Clinicamente

Ritornelli dell’incompiutezza. Etica&Psicoanalisi di resti, corpi e relazione di C. Buoncristiani e T. Romani

Perché la clinica ci insegna che il soggetto "intero", chiuso, saldo e autosufficiente non è mai appartenuto all’esperienza dell’esistere


Ritornelli dell’incompiutezza. Etica&Psicoanalisi di resti, corpi e relazione di C. Buoncristiani e T. Romani

E s’è visto che non era una semplice questione di misura,

di equilibrio tra le parti, ma di una consistenza (…) che,

 (…) poteva implicare eccessi al limite del sostenibile,

guazzabugli da far digrignare i denti.

F. Guattari. Ritournelles

Se c’è qualcosa che impariamo tutti i giorni dalla clinica è che ogni teoria dell’umano che pretenda di fondarsi su un principio di compiutezza è già una finzione. In effetti l’idea di un soggetto intero, autonomo, compatto, capace di bastare a se stesso — chiuso, saldo, autosufficiente — non è mai appartenuta né all’esperienza dell’esistere né alla logica profonda del desiderio. È un’idealizzazione, un fantasma, un artificio del pensiero occidentale che rischia di trasferire sul soggetto una sorta di “delirio di integrità”.

Il ritornello dell'incompiutezza è un primo tentativo di trovare ordine nel caos. Un primo rifugio, un tentativo di dare senso e avere presa sul caos.

La psicoanalisi — nei suoi momenti più radicali — lo ha sempre saputo: ciò che ci costituisce non è l’identità, ma la sua impossibilità. Che se lo dimentichi in momenti strategici è un altro discorso... Ma di fatto non l’Uno compiuto, ma la ferita che lo attraversa è materia di psicoanalisi. Non l’intero, ma ciò che si versa fuori risulta essere la domanda etica che ogni paziente ci pone.

Quel resto — l’irrappresentabile che sorprende la seduta, das Ding, l’objet petit a, il corpo senza organi — non è un difetto da correggere. È la condizione stessa dell’umano. È quello che ci spinge a cercare l’altro, a parlare, a desiderare. Non per completare una perfezione originaria, ma per restare in bilico, dove tutto resta in gioco, per continuare a disfare, traboccare, creare — e dunque a r/esistere.

Lo scarto è tutto quello che abbiamo quando qualcosa ci cambia in analisi. E’ dove ci trasformiamo: è la nostra materia prima.

Non si desidera perché si è interi. Né si ama perché ci manca qualcosa da aggiungere.

Si desidera perché qualcosa eccede. Si ama perché c’è un qualcosa che non si lascia integrare, che r/esiste a ogni compiutezza, che impedisce al soggetto di chiudersi su sé stesso come un cerchio perfetto.

Non c’è alcuna totalità infranta da restaurare. È proprio il contrario: l’umano nasce perché non ha un fondamento unitario, perché è attraversato da un’irriducibilità che lacera ogni pretesa di compattezza, che buca la forma, che disarticola la finzione dell’identità piena.

Il desiderio non è nostalgia dell’intero. È il movimento stesso di ciò che non può mai perfezionarsi. È il segno di un’erranza che ci abita e che ci spinge fuori, verso l’altro, non per colmare una mancanza una volta per tutte, ma per perseverare nel gesto impossibile di esistere senza fondamento. La relazione non nasce per ricucire quindi una ferita iniziale. La relazione è quello che accade quando la vita smette di idealizzarsi e si lascia attraversare, diviene materia esposta, corpo instabile, come frammento che non può fare Uno — e proprio per questo insiste a cercare, a connettersi, a non avere mai fine.

C’è una linea laterale, quasi clandestina, nella storia del pensiero occidentale. Una linea che non ha mai creduto nella compiutezza. O che, quando l’ha nominata, l’ha sempre caricata di una contraddizione interna, di un’instabilità originaria, di una eccedenza inassimilabile.

Già Plotino, come un alchimista inquieto, si accorge che l’Uno — per essere tale — non può che traboccare, generare, eccedere. L’Uno plotiniano emana. Non resta mai chiuso su di sé.

Perché l’Uno è come l’essere. E l’essere complica tutte le cose.

La mistica negativa — Dionigi Areopagita, Meister Eckhart — svuota l’Uno di ogni forma: l’Uno è ciò che nessuna cosa può contenere.

