questa “una macchina per interpretare, destinata solo a “tradurre” ciò che dice e ciò che prova il paziente”. Laddove il rischio è “la compiacenza, la sottomissione all’ambiente, l’idea di un soggetto captato nel sistema dell’altro”.
“Mi è parso - egli conclude - che la questione del sé dovesse, non volendo limitarci a un dibattito scolastico, essere esaminata nella prospettiva di questa problematica più ampia. A quali condizioni ciò che accade a un individuo acquista senso e vita per lui? È questo a mio avviso il punto di discussione per Winnicott; e qui risiede ciò che la sua espressione “vero sé” indica in modo tale da dare adito a molti malintesi… Vero e falso sé…designano il movimento di una relazione. Dopo tutto il paradosso della situazione analitica non sta nel fatto che un altro che non è un altro me ma un neuter sottratto allo sguardo, mi è necessario per trovarmi?