A proposito della serata “Dialogo, censura e cultura della cancellazione” in programma il 12 febbraio al Centro Psicoanalitico di Roma
Mi avvicinerei al tema dei diritti delle minoranze (e delle loro vicissitudini) partendo da un oggetto pop: da poco è uscito “La ragazza con i tentacoli”, film d’animazione della DreamWorks.
Siamo tutti cresciuti tra favole e leggende che parlano di mostri e principesse. Ma cosa accadrebbe se la principessa e il mostro fossero la stessa cosa e il problema adesso fosse che la principessa-mostro sogna di andare al ballo di fine anno ma viene rifiutata perché “diversa”? L’operazione del film è qualcosa che di recente abbiamo cominciato a conoscere, si tratta del ribaltamento delle conoscenze del pubblico per farne uno strumento di sensibilizzazione sul rispetto delle differenze. Quando le minoranze e i “diversi” sono oggetti di marketing, come ci insegnano le Barbie multiculturali e le sezioni LGBTQIA+ del catalogo di Netflix, sono le benvenute. Il problema comincia quando gli stessi pretendono di diventare soggetti di diritto. Come mai questa contraddizione?
AF: È nella natura stessa del mercato, tanto più se maturo come nell’oggi, essere, da una parte, neutrale rispetto alle differenze esistenti tra i consumatori, dall’altra estremamente attento a identificare quote di mercato fortemente profilate cui destinare specifici prodotti. Peraltro, l’attività di profilazione fornisce oggi, grazie all’uso dei cookies, una quantità e qualità di dati come mai prima si è registrato, così da rendere quanto mai sofisticata, pertinente e individualizzata l’offerta di beni e servizi. Ma sbaglieremmo ad attribuire valenza politica ad operazioni che sono orientate al profitto, scambiandole per manifestazioni di responsabilità̀ sociale delle imprese che producono o commercializzano questi prodotti misurati su “minoranze” e presumendo che li utilizzino come strumenti di sensibilizzazione sul rispetto delle differenze. Chi così le avvertisse, magari proprio un rappresentante di quelle minoranze, rischierebbe una delusione cocente. Il mercato ha le sue politiche, anche suggestive e attraenti (è il suo mestiere), well oriented nel migliore dei casi, ma la durezza del riconoscimento pieno e comunemente accettato del diritto di minoranze e “diversi” è tutt’altro. La creazione di un senso comune condiviso del diritto al riconoscimento dell’alterità, come fondamento del diritto alla pari dignità sociale e all’uguaglianza nel godimento dei diritti fondamentali, è un compito di straordinaria difficoltà. La soluzione non sta soltanto nella previsione di una norma che affermi e tuteli un diritto, quanto nel fatto che quell’affermazione sia inserita in un orizzonte di senso condiviso, che “abiti” coscienze individuali e collettive, che venga avvertita come elemento di un patto che garantisca tutti. Sta qui, in questa relazione positiva continuamente rinnovata, la forza della legge.
Non è un caso che la Costituzione (art.2), dopo avere affermato che la Repubblica (quindi non solo lo Stato) riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. È l’aggettivo “inderogabili”, usato nel testo costituzionale questa sola volta, a dare il senso della difficoltà.
Maurizio Bettini, citando l’eredità di Platone lancia un invito a proteggere il dialogo: solo l’alterità che abita la storia di ciascuno è qualità che consente l’ascolto della storia dell’altro. Eppure, è evidente che a muovere la macchina politica oggi sia un’economia pulsionale delle intensità più che della complessità. E’ proprio su questo punto che i dispositivi democratici diventano vulnerabili?
AF: La pulsionalità nell’agire politico mostra una forma di esercizio del potere approssimativamente riconducibile al cosiddetto populismo, che ripudia le forme della razionalità democratica, per loro natura fondate sulla (anche questa) difficile arte dell’ascolto e del dialogo finalizzati alla composizione del conflitto ed alla ricerca di soluzioni efficaci e verificabili entro un quadro di principi condivisi.
Ne abbiamo esempi “luminosi” nella politica di molti Paesi, il nostro compreso, e va di pari passo con la crisi del modello democratico.
Questa “economia pulsionale dell’intensità”, come lei la definisce, ha per sua natura, per garantirsi la propria perpetrazione, la necessità di attizzare fuochi anziché́ spegnerli, operazione piuttosto semplice in un tempo attraversato da grandi cambiamenti e da altrettanto grandi, e talora inedite, paure i cui focolai abbondano. Una delle prime è la paura nei confronti degli immigrati, i “diversi” per eccellenza, ma potremmo aggiungere il sentimento di insicurezza che cresce nelle città stranianti che abitiamo.
