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La nuova edizione de "Il lavoro del negativo di A. Green" - Un estratto dalla prefazione di M. Balsamo

Anticipiamo qui un estratto della prefazione all'edizione italiana "PENSARE IL NEGATIVO CON ANDRÉ GREEN" - Volume edito da Mimesis


La nuova edizione de "Il lavoro del negativo di A. Green" - Un estratto dalla prefazione di M. Balsamo

Maurizio Balsamo

Pensare il negativo con André Green

Prefazione all’edizione italiana

 

Maurizio Balsamo

 

 

 

 

È forse impossibile rendere giustizia a questo libro complesso e difficile, tanto è abbagliante la comprensione di Green delle complessità della metapsicologia freudiana. Si potrebbe anche dire, con tutto il rispetto, che a volte Green è troppo a suo agio nel mezzo di una complessità assoluta. Il rischio è grande che di tanto in tanto il lettore venga lasciato indietro. Detto questo, sembra comunque probabile che alla fine, forse nel prossimo futuro, questo libro sarà essenziale per qualsiasi comprensione della metapsicologia profonda[i].

 

Così scriveva nel 1995 in una recensione forse dai toni ambivalenti André Lussier, uno psicoanalista canadese, sottolineando ad ogni modo, accanto all’effettiva complessità della lettura, la dimensione straordinariamente stimolante delle osservazioni che ne derivavano e l’intuizione che questo libro, certamente da riattraversare più volte per coglierne a pieno tutta la sua ricchezza, definiva un fondamento ineliminabile, un testo maggiore della psicoanalisi.

Da cosa dipende la complessità del libro? A mio avviso innanzitutto dal dialogo, a tratti arduo, con la filosofia hegeliana, motivato, come scrive Green, dal fatto che nessuno più di Hegel ha posto in maniera così rilevante il problema del negativo. Poi, dalla problematizzazione di una processualità, la negatività, che diventa però allo stesso tempo una lente di lettura della teoria psicoanalitica e di fenomeni clinici diversi, il che estende la vastità delle questioni prese in esame. Ed infine, dal piacere stesso del teorizzare, di seguire i fili anche incerti di un ragionamento che, evidentemente, proprio per la libertà da esso procurata può paradossalmente mettere il lettore in difficoltà dinanzi alle prospettive di nuovi percorsi teorici.

Eppure è proprio tale complessità – la quantità di incredibili osservazioni cliniche e di opzioni teoriche messe al vaglio – che ricompensano chi si doti di pazienza e della voglia di apprendere da un maestro ineguagliabile. Tuttavia, se sicuramente possiamo essere d’accordo sulla prima osservazione, relativa alla difficoltà del testo, ho i miei dubbi sul fatto che Il lavoro del negativo possa essere inserito sic et simpliciter nell’alveo della metapsicologia freudiana. Ciò non solo per le profonde correlazioni con le teorie di Winnicott, di Lacan, di Bion[ii], con la ripresa del ruolo del negativo hegeliano e con lo sviluppo che Green stesso determina nello sviluppo del pensiero freudiano, ma perché egli utilizza il negativo come lente per rileggere, insieme, la teoria psicoanalitica, la clinica, i movimenti psichici in seduta. Ne risulta un’analisi ricca e raffinata, che tiene conto dell’insieme degli sviluppi della psicoanalisi contemporanea, caratterizzandosi pertanto come estensione e riattraversamento della metapsicologia freudiana[iii].

 

 

La negatività tra Freud e Hegel

 

Per iniziare, chiediamoci insieme a Green: perché Hegel? Per una ragione ed una sola: Hegel mi sembra aver pensato il negativo più di qualunque altro pensatore, come costituente della coscienza[iv]. Certo, come ha notato Claire Pagès, vi sono vari ostacoli a questo raccordo: in primis, il fatto che Freud non utilizza mai il termine di lavoro psichico del negativo; in secondo luogo, la negatività hegeliana è solidale di un Aufhebung, di un processo di superamento, di negazione della negazione, di oltrepassamento delle contraddizioni, procedura incompatibile con il percorso analitico; in terzo luogo, “la negatività hegeliana procede da un rapporto di contraddizione, che è dapprima differenza, poi opposizione[v].

