"Un atto politico di speranza in un mondo sull’orlo di una guerra globale e un lavoro costantemente in corso" Donna Haraway
L’assegnazione del Leone d’Oro alla carriera a Donna Haraway da parte della Biennale di Architettura 2025 non rappresenta soltanto un riconoscimento simbolico alla sua opera teorica, ma anche una precisa presa di posizione intellettuale e politica. Il gesto curatoriale di Carlo Ratti si situa al crocevia tra architettura, pensiero ecologico e critica epistemologica, in un momento in cui diviene urgente ripensare le categorie attraverso cui l’umano abita il mondo.
Haraway ha da tempo decostruito la narrazione lineare e antropocentrica dell’Antropocene — termine ormai diffuso per designare l’era geologica dominata dalle tracce indelebili dell’attività umana. A questa narrazione, che mantiene il primato umano sulla scena planetaria anche nella catastrofe, Haraway oppone la visione rizomatica e tentacolare del Chtulucene. Qui, la temporalità si intreccia in spirali simbiotiche e multispecie, dove non è più l’umano il centro del discorso, bensì le reti relazionali — biologiche, tecnologiche, affettive — che connettono entità viventi e non viventi in una co-evoluzione radicale.
Questa prospettiva si inserisce pienamente nel dibattito post-umanista, che ha conosciuto grande sviluppo a partire dalla seconda metà del XX secolo, con figure come Rosi Braidotti, ma anche Bruno Latour e Edoardo Viveiros de Castro. Il post-umano non è semplicemente “ciò che viene dopo l’umano”, ma una condizione che sospende le dicotomie classiche (natura/cultura, soggetto/oggetto, umano/macchina), per aprire un campo ibrido e transindividuale in cui si pensa con le tecnologie, con gli animali, con i sistemi planetari. In questa nuova costellazione ontologica, l’architettura stessa — tradizionalmente considerata arte dell’abitare umano — si riconfigura come pratica simbiotica, attenta ai flussi vitali che la attraversano. Ma non solo: come psicoanalisti potremmo chiederci se anche le piazze e le strade, le case e gli spazi pubblici, portano con sé un proprio inconscio. Non si tratta di una metafora poetica, ma del riconoscimento di una stratificazione di segni, desideri, memorie e affetti che attraversano i luoghi, sedimentandosi nel tempo e interagendo con i corpi che li abitano. L’inconscio degli spazi si manifesta nei ritmi urbani, nelle ripetizioni architettoniche, nelle esclusioni sistemiche, nelle pratiche anonime e quotidiane che, come tracce mnestiche, strutturano l’esperienza collettiva ben oltre la coscienza urbanistica o progettuale. È un inconscio topologico, che non risiede nell’interiorità ma si inscrive nella carne stessa dei territori, nei materiali, nei vuoti, nei confini porosi tra interno ed esterno, tra abitare e desiderare.
Ciò che negli ultimi giorni è accaduto nella Capitale, con l’abbattimento del “ponticello” del Pigneto non è altro che questo. Un esempio emblematico. Non un semplice gesto infrastrutturale, ma un atto che ha colpito profondamente un inconscio collettivo. Quel ponte, con la sua struttura modesta e la sua collocazione liminare, non era solo un passaggio: era una soglia simbolica, un varco abituale tra quartieri e tempi, tra storie marginali e affetti sedimentati. Era una figura dell’infraordinario — per dirla con Perec — che legava corpi e memorie in una rete silenziosa di relazioni.
La sua rimozione ha lasciato una ferita urbana che non si misura in metri o flussi di traffico, ma in fantasmi affettivi, in spaesamenti percettivi, in piccole nostalgie quotidiane. Lì si manifesta, con chiarezza, un inconscio urbano che non dimentica, che continua a desiderare anche dopo la demolizione, come se i sogni del quartiere cercassero ancora un passaggio.
