Sulla serata del ciclo “Al cuore dell’umano”, primo lemma: la malattia, con Francesca Mannocchi
Kazimir Malevič, Quadrato bianco su fondo bianco, 1918. Olio su tela, 79,5 x 79,5 cm. New York, The Museum of Modern Art
Francesca Mannocchi, giornalista e scrittrice, apre il primo lemma del ciclo “al cuore dell’umano” il cui tema è la malattia, tema al centro dell’intenso e penetrante libro “Bianco è il colore del danno”, scritto in seguito alla diagnosi di una malattia autoimmune, la sclerosi multipla.
Nonostante la storia di ognuno di noi si imbatta nella malattia, la via di fuga da essa, dal nominarla e dal dialogo costante con le sue declinazioni, rappresenta quella scomodità che l’autrice sceglie di esprimere in modo diretto, nel suo libro come nelle sue risposte durante la serata, attraverso parole che definiscano l’autentico.
Linguaggio medico e linguaggio simbolico si incontrano come in una danza in cui manca sincronicità, nella quale il primo, corretto ma sterile, pone la paziente di fronte ad una assenza di afferrabilità, inducendola alla ricerca di risposte che diano significato sia alle dinamiche somatiche di una malattia autoimmune, sia al senso della stessa attraverso la propria biografia.
Nel dialogo con l’autrice, il Dottor Maurizio Balsamo parte proprio da quest’ultimo aspetto, ovvero dall’incipit molto evocativo del suo libro, in cui è presente un ricordo autobiografico da cui l’io narrante prende voce, mettendo in risalto quanto nella narrazione vi sia una oscillazione tra due registri, il personale e il letterario. Il ricordo d’infanzia permette di stabilire un filo che garantisce continuità e consente di legare insieme l’irruzione di una sintomatologia del corpo e un ricordo destinale che ne dà significato. Inoltre, citando Artaud, pone in risalto quanto la letteratura sia una membrana porosa attraverso la quale si guarda il reale, chiedendo all’autrice la sua interpretazione.
Mannocchi evidenzia quanto la letteratura abbia avuto un valore salvifico, sollevandola dal peso del presente e dandole la possibilità di tollerare un tempo nuovo che, nel caso della sclerosi multipla, si fa imprevedibile. Al contempo scrivere il libro ha trasformato l’esperienza soggettiva della malattia in un’esperienza comunitaria.
Nominare la malattia rappresenta un atto di appropriazione e messa in contatto con una nuova condizione di vita, che non solo segna un prima e un dopo, ma che pone un “per sempre” nel caso della sua cronicità.
Balsamo, a partire dal libro “Sulla malattia” di Virginia Woolf, in cui la scrittrice definisce l’importanza di dare spazio nei romanzi alla malattia così come si fa per l’amore, la lotta e la gelosia, si chiede quale potrebbe essere la lingua della malattia, come potrebbe configurarsi a partire dall’inefficace lingua della medicina.
Nell’esperienza dell’autrice, la ricerca di una lingua della malattia, nata appunto dall’esigenza di abbandonare l’aridità dei tecnicismi medici, avviene quando un giorno un neurologo durante un incontro con lei, riferendosi a quelle che fino ad allora erano state definite placche cerebrali, parla di lesioni, evocando una lacerazione che a livello figurativo era più efficace e di maggior comprensione. L’uso di parole che possano essere meglio raggiunte da una paziente permette un avvicinamento più autentico alla malattia e al corpo, nonostante l’impatto emozionale possa essere deflagrante, lì dove la rappresentazione della nuova condizione legata alla cronicità del danno, definisce un cambiamento irreversibile dentro e fuori da sé.
Come ripreso dalla sala da Chiara Matteini, una paziente con una malattia cronica non è più padrona del tempo: il tempo, come la comunicazione neuronale nella sclerosi multipla, si fa intermittente, e rende discontinuo ed imprevedibile il rapporto con esso, ponendo la persona maggiormente di fronte al non avere tempo e alla morte. Per l’autrice questa esperienza, associabile a quanto avviene nei luoghi di guerra tra le persone che non sono più padrone di nulla, permette l’emersione dell’autentico dell’essere umano, nella sua dimensione anche brutale e feroce che potrebbe portare un civile ad uccidere per sopravvivere, così come ad un malato fare pensieri malevoli su chi è sano.
A partire da una sollecitazione dalla sala, nella persona di Alessia Fusilli De Camillis, la relatrice riprende il senso dell’ospedale vissuto come processo, definendolo un luogo, per chi ha una malattia cronica, che mette a contatto con altre persone portatrici di un male destinato a durare e di cui si può osservare il potenziale, rendendo quindi il rapporto con lo spazio ospedaliero inevitabilmente conflittuale.
Concludendo, Balsamo afferma che nella rappresentazione della malattia che fa Mannocchi, c’è una lotta per afferrare l’inafferrabile, una necessità di confrontarsi con la brutalità della malattia attraverso il dare un nome giusto e autentico a quanto accade, così come la necessità di andare oltre il linguaggio sostando tra il visibile e l’invisibile.
In merito a questo, per Mannocchi la dimensione dell’autentico permette di affrancarsi dalla identità di vittima con cui viene spesso associata una persona con una malattia. Citando Daniele Giglioli nel suo libro “Critica della vittima”, sottolinea quanto la vittima smetta di essere un attore politico perché non rappresenta più quello che può fare ma quello che le è stato fatto. Il rischio è che si è quello che si subisce e che la propria narrazione sia solo nel passato, forse nel presente ma di certo non nel futuro. Se la malattia non viene declinata nel futuro, per la persona rimane sempre e solo una condanna. Per questa ragione, Manocchi sottolinea quanto sia necessario non porre la malattia in una dialettica bellica, che preveda un vincitore e un perdente all’interno di un linguaggio in cui si celebra l’eroismo del singolo e la propria combattività; piuttosto porre la malattia all’interno di un processo collettivo che garantisca tutela e cura senza distinzioni, vittime e vincitori.