Ma allora, stante queste difficoltà, su cosa fondare il concetto di negatività psichica[vi]? Innanzitutto, sul lessico del negativo che certamente è rintracciabile in Freud: la negazione, il diniego, il negativismo, il negativo, la nevrosi come negativo della perversione, la reazione terapeutica negativa, il transfert negativo, il complesso edipico negativo, l’allucinazione negativa – tutti termini e concetti che si ritrovano in Freud. Certo, manca il termine di negatività, ma ciò non toglie, come sottolinea ancora Pagès, che il concetto di lavoro psichico del negativo possa essere pensato come un operatore di senso “per pensare la realtà dei fenomeni in cui il senso non è pieno, uno, o mio. Un operatore di senso lavorato da tre figure del non-senso che sono la disfunzione, la differenza, l’automatismo[vii].

Ecco che la negatività, allora, può indicare il pensiero delle intermittenze di senso, la dimensione della sua discontinuità, che reinvia sia a zone di assenza di senso che a zone di senso altro, impensato, o impensabile per il soggetto. In fondo, è proprio ciò a cui la dimensione analitica, nella sua espressione teorica e clinica, ci ha ovviamente abituati, nella presa in considerazione della realtà psichica inconscia, nell’osservazione di tutto ciò che disturba o frammenta il libero corso del pensiero, dall’atto mancato al vuoto depressivo, dal ruolo della scissione nel rapporto con l’oggetto e l’alternanza rappresentativa che ne consegue, a quello del diniego.

Potremmo procedere da questa assunzione generale per definire le modalità di relazione fra negativo, negazione, negatività, termini che a vario titolo definiscono il campo concettuale in esame ma che necessitano evidentemente di una chiarificazione: “la negatività metterebbe l’accento sull’insieme del processo grazie la quale la negazione si raddoppia”. Questo permette ad ogni ‘affermazione’ di essere messa in movimento da ciò che essa stessa delimita, non accoglie, ma che comunque la lavora dall’interno: “la negazione [è] sul principio di un tale sviluppo – l’iscrizione della negazione nell’essere e la sua tendenza alla ripetizione – il negativo sul carattere dinamico del processo, di cui è il motore” (infra, p. 23).

La ripresa del negativo hegeliano ha qui, dunque, il valore di mettere in evidenza che, già presso di lui, “il negativo di qualche cosa non ha il semplice valore di un’inversione. Il negativo è principalmente un motore: è lui che impulsa continuamente il movimento, ragion per cui si parlerà indistintamente di negatività e di lavoro (cioè, azione, forza, energia) del negativo. La nozione di negativo è allora la traduzione di un punto di vista dinamico portato sulla negatività... il negativo impedisce alla negazione di significare un’altra immobilità dell’essere” (infra, p. 25)[viii].

Ma ecco che questa formulazione non è distante dalla considerazione fatta da Freud ne La negazione[ix], testo del 1925, dove osserva che la negazione si accompagna necessariamente all’affermazione e ogni affermazione realizza un’espulsione di qualcosa che viene lasciato da parte, respinto nella formulazione dell’Io. Vi è dunque una negazione nell’atto stesso dell’affermazione, relativa al giudizio di attribuzione, alla differenza fra le qualità dell’oggetto che posso o meno incorporare, accogliere in me o espellere. Questa operazione indica che ogni atto psichico lascia inevitabilmente dei resti, un negativo dell’operazione stessa di affermazione originaria[x] e implica, al medesimo tempo, che questi resti metteranno in moto l’attività psichica costretta, nelle varie figure che la definiscono, a prenderli in carico – segnalando pertanto che ogni affermazione è smossa al suo interno da ciò che, pur essendo espulso, la definisce come processo di delimitazione. Potremmo dire, parafrasando Jean-Luc Nancy, che ogni affermazione è scossa da un tremore che ne attesta la sua inevitabile alterizzazione[xi].

 

 

[i] A. Lussier, « Le travail du négatif », Journal of the American Psychoanalytic Association, (1995), 43: 263-266.

