Leonardo Spanò dialoga con Chiara Matteini. Un Après-Coup
In occasione della prima serata scientifica del CPdR del nuovo anno, Leonardo Spanò dialoga con Chiara Matteini, autrice del lavoro “Effetto notte. Pontalis lettore di Winnicott”. Il lavoro è stato presentato dall’autrice e discusso da Valeria Condino e Maurizio Balsamo durante la serata di mercoledì 15 gennaio, primo appuntamento di un nuovo ciclo di incontri intitolato “Letture di Winnicott”.
1) In una lettera privata del gennaio 2009 Catherine Chabert nel tentativo, poi fallito, di invitarlo a un convegno, scriveva, tra le altre cose, a Pontalis: “Avez-vous oublié que c’est vous qui avez amené Winnicott en France?” (Vi siete forse dimenticato di essere stato voi quello che ha portato Winnicott in Francia?). In effetti non risulta così immediato accostare questi due autori a tutta prima distanti o addirittura pensare Pontalis come colui che si fece attivo promotore della divulgazione dell’opera di Winnicott in Francia in anni molto complessi. Potresti aiutarci a contestualizzare questo rapporto e a inserirlo nel dibattito psicoanalitico, tutt’altro che pacifico, di quegli anni?
È stato in effetti un periodo tempestoso e vivissimo quello della psicoanalisi francese fra gli anni '50 e gli anni '80. Il lavoro di Lacan, il suo ritorno a Freud, ha aperto squarci e conflitti, guerre fratricide da cui la psicoanalisi non è mai immune, come sappiamo. Ovviamente il dibattito sulla teoria freudiana, la contesa su un'eredità di pensiero, si è consumata anche attraverso il rafforzamento di risposte identitarie, ovvero l'utilizzo della differenza di lingue e dialetti psicoanalitici non solo come possibilità di aprire questioni, ma come necessità di affermare una posizione. Ecco perché in quel momento la traduzione di Winnicott, promossa da Pontalis, tocca un nervo scoperto, un nodo identitario nella psicoanalisi francese, tanto da essere percepita come un'operazione in qualche modo scandalosa. Allo stesso tempo indubbiamente quel movimento di riapertura, di una teoria, di uno slancio creativo e teorico, ha reso estremamente fertile il campo psicoanalitico in Francia in quell'epoca. Basti pensare alla ricchezza di contributi che quel periodo ci ha regalato, oltre a Lacan naturalmente, Pontalis, Laplanche, Anzieu, Aulagnier, Green e molti altri. In questo senso il primo libro di Pontalis, Après Freud, rende bene in quel dopo, la percezione di attraversare un secondo tempo, che tenta di dare forma al colpo del discorso freudiano. Ne L'amore degli inizi scrive: «Un poco dell'ardore di Lacan ricadeva su di noi. Mezzo secolo più tardi potevamo considerarci il primo circolo freudiano, meglio ancora: coloro che avevano veramente letto, veramente capito Freud. La prima volta - la vera, che non è necessariamente la prima nel tempo -, eravamo noi» (J.-B.Pontalis (1986), L'amore degli inizi, Borla, Roma, 1990, p. 98.). La prima volta in un secondo tempo…l'analisi arriva sempre in après-coup del resto. D'altra parte però quelli furono anche anni segnati per Pontalis dalla rottura con i suoi due maestri, Sartre e Lacan, e dall'inizio della sua ricerca, continuata per tutta la vita, di una lingua singolare che potesse far parlare l'inconscio e allo stesso tempo suggerirne i silenzi. Il tentativo di smarcarsi, non solo da Lacan, ma dal clima che le contese teoriche psicoanalitiche creavano, lo porta all'incontro con Winnicott, questo straniero vicino, di cui comprende la lingua pur parlandone una differente. Cosa riconosce in Winnicott Pontalis? Prima di tutto in quel momento la possibilità di rendere fertile la propria lingua psicoanalitica, di singolarizzarla attraverso l'incontro con un pensiero che arriva dall'altra parte, attraversando il mare… Poi intuisce da subito il valore fondamentale del lavoro di Winnicott per la clinica nelle situazioni extra nevrotiche, e ne percepisce anche la posizione di terzietà rispetto alle contese della psicoanalisi inglese, quell'essere un indipendente che penso risuoni per Pontalis come un desiderio rispetto alla sua posizione nella psicoanalisi francese. Sono indubbiamente due uomini estremamente diversi (per formazione, stile, scrittura, interessi) condividono però secondo me due cose fondamentali: la necessità di un pensiero libero da vincoli di appartenenza e il senso dell'esperienza umana come un luogo misterioso, di cui nessuna teoria potrà del tutto scalfire il segreto. C'è in entrambi un rispetto profondo dell'esistenza, delle sue miserie e del suo mistero, molto raro allora ed ora fra gli autori di psicoanalisi.