Poi Georges Bataille… radicalizza tutto: l’essere è dépenser, dispendio, perdita continua. Il sacro è proprio questo: ciò che non torna nell’economia dell’utile. Il resto che brucia.

Derrida parla di différance: ogni identità è differita, alterata, mai presente a sé stessa. Infestata dal fantasma di ciò che resta fuori.

Tra gli psicoanalisti Winnicott lo aveva intuito: non siamo mai del tutto noi stessi. Siamo sempre in bilico tra una forma sociale compiuta — un falso sé — e una zona viva, incompiuta, che resta in attesa di relazione.

Laplanche parla di un Altro originario che ci abita fin dall’inizio. Non esiste un sé integro: esiste un corpo attraversato da messaggi estranei, da enigmi non risolvibili.

Aulagnier lo ha detto chiaro: nessuno nasce con un io in tasca. L’io è una storia che si regge finché regge il corpo che la porta.

Ecco allora la politica del resto. Non c’è relazione malgrado il resto.

C’è relazione grazie al resto. Siamo resti che si cercano.

Non per ricomporsi in Uno. Ma per continuare a zoppicare insieme.

Il resto — in questa prospettiva — non è inteso come quello che avanza dopo una lavorazione psichica, non come il residuo di un processo di traduzione, di metabolizzazione, di elaborazione simbolica. Non è lo scarto che resta ai margini di un soggetto che lavora incessantemente per dare senso, per integrare, per fare Uno. Tutto questo c’è, ma non è di questo che stiamo parlando.

Il resto di cui si parla qui avviene al lato di ogni lavorazione. O meglio: rimane e r/esiste a ogni lavorazione. Non è elaborabile, non è digeribile, non è trasformabile in racconto. Non si lascia simbolizzare, non si lascia ricondurre alla rappresentazione.

Ciò che chiamiamo Due — l’incontro, la relazione, il legame — non è un’unità aumentata. Non è la somma di due identità intatte che decidono di allearsi, di coabitare, di darsi la mano nel mercato dei sentimenti.

Il Due è già una crisi. Una frattura. Un’interruzione della finzione dell’Uno.

L’amore — ma anche l’amicizia, la politica, il desiderio — cominciano quando l’Uno cede, si squarcia, si lascia contaminare dal resto che lo abita.

Jean-Luc Nancy nominava l’essere come “essere-con”. Non perché ci siano individui autonomi che decidono poi di entrare in relazione — ma perché l’esistenza è fin dall’inizio relazione. Essere significa essere-esposto. Essere in-completo. Essere costantemente attraversato dall’altro.

Ma questo “altro” non è sempre visibile. Non è sempre un volto, un nome, un corpo identificabile. A volte l’altro è un fantasma. A volte è un algoritmo. A volte è la voce rotta di una madre assente, il ricordo di una città che non c’è più, Gaza, la traccia digitale lasciata in un archivio dimenticato.

Il Due che abitiamo oggi — in questo presente tecnorganico, urbano, connettivo — è un Due attraversato da resti non umani. Non è più solo il volto dell’altro a guardarci. È la macchina che registra i nostri movimenti. È la rete che conserva i nostri dati. È il glitch che interrompe la comunicazione. È il blackout improvviso in una periferia iperconnessa.

Camminiamo tra rovine informatiche, tra corpi aumentati e frammenti di passato non integrabile. I ponti di cemento delle tangenziali ci osservano come rovine di una modernità che sognava l’Uno. Le architetture abbandonate — scheletri di centri commerciali falliti, stazioni dismesse, quartieri gentrificati e poi svuotati — sono i resti materiali di un sogno di compiutezza infranto.

In questi spazi — reali e simbolici — il Due prende corpo. Ma non come armonia. Non come fusione.

Piuttosto come attrito, come scontro, come impossibilità di coincidere.

Le politiche del Due — oggi — non possono che essere politiche del resto.

Significa pensare la relazione non solo come spazio di integrazione, ma come spazio di r/esistenza. Significa concepire l’incontro non solo come terapia del soggetto ferito, ma come proliferazione dei possibili.

Da un certo punto di vista, non ci si ama per guarire.

Ci si ama per continuare a disperdere.

Così come non si costruisce una comunità per diventare Uno. Si abita una comunità per restare irriducibilmente Due, Tre, Molti — senza mai chiudersi, senza mai tornare all’illusione dell’intero.

