Attualità e nuove sofferenze

Il Papa influencer e la possibilità di cambiare “la cornice” per svelare il misconoscimento della realtà migratoria - Di C. Buoncristiani e T. Romani

L'arrivo dell'altro, del migrante, scuote le nostre certezze, solleva le nostre paure più profonde. La strategia di Francesco per smontare le difese di chi vuole proteggere "l'identità nazionale"


Il Papa influencer e la possibilità di cambiare “la cornice” per svelare il misconoscimento della realtà migratoria - Di C. Buoncristiani e T. Romani

Lo psicoanalista lascia che l’attenzione fluttui liberamente perché sa che l’inconscio trova il modo di emergere. Allo stesso modo l’influencer sa come gestire temi “caldi” per illuminarli con quella certa inquadratura, quella e non un’altra, che porterà a rinegoziare certe difese. Come dimostra la sua intervista da Fabio Fazio, tra i fuori classe della comunicazione c’è sempre anche Papa Francesco. Lo stesso uomo che durante il primo lockdown per il Covid ci ha offerto sceneggiature memorabili e degne di Sorrentino, come durante la preghiera solitaria, da una piazza San Pietro deserta e struggente sotto la pioggia.

Ora Papa Francesco ha battuto un altro colpo, parlando del vero spauracchio di quest’epoca: il fenomeno migratorio. In un contesto politico in cui il governo di centro-destra fa delle politiche migratorie un cavallo di battaglia Bergoglio non ha esitato a definirle “restrittive”. Ma poi da sofisticato conoscitore di un altro tema caro alle strategie di consenso rispetto all’elettorato conservatore Francesco cambia cornice di senso, tira in ballo il calo demografico e dice: “Ci sono alcuni problemi, l'Italia ha età media di 46 anni. Non fa figli, faccia entrare i migranti. L'Italia deve risolvere il problema”. E così anche un esecutivo che ha ribattezzato il ministero dell’Agricoltura come ministero per la “Nazione”…

L'arrivo dell'altro, del migrante, scuote le nostre certezze, solleva le nostre paure più profonde. È come un'intrusione nel nostro giardino segreto, un'invasione del nostro territorio psichico. L'immagine dello straniero, con il suo carico di sofferenze e di speranze, risveglia in noi fantasmi arcaici, legati all'angoscia di annichilimento, alla paura di perdere ciò che crediamo nostro.

Dietro l'apparente oggettività del dibattito politico, si nascondono le nostre fantasie inconsce, le nostre proiezioni. Il migrante diventa lo schermo sul quale proiettiamo le nostre paure, le nostre colpe, i nostri desideri inconfessati. Egli è il barbaro alle porte, il diverso che minaccia la nostra identità, il nostro modo di vivere.

Ma l'altro è anche un'opportunità, un invito a uscire dalla nostra solitudine narcisistica, a riconoscere la nostra comune umanità. Accogliere l'altro significa aprire le porte del nostro cuore, superare le nostre difese, rischiare di perderci per ritrovarci. È un'esperienza che ci trasforma, che ci arricchisce, che ci rende più umani.

La questione migratoria ci pone di fronte a una scelta cruciale: quella tra l'amore e l'odio, tra la vita e la morte. Scegliere l'amore significa scegliere la vita, significa costruire un mondo dove tutti possano trovare un posto, dove la diversità sia una ricchezza e non una minaccia

Presenti come ‘ombre’, esseri umani di carne e ossa chiedono di essere visti da altri umani e due realtà umane si fronteggiano quando chi accoglie incontra chi chiede accoglienza. Quell’incontro avviene su un’invisibile linea di confine tracciata da bisogni e funzionamenti emotivi profondi, timori reciproci e attese diverse; possiamo sentire e vivere con un senso di profonda estraneità tutto ciò che il migrante porta con sé: in primis quell’abisso di vissuti emotivi oscuri, traumatici e silenti che comunque ci interroga e ci ‘inquieta’. Chiama in causa il nostro stesso mondo emotivo, tutto quanto ci dà sicurezze. Possiamo sentirci attratti e insieme respinti da qualcosa di ignoto, come ben sa chi si è impegnato nel mondo dell’accoglienza al migrante.  

Bergoglio dice che non dobbiamo aver paura di offrire il nostro aiuto, di prenderci cura, di accogliere.

Eppure, la paura piò vincere. Noi possiamo aver paura, possiamo sentirci esposti ‘all’invivibile e all’indicibile’, proprio perché siamo esposti ai non detti connessi ai vissuti catastrofici e traumatici, individuali e gruppali, di cui il migrante è portatore. Sono i vissuti silenziati quelli che si riversano in tanti modi, diretti e indiretti, proprio nelle strutture d’accoglienza e su chi d’accoglienza si occupa.

Parlare di migranti e povertà nei termini che proponiamo significa cambiare “cornice”. Dare un nuovo “frame” alla paura di ciò che ci è insieme familiare ed estraneo, ‘perturbante’. Occorre essere consapevoli di essere chiamati a mediare tra paura e coraggio, il coraggio di ‘vedere’ in un’area cieca per poter fare poi ciò che occorre; in primis barcamenarci tra affetti, angosce e vissuti emotivi informi, scritti nel corpo, nella carne del migrante, ma difficili da guardare.

L’idea onnipotente di un’accelerazione senza fine guidato i leader mondiali. Nella loro angoscia di rallentamento dell’economia è implicito il concetto “chi si ferma ad assistere il prossimo è perduto”. Tutti da anni provano a rincorrere la crescita a due cifre del Pil della Cina. Non potevamo non crescere.

La psicoanalisi avrebbe parlato dell’impossibilità di elaborare il limite e la finitezza. Non è una novità, dall’Imperatore Costantino in poi, la Chiesa conia le migliori campagne di comunicazione.  Ha cominciato qualche millennio prima che i guru del marketing politico ci spiegassero che vince chi intuisce prima degli altri come incorniciare i problemi. Bergoglio ha preso il nome del santo più pauperista della storia, ma senza cadere nell’ideologia della penitenza. Al fondo, questa sua nuova impostazione pone al centro il gusto della vita, mentre sposta l’inquadratura dalla corsa sfrenata al sostare creativo che apre all’estetica (e quindi ai sensi) oltre che all’etica.

Cornici, finestre, inquadrature, perché parlare di interdipendenza tra noi e i popoli dall’altra parte del Mediterraneo, tra ambiente umano e non umano ha molto a che fare con la constatazione che il “setting”, l’assetto di ciò che ci circonda determina il significato delle nostre esistenze, la qualità dei nostri desideri e la trama delle nostre paure. Ciò che teniamo fuori e ciò che vogliamo dentro fonda la nostra identità, ma come possiamo distinguere? “Il nostro” e “l’altrui” sono determinati dal tipo di limite che incontriamo, anche emotivamente. Tra noi e loro c’è una montagna o una parete? C’è un muro o una finestra? O un abisso emotivo che ci turba e sconvolge?

La nostra inquadratura si centra perciò sulla relazione emotiva profonda tra noi e il migrante. Una configurazione di legami di dipendenza reciproca tra fibre che sono determinanti per lo sviluppo dell’insieme.

 

 



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