2) Antonella Anedda, una delle nostre maggiori poetesse, nell’ultima sezione del suo Historiae, scrive: “duas limbas, nulla est mia: due lingue nessuna è mia”. Parla di come per lei il sardo e l’italiano, oltre all’inglese e al latino, non si compongono mai; il tema della lingua mi sembra una questione capitale in Pontalis: il confrontarsi con l’insofferenza verso quella esatta ma spesse volte “sterile” della teoria e quella inintelligibile, che non si fa dire, dell’inconscio lo pone davanti a una impasse che occupa molta parte della sua riflessione. Arrivare in territori dove la parola manca ma non è perduta: sì, poco potrà dirsi ma nel provare a pensare un’altra lingua ancora, da inventare e giocare, si insiste sulle tracce di una resistenza alla scomparsa di senso, di esistenza. È proprio in questo nodo, che convoca tanto la teoria che la clinica, che Pontalis (per il quale sogno, illusione e illusorio sono temi ricorrenti), sembri dirci, incontra più intimamente il pensiero di Winnicott, lo straniero vicino; è così?
Hai colto benissimo quello che per me è il nodo centrale di questo incontro. Pontalis ha cercato lungo tutta la sua ricchissima avventura umana e intellettuale di far parlare una lingua che potesse rendere i sensi e i nonsensi del discorso inconscio, un discorso poetico, che provi ad intercettare il lato segreto, in ombra, del linguaggio. La lingua della teoria, che Pontalis ha esplorato profondamente, a partire dall'impresa del Vocabulaire con Laplanche, è necessariamente una lingua che definisce, illumina, svela. Una lingua del giorno, che ignora l'ombra, respinge la notte, per dirlo con le sue parole. Come rendere il poetico, l'incongruo, l'insensato? Tutto ciò che compare, nella vita prima che nell'analisi, e che non ha necessariamente un nome. Se la teoria tenta di dare nomi a ciò che non ne ha, è fondamentale per Pontalis che la lingua possa continuare anche ad arrendersi a quello che non si può necessariamente definire. Rileva questa tensione impossibile in un lavoro su Freud e Shakespeare, nel quale credo parla anche di sé: come conciliare l'ordine del discorso teorico con l'invenzione poetica? L'impresa psicoanalitica, che tenta costantemente di coniugare l'impersonale dell'inconscio nella sua radice corporea con il singolare delle forme individuali che ogni esistenza crea, si trova necessariamente di fronte a questa sfida. In fondo è questo che tocchiamo in analisi quando raggiungiamo quei luoghi in cui molte cose accadono, ma non ci sono parole per poterle esprimere, eppure queste incavature, come le chiama Pontalis, in cui il linguaggio fallisce la sua presa, consentono all'analisi di toccare, per poco, un'altro lato, un'altro senso. Winnicott ha saputo rendere in modo straordinario questi momenti, e anche il senso di impotenza di un linguaggio che non arriva a poterli dire. Gli stati di dissociazione, di non integrazione, di regressione, che rendono possibile il contatto con qualcosa di indicibile e segreto. Su questo terreno di ricerca Pontalis trova in Winnicott qualcuno che ha costruito la possibilità di pensare le aree dello psichico al confine fra me e non me, psiche e soma, realtà che trovo e realtà che creo. In Winnicott Pontalis trova un'altra lingua, diversa, straniera, che tuttavia riesce a parlare di ciò che la clinica mostra, quando il lavoro dell'analisi fa vacillare i confini.
3) Parafrasando il famoso testo del 1969 dell’autore britannico, vorrei chiederti dell’uso di Winnicott, di cui è capace Pontalis: un paragrafo del tuo lavoro si intitola l’effetto Winnicott, una definizione dello stesso Pontalis, puoi chiarirci meglio di cosa si tratta e dove si dispiega?
