Martyrdom of St Hippolyte - Dieric Bouts (1415 - 1475)
La Via di Cresta.
Intervista a Maurizio Bettini su “Dialogo, censura e cultura della cancellazione”
di Fiamma Vassallo
Per cominciare vorrei proporle di prendere in esame la parola che mi è parsa centrale nel suo lavoro: differenza. L’etimo è latino, dis-fero: porto di qua e di là.
L’esempio è tra i più cruenti: Mezio Fufezio, re di Alba, è punito da Tullio Ostilio per aver tradito l’alleanza promessa a Roma nella battaglia contro Fidene. Poiché egli ha avuto “sentimenti divisi” tra le parti in guerra, la punizione è un contrappasso: legato gambe e braccia a due quadrighe, tirato di qua e di là, viene straziato nelle membra. Da differenza, dunque, a divisione, lacerazione. Nello scorrere il suo testo, ho potuto notare una certa oscillazione, tra momenti in cui la sua argomentazione si orienta in modo nettamente oppositivo rispetto alle istanze (ovvero, più propriamente, ai metodi, alle pratiche, e agli eventuali esiti) della cancel culture e della decolonizing classics, e altri in cui ne recupera le tematiche, tentando con esse un dialogo, uno sfregamento foriero di (possibili) scintille di conoscenza.
Scrive: “la via di cresta che si è venuta aprendo di fronte a noi scorre tra i due versanti del rifiuto morale dei classici da un lato, e del far finta di nulla dall’altro”.
Utilizzando un lessico psicoanalitico, è come se ci trovassimo tra il rischio di una scissione (tirati di qua e di là), e il tentativo di un lavoro psichico di integrazione. È possibile mantenere una differenza, senza escludere la presa in considerazione delle ragioni dell’altro?
Dato che fa riferimento al mio esempio (via di cresta fra rifiuto morale dei classici e far finta di nulla), penso che lei si riferisca a una differenza di opinioni, di visione di un certo fenomeno o oggetto, non a una qualsiasi ‘differenza’. Se è così, direi che il mantenimento di questa differenza, diciamo non esclusiva delle ragioni altrui, sia non solo auspicabile, ma possibile. Perché questa possibilità si realizzi però è necessario che sia condivisa questa premessa: che le due parti siano sincere, se pure guardando in direzioni diverse; che siano realmente interessate all’oggetto o tema in discussione, diciamo (con Platone) al raggiungimento della conoscenza di quel fenomeno; che non celino altri scopi (ideologici, politici etc.) dietro le loro affermazioni. In altre parole, che con le loro reciproche prese posizione non stiano in realtà difendendo altro da ciò che dichiarano. Altrimenti qualsiasi differenza è destinata a rimanere incolmabile.
Un punto in cui si sofferma la sua analisi riguarda la questione delle identità (la tenaglia della identità). Identità è un concetto che non appartiene alla psicoanalisi, che descrive piuttosto il soggetto come costitutivamente diviso, singolare collage di identificazioni molteplici, ovunque abitato dall’inconscio; l’identità dal punto di vista psicoanalitico è una costruzione dell’immaginario, una posizione di volta in volta occupata dal soggetto nella scena della fantasia inconscia. Questo mi sembra particolarmente affine al concetto di Persona che lei propone. Mi sembra che anche Lei, come oggi avviene nella clinica, prenda atto dell’emergere di una sorta di angoscia identitaria. Come se il soggetto contemporaneo, avvertendo una marcata fragilità nella propria costituzione identitaria, dovesse puntellarla attraverso enunciazioni di appartenenza, spesso accompagnate da demarcazioni cariche di odio per ciò da cui o attraverso cui si differenzia. In questo contesto, il divorzio dalla cultura classica potrebbe rappresentare l’emergere di un (nuovo) mito di autofondazione (indicando una forte problematizzazione dei rapporti identificatori tra le generazioni)?