[ii]Green abborda il ruolo di ciò che è mancato rispetto a quello che può accadere e il respingimento delle possibilità stesse della cura in un confronto con Winnicott, oltre che con Bion, che gli permette di riprendere e sviluppare i molti usi del negativo già presenti negli scritti di questi ultimi. Non trascurerà ad esempio Bion e il suo concetto di non-cosa, o il salto concettuale che questi compie allorché pensa l’Edipo e la questione della castrazione alla luce della negatività (“il non pene, il pene che non è ancora là”), in Trasformazioni. Winnicott, analogamente, propone vari usi del negativo (cfr. A. Green, “L’intuizione del negativo in Gioco e realtà”, in La madre morta, a cura di G. Kohon, Vivarium, Milano, 2007), che potremmo così riassumere: 1) l’uso dell’oggetto transizionale come possesso del ‘non-me’, definito dunque come un negativo di se stesso e che assume molte implicazioni rispetto alla questione dell’onnipotenza; 2) il suo collocarsi in uno spazio potenziale inerente alla riunione dopo la separazione, che pone l’idea di qualcosa che non è presente; 3) l’oggetto transizionale, che è e non è allo stesso tempo il seno. Si origina poi una seconda serie, relativa a problemi patologici in cui la qualità dell’oggetto interno è profondamente disturbata dalla mancanza di qualche funzione essenziale dell’oggetto esterno, il che conduce alla perdita di significato dell’oggetto transizionale. Green collega lo svanire delle rappresentazioni interne a ciò che egli chiama la rappresentazione interna del negativo, “una rappresentazione dell’assenza di rappresentazione” che si esprime nei termini di allucinazione negativa o, nel terreno degli affetti, nei termini di senso di vuoto, “di vacuità, o, in grado minore, di inutilità, di mancanza di significato” (A. Green, “L’intuizione del negativo”, cit., p. 388.) Tenta poi una sintesi delle varie funzioni rintracciabili negli esempi posti da Winnicott attraverso il concetto di struttura inquadrante. Nel momento della separazione madre-bambino, l’aspetto fondamentale è la possibilità di costruire una rappresentazione interna di una struttura inquadrante analoga alle braccia materne nel contenimento, la cui organizzazione permetterà di tollerare l’assenza di rappresentazione. Ora, finché il contenimento mantiene la sua promessa, l’allucinazione negativa può essere agevolmente rimpiazzata dal soddisfacimento allucinatorio, ma allorché l’infans è confrontato al vacillamento di cui stiamo tracciando le caratteristiche, con l’esperienza di morte e di perdita di senso, il quadro contiene solo un vuoto impensabile, il che implica la non esistenza dell’oggetto come di qualsiasi oggetto sostitutivo. Ne deriva il non superamento dell’allucinazione negativa e il fatto ben osservabile nella cura analitica che non c’è mai alcun positivo che si sostituisce o si sovrascrive all’esperienza negativa. Per tentare di comprendere questa nuova clinica, in cui prevale l’attività di slegame, il ruolo della distruttività, e in cui “i rapporti col piacere, la dimensione relazionale, il desiderio di far prevalere la sintesi dell’eros sono sostituiti dallo slegamento” (A. Green, Illusioni e disillusioni del lavoro psicoanalitico, Cortina, Milano, 2011, p. 170), Green pone pertanto l’ipotesi dell’interiorizzazione del negativo. “Voglio dire che lo psichismo ha introiettato le reazioni difensive primarie come una modalità difensiva inconscia, che altera l’organizzazione psichica impedendole di svilupparsi secondo i modelli abituali basati sul principio di piacere” (idem, p. 171). Analogamente, riflettendo sul pensiero di Bion, egli nota che, quando “l’identificazione proiettiva è impossibile perché potrebbe suscitare una minaccia di annichilimento svuotando la psiche, un altro meccanismo è allora disponibile: un processo di cancellazione, un’azione per depennare e sopprimere […] È, a mio avviso, ciò che si vede nella psicosi bianca, o in minor grado negli stati di ‘bianco del pensiero’. Il risultato è un vuoto nella psiche” (A. Green, Penser la psychanalyse, Ithaque, Paris, 2013, pag.27), espressione, come osserva Bion, di un modello di azione, più che di un acting, e dell’impossibilità di una capacità negativa in questi pazienti”, M. Balsamo, André Green, Feltrinelli, Milano, 2019, p. 64 sgg. Sul rapporto Bion-Green, cfr anche D. Messina-Pizzuti, “La réponse est le malheur de la question. L’apport de Bion au travail du négatif de Green”, Revue belge de psychanalyse, 2018, 73, 2. Sul rapporto fra Hegel e Lacan, e sulla lettura che Hyppolite dà del saggio sulla negazione di Freud, incluso nel Seminario 1 di Lacan e da lui commentato, (Einaudi, Torino, 2014), reinvio alle pagine che Green dedica a Lacan-Hyppolite ne Il lavoro del negativo. Cfr. anche S. Zizek, L’isterico sublime, Mimesis, Milano, 2012.