Nella città affettiva del presente — quella fatta di connessioni instabili, di corpi aumentati, di desideri post-umani — il Due è sempre un campo di battaglia. È un ponte sospeso tra macerie. È un contatto precario tra soggettività fragili, esposte, contaminate.

Bisogna imparare ad abitare questa precarietà.

A desiderare non malgrado il resto, ma grazie al resto.

Il corpo è il luogo dove ciò che non torna si fa carne. Dove l’eccedenza dell’essere diventa esperienza sensibile, superficie porosa, archivio instabile di tutto ciò che non può essere ordinato, sistemato, normalizzato.

Non esiste corpo Uno. Non esiste corpo che coincida perfettamente con se stesso.

Il corpo — ogni corpo — è sempre un frammento di pratiche, di storie, di segni, di traumi, di suture malfatte. È ciò che resta dopo la simbolizzazione, dopo il linguaggio, dopo la legge. È la carne che non si lascia interamente dire.

In psicoanalisi il corpo è sempre là dove il significante fallisce. È il luogo del sintomo, del godimento opaco, dell’eccedenza non tradotta.

Ma oggi — nel tempo post-umano, nella città connettiva, nella cultura queer — questa logica del corpo come resto diventa ancora più radicale.

Il corpo è un archivio vivente di innesti, di mutazioni, di protesi semiotiche e tecnologiche. Non è una superficie da proteggere dall’esterno — è un’interfaccia che ha sempre già incorporato l’esterno dentro di sé.

Paul B. Preciado lo scrive in modo lucidissimo: il corpo non è natura. Non è identità. È tecnologia vivente. È il campo di battaglia dove si incontrano farmaci, linguaggi, desideri, pratiche di r/esistenza e di invenzione.

Un corpo trans, un corpo queer, un corpo hackerato, un corpo attraversato da pratiche non normative — non è un corpo che ha perso qualcosa. È un corpo che ha messo in crisi la finzione dell’Uno. È un corpo che mostra, con la propria esistenza, che l’identità è sempre stata una protesi, un montaggio, una narrazione temporanea.

Anche la città — come corpo collettivo — funziona nello stesso modo. Le periferie abbandonate, le architetture brutaliste dismesse, i quartieri in rovina sono corpi urbani che mostrano i resti di una storia che non coincide con se stessa. Sono corpi senza organi metropolitani. Sono spazi che resistono alla normalizzazione, che espongono la ferita invece di rimarginarla.

Attraversare la città, abitare un corpo queer, desiderare in modo post-organico significa questo: imparare a vivere con il resto, non nonostante il resto.

Come nella serie tv cult Mr. Robot: una delle narrazioni più radicali sul resto nel tempo tecnorganico. Elliot non è un soggetto scisso da curare, non è un Io da restaurare. È un corpo esposto a forze che lo eccedono: il capitale, la tecnologia, la memoria, il trauma. I suoi “altri” — le voci, le presenze che lo abitano — non sono un difetto psichico, ma il segno materiale di una soggettività che non è mai stata Uno.

In Mr. Robot il resto è ovunque: nei corpi disturbati dal potere, nei frammenti di città in rovina, nei codici che proliferano oltre il controllo. Elliot abita il resto, l’hackeraggio. Non può liberarsene. È infestato da ciò che non torna mai a posto — e proprio per questo r/esiste, agisce, desidera.

Solo corpi che insistono a esistere nella loro divergenza.

E forse è proprio qui che comincia una nuova forma di etica: abitare il resto, proliferare da lì, lasciare che la carne ricordi ciò che la memoria non sa più dire.

È forse questa la prima verità di ogni etica che voglia abbandonare la nostalgia della totalità: riconoscere che non c’è salvezza nel compimento. Che l’intero è una figura morta. Che l’armonia è una costruzione artificiale e violenta.

L’essere — lo abbiamo visto — è sempre con.

Ma è con frammenti. Con detriti. Con resti che non vogliono integrarsi.

La politica del resto non è la celebrazione romantica del difetto. È il gesto radicale di chi sceglie di abitare la precarietà senza desiderare la restaurazione dell’Uno.

Tra i sintomi e i desideri… che ci permettono di restare umani — e forse, più ancora, di diventare altro da umani — senza mai smettere di abitare ciò che sfugge.



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