Disgraziatamente il concetto di identità collettiva è divenuto centrale nel dibattito pubblico, nelle scelte della politica, nella percezione che molte comunità o parti di esse hanno di se stesse. Dico disgraziatamente, perché l’identità collettiva è un concetto pericoloso, oppositivo, contrasta necessariamente un “noi” con un “loro”. Se l’identità è espressa dalla formula A = A, è ovvio che non si può modificarla in A = B. Tuttavia il principio di identità collettiva può svolgere una funzione positiva quando è rivendicato da minoranze oppresse per ottenere i propri diritti, sempre che ciò riesca ad avvenire senza ricorrere a scontri armati o mezzi violenti (questo rischio c’è sempre). Sicuramente però il principio di identità collettiva non può svolgere una funzione positiva quando si rovesciano i termini della questione, ossia quando sono maggioranze che lo invocano versus minoranze che – se accolte o integrate – turberebbero o inquinerebbero l’identità della maggioranza. L’Italia, in questa fase storica, come molti altri paesi, inclusi gli Stati Uniti, mi sembra che stia sempre più spostandosi in questa direzione. Tornando agli studi classici, sono d’accordo con lei. Abolirli, mutilarli, depurarli, può essere un modo per stabilire una propria ‘differenza’ fondativa rispetto all’assetto culturale precedente, o a quello tuttora condiviso da una parte delle élites culturali. In questo senso non sarebbe neppure un fenomeno nuovo. A partire da Tertulliano nel III d. c., che riteneva inutile, anzi dannosa, la lettura dei classici, per affermare le realtà della nuova religione; fino alla Francia post-rivoluzionaria, che voleva liberarsi dai classici in quanto matrice della ideologia rivoluzionaria e soprattutto dei suoi eccessi; o alle posizioni decisamente anticlassiche dei futuristi in Italia, alfieri della modernità e della tecnica contro la tradizionale cultura umanistica italiana.
Tentando di abbordare il tema della cancellazione, si aprono una grande quantità di questioni. Vorrei proporle una riflessione su un punto critico che a differenza di altri, inevitabilmente più distanti, chiama fortemente in causa il nostro paese. Si tratta della possibilità di problematizzare la questione ancora aperta con il nostro più recente passato traumatico, che con i simboli della classicità intrattiene un rapporto non semplice. Non le sembra che, trascinati dalla tempesta del progresso, abbiamo trascurato di considerare l’esito di un’incompleta elaborazione del trauma rappresentato dal fascismo, nel momento in cui i suoi simboli -sottratti alla classicità- permangono muti nelle nostre città? Dal punto di vista psicoanalitico, la cancellazione ha a che fare con i meccanismi psichici del negativo, operazioni attraverso cui l’esperienza traumatica viene respinta, ovvero denegata, rigettata, scissa. Dall’altra parte, quella che lei chiama indifferenza, sembra poter avere a che fare con giacenze mute, tracce non simbolizzate, sassi che non parlano. Non è questa un'altra via di cresta, tra il pericolo di una cancellazione violenta, che esporrebbe al rischio di incorrere in un destino di ripetizione, e il pericolo dell’indifferenza, che porterebbe a una sorta di naturalizzazione de-simbolizzante, per la quale un monumento vale l’altro, ogni simbolo è intercambiabile, reso muto, cancellando, ancora una volta, le differenze?
Premetto che in Italia il rapporto fra classicità e fascismo è stato ampiamente discusso e approfondito da studiosi come Luciano Canfora, Andrea Giardina, Mariella Cagnetta e tanti altri, anche sotto l’aspetto del permanere dei simboli che il fascismo ha tratto dalla antichità romana. Quindi in questa prospettiva non c’è stata inerzia o rimozione, al contrario. In generale, però, mi sembra che la sua domanda tocchi un tema che, sottotraccia, si ridesta ogni anno nel Giorno della Memoria o del 25 Aprile. Occasioni in cui questo tema riesce ad emergere solo in qualche manifestazione di piazza o polemica sui media. In queste due giornate celebriamo alternativamente una sconfitta, un orrore, e una vittoria, ma i simboli di ciò che condusse a quell’orrore e ci costrinse a una guerra civile sono ancora lì. Come considerarli? Simboli ancora vivi di una tragedia inflitta, e come tale da cancellare, o testimonianze di una fase storica, nel qual caso lo storico invita alla loro conservazione? Sono d’accordo con lei che l’atteggiamento peggiore, però, sia quello di ‘far finta di nulla’, ignorare. Una reazione razionale vorrebbe che oggi questi simboli e monumenti, quando non rimossi dopo la guerra, servissero da aphormài – così chiamo nel mio libro gli spunti di riflessione storico-antropologici – per la formazione dei giovani nella scuola, suscitando discussioni e approfondimenti del passato. Si tratta però di un problema complesso, reso ancor più tale dall’avere oggi in Italia un partito postfascista che detiene la maggioranza e quindi più o meno consapevolmente frena questo tipo di iniziative e favorisce l’inerzia (in qualche caso addirittura la revisione positiva). Allo stesso modo in cui, 50 anni fa, il problema era reso complesso dalla presenza ancor viva nel popolo italiano degli interpreti del fascismo. Pensi al famigerato dr. Guida, questore di Milano alla fine degli anni Sessanta e funzionario della questura di Roma durante il periodo dell’occupazione tedesca. Da qui la scelta dell’indifferenza, del silenzio, dell’inerzia anche sui simboli e monumenti del fascismo.