[iii] Si pensi ad esempio al ruolo dei lavori di Fain sulla comunità di diniego (Michel Fain, « Le désir de l’interprète », Aubier-Montaigne, Paris, 1982), all’operatore negativo di Guillaumin (J. Guillaumin, “Théorie du négatif ou pensée au négatif en psychanalyse”, in Le Négatif, travail et pensée, L’esprit du Temps, Le Buscat, 1995), allo scritto di Green e Donnet sulla psicosi bianca (A. Green, L. Donnet, La psicosi bianca, Borla, Roma, 1992), alla raccolta di saggi (a cura di) W. Bruno, Quando il negativo diventa positivo, Nane, Roma, 2015, e così via di seguito per indicare alcune piste. Sulla questione è intervenuto anche François Jullien che ne L’ombra del male. Il negativo e la ricerca di senso nella filosofia europea e nel pensiero cinese, Colla, Costabissara, 2005, pone in alternativa una filosofia ed un pensiero del male, da espungere, allontanare, ed una del negativo, tesa invece all’integrazione. In particolare, cercando di definire le differenze fra le due concezioni, egli stabilisce alcuni criteri di massima (che qui ovviamente riassumo): 1) il male dipende dalla moralità; il negativo da una funzionalità, da una effettuazione; 2) il male rinvia al punto di vista di un soggetto, il negativo ad un processo; 3) il male separa una singolarità e la isola, il negativo implica una globalità; 4) il male instaura una dualità, il negativo presuppone una polarità; 5) il male è oggetto di un giudizio che ne sancisce in linea di principio l’esclusione, il negativo richiede una com-prensione ed è oggetto di integrazione; 6) il male è drammatico (provoca lutto, lamento..), il negativo non oppone il reale all’ideale, il negativo è logico, cfr. Jullien, cit. pp. 22 sgg.

[iv] AA.VV., Le négatif, L’esprit du temps, Paris, 1995, p. 25. Si pensi, correlativamente, a questa osservazione di Merleau-Ponty: “Hegel è all’origine di tutto ciò che si è fatto di grande in filosofia da un secolo a questa parte-per esempio all’origine del marxismo, di Nietzsche, della fenomenologia e dell’esistenzialismo tedesco, della psicoanalisi,-egli inaugura il tentativo per esplorare l’irrazionale e l’integrare in una ragione allargata che resta il compito del nostro secolo”, M. Merleau-Ponty, “L’existentialisme chez Hegel”, Les temps modernes, 1946, 7, p. 1311.

[v] C. Pagès, « Le travail du négatif : Freud avec Hegel ? », in Revue française de psychanalyse, 2015, 3, vol. 79. Si veda anche, sempre di Pagès, Hegel et Freud, les intermittences du sens, CNRS, Paris, 2015.

[vi] Concetto a cui si è opposto Derrida, vedi J. Derrida, La carte postale. Da Socrate a Freud e al di là, Mimesis, Milano, 2015.

[vii] C. Pagès, Hegel et Freud, les intermittences du sens, cit., p. 15.

[viii] «Con la negatività, la negazione non è più qualche cosa di relativo e di secondario, un epifenomeno, ma un’origine. La negatività è allora l’altro nome di una negazione che sarà riflessa, dinamica e legiferante, o strutturante […] Essa designerebbe così l’operazione che permette di avere l’essere-altro in sé, di interiorizzarlo […] così quando una realtà si mostra impotente nell’appropriarsi del suo essere altro, Hegel parla di un difetto di negatività”, Pagès, cit. p. 29. Nella questione del difetto di negatività si può scorgere agevolmente il punto di vista analitico sui fallimenti del negativo nella strutturazione dell’apparato psichico, nella sua capacità di fronteggiare l’eccesso (pulsionale, del reale) e l’incapacità o l’impossibilità di introdurre quote più o meno rilevanti di alterità nel proprio sentire o percepire. Lo si osserva nella clinica che mostra una sofferenza identitaria, nel terrore di incontrare la libera associazione, la dimensione metaforica nel caso della psicosi, la differenza insomma allorché essa è sentita come una minaccia destrutturante per l’Io.