L'effetto Winnicott è per Pontalis quella caratteristica spiazzante di una lingua illusoriamente piana, che tocca in realtà nuclei profondissimi di comprensione del lavoro psichico. La lingua di Winnicott pone il lettore, e anche il traduttore, di fronte ad un effetto paradossale, quello di ascoltare qualcosa che appare ovvio e straordinario insieme: proprio come avviene in analisi, quando compare qualcosa che risulta incredibilmente nuovo, per poi accorgersi che era lì da sempre. Quest'effetto di apertura, straniamento e sorpresa che credo riguardi anche noi clinici oggi quando leggiamo Winnicott è quello a cui si riferisce Pontalis. Sottolinea spesso che non è nella costruzione di concetti che il lavoro di Winnicott ci sorprende, ma nello spazio che apre alla possibilità di immaginare i fenomeni in un modo nuovo. D'altra parte credo che, come ci insegna la clinica, l'uso di un oggetto (una madre, un'analista, una teoria…) ci fa comprendere bene la qualità di quella relazione. Pontalis trova in Winnicott un desiderio e una necessità: il desiderio è quello di esplorare ciò che non riesce a rendere dicibile della propria esperienza come analista, il lavoro con gli stati extranevrotici, o forse ogni lavoro di analisi che tocchi alcune aree solitamente mute, la necessità è quella di poter costruire una propria lingua psicoanalitica, che non sia assediata dalle parole-stato di un linguaggio teorico d'ordinanza, necessariamente militante, schierato pro o contro qualcosa, e incapace alla fine di far parlare la lingua ignota delle domande aperte. L'effetto Winnicott, come in fondo per me l'effetto Pontalis, è la capacità di rimessa in gioco del pensiero.
4) Con l’ultima domanda vorrei portarti in un terreno più dichiaratamente clinico. L’impegno teorico che questi due autori spendono nello sforzo continuo di restituire e di inventare un modo di dire l’impensabile, di avvicinarsi ai vuoti di senso, ai buchi neri di parola, all’assenza è straordinario e ci confronta, in alcuni momenti, con riflessioni davvero vertiginose; se in quegli anni tutto ciò marcava una novità assoluta in un certo discorso teorico dominante, penso sia però ancora oggi attualissimo e che sia possibile rigiocarlo nella clinica contemporanea, segnatamente nella clinica degli stati limite o nel lavoro analitico con gli adolescenti. Quale è, in questo senso, la tua esperienza come analista a lavoro?
Sono molto in accordo con te sull'attualità delle riflessioni di entrambi, Pontalis e Winnicott, per affrontare le sfide della clinica. Personalmente penso a due testi L'uso di un oggetto di Winnicott e No, due volte no di Pontalis, che mi capita spesso di rileggere nei momenti di difficoltà, senza arrivare ovviamente mai a comprenderne fino in fondo le sfide e la portata. Sono lavori molto differenti, per stile, scrittura e impostazione teorica; entrambi riflettono però su aree, dell'esistenza umana e quindi dell'analisi, dove le parole sembrano fallire. Ecco direi che ciò che forse cerco in questi lavori e in genere in Pontalis e Winnicott è la capacità di accogliere ciò che non capisco, ciò che mi appare muto, senza tentare di dare un senso prestabilito a ciò che accade. Imparare a sostare in luoghi desolati e silenziosi, di fallimento dell'analista in termini winnicottiani o nelle incavature con Pontalis, quei momenti di vuoto, di impasse, in cui le parole sembrano mancare, e si toccano aree mute, ma non per questo meno reali, dell'esperienza umana. Credo che sia in realtà l'unica strada perché un'analisi inizi davvero quella di saper attendere in questo vuoto. In questo senso non penso all'impasse come ad una difficoltà da affrontare, ma piuttosto come ad un passaggio necessario di ogni lavoro analitico. Se un'analisi si apre davvero, non è raro che inizi in un vuoto di parole e di senso, non solo del paziente, ma dell'analista. Questo per esempio nella clinica dell'adolescenza è fondamentale, in un momento nel quale attraversando la distruttività l'illusione può divenire uno spazio creativo del soggetto. Altrimenti il rischio è che le illusioni infantili lascino il posto ad una disillusione permanente, che rende scivolosa la superficie del mondo. L'area transizionale in fondo non è esattamente quel ponte, a volte quel filo da funambolo, che può consentire di sentire che un altro esiste, al di là di ogni disperato tentativo di limitarne l'imprevedibile vitalità?