“Allora, che si fa?”
Per finire, vorrei soffermarmi su quelle che appaiono come proposte costruttive, che ci permetterebbero, eventualmente, di passare il crinale tra opposizioni egualmente negative. Lei indica a questo proposito in primo luogo l’esercizio del dialogo, riferendosi a Platone, ovvero la possibilità di non sottrarsi al confronto con l’altro -trincerati nelle proprie posizioni e arroccamenti identitari- cercando la scintilla di verità nello sfregamento dei linguaggi, un po’ come vorremmo accadesse in questa nostra occasione di incontro. In questo stesso sforzo ho recepito il suo riferimento a Solone, alla moderazione del linguaggio, che non è censura, ma accoglimento dell’altro nel rispetto della sua sensibilità e nella considerazione delle vicissitudini della sua singolarità (inclusi i suoi traumi). Mi sembra infatti che Lei sostenga che si debba proporre un linguaggio che non risulti urtante o traumatico per chi lo riceve, e qui mi riferisco -in particolare - alla questione della posizione della donna nella cultura greco-romana (ma non solo in essa, evidentemente), in rapporto al presente della condizione femminile, tutt’altro che pacificata. Se questo non vuol dire censurare Apuleio, né Ovidio, né Plauto, né edulcorarli, né far precedere i loro testi da trigger warning, come si potrebbe garantire una forma di presa di distanza da quelle parti del testo che incontrano la sensibilità di una lettrice contemporanea?
Prendendo queste occasioni in positivo, non come offesa alla presente consapevolezza femminile, ma come occasioni di discussione e approfondimento su un passato della condizione della donna che alcuni angoli, non sempre minoritari, della nostra cultura e della nostra società conservano ancora. E che comunque costituiscono i presupposti spesso capaci di spiegare come e perché il ruolo della donna si è costruito nel tempo in questo modo, tanto che oggi le donne sono costrette a lottare per cancellare certi stereotipi. Vedere che essi risalgono molto indietro nel tempo, sono legati a concezioni religiose che nei secoli si sono avvicendate, a forme sociali che abbiamo dimenticato, aiuterebbe a cancellare l’idea che la donna si sia trovata e si trovi a vivere certe esperienze negative esclusivamente perché i maschi sono possessivi, astuti e maligni, ma perché anche la cultura di questi ultimi viene da molto lontano. Faccio un esempio. La società romana, in cui la famiglia aveva struttura di tipo “patriarcale”, in quanto fondata sull’autorità assoluta del pater familias, non era oppressiva solo per le donne, ma anche per i figli maschi e tutti i membri della familia, completamente sottomessi all’autorità del pater finché costui non moriva. L’adozione di questa forma sociale, che nel tempo andò diluendosi, non era orientata alla sola oppressione della donna, come a volte si fa credere, ma a quello di tenere insieme i membri di una stessa famiglia e conservare unito il patrimonio. Di conseguenza occorre tener conto del fatto che la posizione subalterna della donna - peraltro a Roma temperata anche da privilegi e forme particolari di rispetto, che vanno ugualmente indagate – oltre che da motivi più generali (il timore per la purezza della stirpe, la tradizionale ripartizione dei ruoli, come la non partecipazione della donna a impegni militari) era anche determinata dalla struttura propria della famiglia romana. In questo senso, la lettura di testi che mettono in evidenza l’inferiorità femminile a Roma può trasformarsi in un valido strumento di ricerca sulle cause remote di un fenomeno attuale.