Tornando al post-umano, le premesse di tale visione affondano le radici nel linguistic turn, momento decisivo della filosofia novecentesca in cui il linguaggio non è più visto come mero strumento di rappresentazione, ma come condizione stessa della possibilità del pensiero e dell’esperienza. In questo contesto, il linguaggio sembra assumere il ruolo di condizione trascendentale, lo spazio aperto di accordo tra essere e pensiero. Felice Cimatti, nel suo saggio Cose. Per una filosofia del reale, affronta criticamente questa prospettiva, evidenziando come il linguaggio, anziché fungere da ponte trasparente tra soggetto e oggetto, possa talvolta frapporsi come uno schermo che media e talvolta distorce il nostro rapporto con il reale. Secondo Cimatti, questa mediazione linguistica non è neutrale, ma contribuisce a costruire la nostra percezione del mondo, sollevando interrogativi sulla possibilità di un accesso diretto alla realtà al di fuori delle strutture linguistiche.
È da questa svolta che prende forma una domanda centrale: che ne è dell’inconscio in un mondo in cui realtà e linguaggio non coincidono più, e in cui il soggetto stesso è decostruito in una rete di processi relazionali e tecnici?
In questo contesto, si può abbozzare una nuova topologia dell’inconscio. Fantasticare su nuove architetture. Non più soltanto serbatoio pulsionale o archivio dell’individuo, come nelle tradizioni freudiane e lacaniane, ma dispositivo trans-soggettivo e trans-mediale. Félix Guattari, soprattutto nel suo lavoro con Deleuze e poi nei testi solisti (Cartographies schizoanalitiques, Les Trois Écologies), ha proposto una concezione dell’inconscio come macchina, come agenzia semiotica capace di articolare significanti (lati simbolici, linguistici) e semiotiche a-significanti (affetti, flussi, codici informatici, algoritmi).
In questa prospettiva, diventa inevitabile interrogarsi anche su ciò che resta — o che si dissolve — del complesso di Edipo, tradizionale “architrave” della metapsicologia freudiana. Per Guattari, Edipo non è che una gabbia semiotica, una macchina di cattura che riduce il desiderio a una scena familiare, strutturata secondo coordinate borghesi e normalizzanti. Il triangolo padre-madre-figlio funziona come una griglia di codifica che neutralizza la potenza molteplice dell’inconscio, ricondotta a un dramma interiore fondato sulla mancanza e sulla colpa.
Ma l’inconscio, nella visione Anti-edipica, non è un teatro, bensì una macchina desiderante, un assemblaggio sempre mutevole di flussi, segmenti, affetti e codici. Ciò che sostituisce Edipo non è un altro mito o archetipo universale, ma una cartografia dinamica di territori esistenziali, di processi di soggettivazione che si danno al di là della famiglia, della legge e dell’identità.
L’inconscio guattariano non ha più un “centro” né una “scena” — è un campo di forze attraversato da semiotiche significanti e a-significanti, da affetti intensivi, da mediazioni tecniche, da atmosfere e paesaggi. È una macchina ecologica e collettiva, connessa con le strutture urbane, con i media, con le reti digitali e con le sensibilità post-naturali. A sostituire Edipo, in fondo, è una politica dell’inconscio — un’ecologia del desiderio che cartografa non più l’interiorità dell’Io, ma le interfacce in cui si annodano umano, animale, macchina, ambiente.
In questa nuova scena espansa, dove l’inconscio si disperde nei paesaggi tecnici e terrestri, la figura del Chtulucene si staglia come mito generativo, come simbolo di un tempo che pensa e sogna al di là dell’umano. Non un mostro da combattere, ma un’alleata tentacolare, fatta di legami, interconnessioni e metamorfosi. Il Chtulucene non è un’epoca, ma un modo di sentire, un inconscio planetario che respira attraverso i pori del mondo, tra alghe, server, acque stagnanti e reti neurali.
Nel suo nome si incrociano l’immemoriale e il futuribile, il biologico e il cibernetico, il simbolico e l’a-significante. Pensare il Chtulucene significa allora immaginare un inconscio che non è più teatro dell’Io, ma ragnatela di relazioni, palinsesto di memorie non umane, soglia vibrante tra linguaggio e materia. Un inconscio che non ci appartiene, ma che ci attraversa, come un canto sommerso che sale dalle profondità della terra e ci chiede, senza retorica umana, di ascoltare ciò che non ha nome.