[ix] OSF, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino, 1978.

[x] È da questa assunzione del valore onnipresente del sì e del no in ogni atto psichico che deriva un’osservazione di Green relativa al fatto che la loro coesistenza non è sufficiente per caratterizzare il lavoro del negativo in quell’operazione psichica particolare rappresentata dal diniego, e che trova la sua ben nota espressione nel feticismo mediante l’istituzione di due correnti psichiche, una in cui si riconosce la castrazione del fallo materno e l’altra che la nega. In tal modo, le operazioni di affermazione e negazione stabiliscono entità cliniche differenti a seconda della loro coesistenza o disgiunzione. In effetti, continua Green, questa coesistenza dell’affermazione e della negazione può essere di due tipi, congiuntiva o disgiuntiva: “[congiuntiva] se avviene sotto il primato dell’Eros. È così per l’oggetto transizionale che è e non è il seno della madre […] Quando la coesistenza è disgiuntiva il lavoro del negativo si compie sotto gli auspici delle pulsioni distruttive. Ed è allora il caso della scissione e del diniego che, per alcuni, è difficile distinguere dalla forclusione. La differenza è che anziché riunire, il lavoro del negativo separa, impedisce qualsiasi scelta e investimento positivi. Qui non si tratta di sì e di no, ma di né sì né no”. (infra, pag. 407).

[xi]Che la sua determinazione si produca nel tremore significa che questa determinazione non le è impressa da una potenza straniera, ma che essa ha luogo solo come scuotimento della sostanza da parte dell’altro che ne è il sé. L’anima trema perché il suo soggetto gli è altro, e la sua identità non ha luogo che nell’alterazione della sua sostanza”, J.L. Nancy, L’essere abbandonato, Quodlibet, 1995, p. 41. Il pensiero – aggiunge nell’Inquietudine del negativo –trema non soltanto di fronte a ciò che deve pensare, ma anche in se stesso; trema di essere in sé la separazione da sé, il risveglio dell’altro, del suo dolore e della sua gioia” (J.L. Nancy, L’inquietudine del negativo, Cronopio, 1998, p. 63). In sostanza, continua Nancy, “il tremito è l’atto dell’essere -affetto-un agire passivo che fa soltanto vibrare il corpo e inquieta la sostanza. Il Sé trema ad essere toccato, destato, suscitato” (ibid, p. 62). “Il tremito non è occasionale: se così fosse, l’incontro con l’altro in noi sarebbe esso stesso occasionale, casuale, accidentale. Al contrario, l’anima trema continuamente, l’anima non è passata da questo tremore che pertanto la intacca, la flette, l’attraversa aprendola inevitabilmente all’Altro. Inversamente, come non sognare allora una condizione da cui il tremito sarebbe espulso, come tentare di impedire questa esperienza così lacerata, proteggendoci dal vivere il sé come una condizione al limite, di continua esposizione, di estasi, immaginando le condizioni per realizzare un’identità assoluta, protetta in se stessa? Cos’è dunque che potrebbe evitare la stessa intermittenza del senso, data dall’incontro con il negativo che insiste e che flette il limite già raggiunto, impedendo la consistenza di un senso originario, già da sempre a disposizione, già iscritto, assunto come valore stabilizzante, e rivelante pertanto -in tale mancanza- la sua dimensione non fondatrice, la sua non disponibilità memoriale? Paradossalmente, il progetto identitario che porrebbe fine al tremito sarebbe dato proprio dalla mancanza del lavoro del negativo”, cfr. M. Balsamo, Le intermittenze del senso. Le inquietudini del negativo, in E. Redaelli, (a cura di), Nancy e la psicoanalisi, Castelvecchi, Roma, in press.



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