L’agire politico pulsionale si nutre di un senso comune che origina “a tentoni” da quelle paure e sa bene che esse sono insaziabili, e dunque appresta continue misure che rispondano a quel sentimento, usa a piene mani la minaccia di sanzioni penali, torce il concetto di sicurezza pubblica, eleva il carcere o comunque la restrizione delle libertà a rimedi per eccellenza, asseconda stigma sociali, in un parossismo che ignora la necessità soluzioni complesse, spesso multidisciplinari, a questioni complesse.
Non c’è spazio per il dialogo perché si ignora il campo proprio del confronto con pensieri diversi, delimitato dalla comune accettazione di un quadro di riferimento valoriale, addirittura di un lessico, comuni.
Semplifica e, nel farlo, appare rassicurante, ma corre il rischio di impattare su regole essenziali del sistema costituzionale e dell’agire democratico di istituzioni e organi dello Stato. Apre, di conseguenza, nuovi fronti di conflitto.
Tutela dei diritti delle minoranze sociali o rivendicazioni identitarie che privano le maggioranze della memoria dei “classici”? Legittimità di riattraversare i “classici” o uso della cultura occidentale come strategia di dominio? Libertà d’espressione o definizione di posizioni di potere? In “Chi ha paura dei Greci e dei Romani”, Maurizio Bettini cerca di sovvertire l’aut aut e mette al lavoro la questione delle differenze. Potrebbe aiutarci a comprendere perché oggi chi fa un discorso politico non può più ignorare la questione?
AF: Credo che il libro di Maurizio Bettini risponda compiutamente e felicemente alle sue domande, ma vorrei aggiungere una riflessione a proposito dei fenomeni di cui si occupa.
Non mi consola che oggi a mettere all’indice Plauto o Dostoevskij siano i well oriented. Anzi, mi preoccupa di più, perché mi pare che il rischio non sia solo una diffusa intolleranza nei confronti delle ragioni degli altri, che è pure assai grave in sé, specie se maneggiata senza limite, quanto piuttosto una lettura del mondo, delle idee, delle persone e della storia assolutamente piatta, piatta come lo schermo di un qualunque dispositivo.
Mi ha sempre colpito, facendo ricerche sul web, il fatto che non sia immediata la collocazione temporale della massa di informazioni che ci propone, come se tutto vivesse/sopravvivesse nel presente.
Mi pare, invece, che solo la profondità dello sguardo, la sua ampiezza e il situarlo in un tempo preciso possano dare per davvero conto del mondo e della sua storia, fondare giudizi, far maturare l’idea di voler stare da una parte o dall’altra. Senza le obiezioni di un altro, la mia ragione è piatta. Nel confronto o nel conflitto con altre ragioni trova spessore, profondità, appunto.
La Bibbia abbonda di personaggi o condotte politically uncorrect. Abramo è pronto a sacrificare Isacco a Dio, per esempio, e ci pare oggi mostruoso quanto il sacrificio di Ifigenia. Ma nella tradizione religiosa resta il primo dei Patriarchi e il simbolo dell’obbedienza al Creatore e nessuno ha mai pensato di cancellarlo dalla Genesi. O forse dovremmo cancellare lo splendore di Caravaggio o di Brunelleschi perché ritraggono l’attimo in cui il coltello sta per affondarsi nella gola di Isacco? Non sarebbe meglio capire perché Kierkegaard (e tanta altra riflessione, psicanalitica, oltre che filosofica) dedica ad Abramo e alla sua obbedienza spazio nella propria elaborazione filosofica? O interessarsi alla pratica del sacrificio dei primogeniti nelle comunità̀ israelitiche di quattromila anni fa e considerare che proprio da quell’angelo che ferma la mano di Abramo comincia il ripudio di una tradizione radicata e infame? Questo, appunto, significa contestualizzare, andare in profondità, intrecciare i fili. Non si tratta in alcun modo di rinunciare a sostenere ciò che ci appare giusto, né di relativizzare, operazione anch’essa pericolosa se esercitata senza criterio. Si tratta di capire e rendere più forti le nostre ragioni. E questo è, in sé, metodo e pratica politica, anche sulla questione che lei pone. Comprendo che sia un esercizio faticoso e talvolta anche inquietante, che normalmente richiede la disposizione al confronto di tutte le parti. Cancellare è invece (apparentemente) rimedio catartico a costo zero. Fantastico. In fondo continuano a farlo, sentendosi benissimo, anche quelli che velano e nascondono le donne, le cancellano, considerando oltraggio alla propria virtù̀ (non così salda, dunque) l’identità, la libertà e la bellezza femminile.
Cancel culture, decolonizzazione dei classici e politicamente corretto sono fenomeni che da psicoanalisti potremmo leggere come sintomi. Pratiche sociali che fanno riferimento alla difesa dei diritti delle minoranze e dei gruppi subalterni, ma che per alcuni rischiano di esprimere una nuova forma di intolleranza, eppure i problemi della discriminazione e della subalternità restano. Se ne parla come di una guerra fatta non più di bombe, ma di parole, codici, concetti e soprattutto identità. Un conflitto non elaborabile che riguarda l'interpretazione della realtà e la definizione dei significati. Dove però a saltare per aria sarebbero i tavoli negoziali di un “senso comune”. Che ne pensa? Una legge potrà mai ristabilirlo?
AF: So bene che ciascuno di quei fenomeni si assume come pienamente legittimato dalla necessità di tutelare le minoranze, ma mi pare una difesa arretrata nel senso che, piuttosto che mutilare il passato, dovremmo costruire il futuro e, suggerirei, non in chiave di tutela, quasi a continuamente a sottolineare una minorità, ma di affermazione e rispettoso riconoscimento di identità plurali, tutte libere e compiute. Se ci attardiamo a processare il passato (operazione tanto impegnativa quanto inutile) sprechiamo tempo ed energia e rinunciamo alla più profonda e faticosa opera di costruzione di un nuovo senso comune. Per fare questo bisogna rendere fecondo il conflitto. Mi avventuro sul terreno del Professor Bettini: conflitto è etimo che logicamente descrive la o-posizione, e dunque l’urto, la collisione tra due individui, due entità. Il cum fligo è esso stesso un venire in contatto, un incontro dunque, seppure violento, seppure tra diversi, se non addirittura ostili. Nell’origine (Lucrezio; Cicerone) rimanda alla possibilità di una relazione tra due entità, al confronto, al contatto e solo più tardi acquisisce il significato esclusivo del combattere. L’etimologia ci dice perciò̀ che in origine per conflitto si intende un incontro generativo tra realtà differenti. È Karl Marx: “non vi è progresso senza conflitto”. Non c’è legge che possa eliminare il conflitto non elaborabile di cui lei parla, perché́ è questione che riguarda il porsi dell’uomo rispetto alla conoscenza, alla relazione con l’altro, alla celebrazione della propria identità, che si ritiene autosufficiente, alla relazione con il tempo della vita, con le generazioni passate e future e molto altro ancora e non tutto è giuridicizzabile, né governabile con la prescrizione della legge. Potrebbe essere il campo di esercizio di una pedagogia politica, nutrita da un confronto continuo. Altrimenti rischiamo (e in parte è già successo) un nuovo conformismo di facciata.
Secondo il paradigma delle differenze chi ha il potere deve sapersi decostruire, cioè deve decostruire la posizione dalla quale parla. Ci si può riuscire senza rinunciare al potere?
AF: È la precondizione del dialogo. Altrimenti c’è solo l’esercizio solitario e autoritario del potere rinnegando la funzione prima della politica, che in un sistema democratico comporta la pratica del confronto tra opinioni di uguale rango e di uguale legittimità. E la prima decostruzione, per usare il suo termine, sta proprio nel riconoscimento dell’interlocutore.
Il mercato favorisce il libero corso degli scambi e dei flussi. In questo senso il Capitalismo spinge al consumo a prescindere dalle identità. In un certo senso è disposto a contaminare e tradire tutte le identità e allo stesso tempo a irrigidirle: purché si consumi. Proprio per questo Trump vince le elezioni difendendo l’identità del maschio bianco etero come se fosse una minoranza “vittima” del sistema?
AF: La scelta di Trump è conseguente ad una narrazione che mostra le diversità come elemento di disordine e che volutamente rinuncia ad addomesticare il conflitto, anzi lo alimenta, nutrendolo della primazia di chi è simile al modello (maschio bianco eterosessuale). Essere simile, però, non significa affatto essere uguale, nell’accezione in cui lo intende la tradizione democratica.
Perché in un mondo apparentemente sempre più aperto alla molteplicità proprio la battaglia identitaria si attesta come vulnerabilità rispetto a un contraccolpo paranoico?
AF: Bisogna intendersi anche sul termine identità, che non a caso viene rivendicata (ancora una volta, pensiamo all’identità ariana) come parola delle destre. Rischiamo la vulnerabilità se non andiamo oltre la sua proclamazione, mettendo l’identità in continua relazione con l’altro da noi.
Partire da una domanda “materialista”, fare attenzione alle spinte in campo, apre necessariamente il sapere ad una sensibilità politica, ma contemporaneamente lo espone al rischio delle parole d’ordine, delle polarizzazioni… come se ne esce?
AF: Rispondo con una domanda: non è sempre stato così? Ovviamente in un mondo e in una società sempre più complessi, plurali e interconnessi, il rischio è più alto. Ricordo la saggezza dei Costituenti: “L’arte e la scienza sono libere e libero è il loro insegnamento” (art. 33 della Costituzione).
Che libertà propone la sinistra a fronte delle proposte di libertarismo-anarco-capitalista delle destre sovraniste e populiste?
AF: La libertà tra uguali, con la responsabilità̀ e i doveri che questo comporta a livello individuale e collettivo.