Avant-coup e Après-coup

Pensiero, identità, conoscenza di Loredana Micati

Intervento per la serata del 12 febbraio “Dialogo, censura e cultura della cancellazione”


Pensiero, identità, conoscenza di Loredana Micati

Un libro di piacevolissima lettura, denso di riflessioni profonde, coltissimo, esposto con la chiarezza che solo i veri pensatori sono capaci di utilizzare.

 

Le sollecitazioni che questo testo offre sono molte; presentate con garbo, ma assai incisive, come se l’autore volesse portare il lettore a prendere coscienza del pericolo che la cancel culture rappresenta non solo per le civiltà antiche, ma per la nostra civiltà attuale che corre il rischio di impoverirsi, cedere all’intolleranza, all’arroganza, all’ignoranza, alla paura del diverso. L’operazione “decolonizing classics” contiene tutto questo.

 

Sembra talmente ingenua e ‘sprovveduta’, oggi la pretesa di scegliere, in base a una presunta correttezza etica, di fatto ideologica, ciò che è arte fruibile e ciò che va cancellato.

 

Leggendo il libro dal punto di vista di un’analista proveniente da studi classici posso dire che condivido pienamente tutto.

Vorrei esporre solo qualche breve riflessione tra le molte suscitate dalla lettura: 

a) perché è necessario pensare, ossia nutrire la mente almeno quanto è necessario nutrire il corpo;

b) cosa ci fa dire: sono umano/a[1] quanto tutti gli altri e tuttavia sono diverso e unico;

c) che differenza c’è tra accumulare conoscenze ed entrare profondamente in relazione con ciò che si conosce.

 

 

a) Lo sviluppo del pensiero contrapposto a un agire compulsivo e la conseguente capacità di riflettere e imparare a tollerare le differenze, grazie a una sufficiente fiducia nella propria individuazione e specificità, costituiscono, a mio avviso, uno dei cardini delle argomentazioni di Maurizio Bettini.

Sarò molto sintetica nel tentare di dire perché l’umanità ha avuto bisogno del pensiero e della parola: alla nascita per emergere dal bombardamento di stimoli e sensazioni, ossia dal caos, dall’indifferenziato, per imparare a riconoscere gli oggetti, a distinguerli, a dare loro un nome, a renderli mentalmente rappresentabili. Riconoscere un oggetto apre la porta alla possibilità di pensarlo in sua assenza[2].

Il pensiero, com’è ben noto agli analisti, nasce dalla necessità di reagire all’assenza dell’oggetto rappresentandolo nella mente, ossia pensandolo. Dal caos di stimoli e sensazioni passiamo alla rappresentazione degli oggetti.

Il bambino capace di tollerare la frustrazione dell’assenza della mamma svilupperà la capacità di pensarla. La possibilità di pensare gli oggetti e di dar loro un nome per differenziarli si trova alla base del linguaggio e del dialogo. Sin dalle prime battute dell’esperienza della vita bisogna scegliere tra reagire alla frustrazione attraverso l’azione -da neonati strillare fino a che la mamma non torna, un po’ più avanti nello sviluppo, spaccare gli oggetti a tiro per la rabbia- oppure sopportare la frustrazione e pensare alla mamma che, in quel momento, non c’è.

Come dire che la scelta si pone tra il tentativo di espellere il vissuto doloroso e frustrante attraverso un’azione e quello di provare a tollerarla e a farne qualcosa.

La capacità oppure l’incapacità di imparare a sopportare e perfino a utilizzare ciò che ci procura frustrazione e disagio orienta profondamente scelte e comportamenti nel corso di tutta la vita. Ad esempio un insegnante può reagire alle critiche ricevute dai suoi studenti sostenendo che criticano perché sono dei caproni ignoranti che non capiscono la grandezza delle sue lezioni, oppure può chiedersi qual è il significato delle critiche e cosa possa fare per offrire una situazione di apprendimento che incontri le esigenze degli studenti.

 

b) Nasciamo in relazione, nasciamo da una relazione, ma ciascuno ha la sua irripetibile specificità. A pagina 34 Bettini ci parla dell’identità e della differenza, altro cardine del suo libro.

 

Scelgo di parlare solo di condizioni di sviluppo sufficientemente buone, in modo da poterci capire con economia di parole senza inoltrarci nelle molte possibili strade della psicopatologia.

Sappiamo quanto sia difficile il processo che porta a differenziare il proprio sé, a sentire di esistere con un senso abbastanza affidabile di coerenza e continuità, a sentirsi contenuto nella pelle, nella mente, nella propria specificità, diverso da tutti ma, in quanto umano, affine a tutti gli altri umani e anche a tutto ciò che abita la terra.

Il bambino non sa da dove viene, cosa voglia dire morire, quanto durerà la sua vita, quanti rischi corre di perdere ciò che ama, non può sapere niente, a tratti è smarrito, tuttavia, se ha avuto la fortuna di un’infanzia abbastanza buona, si sente sufficientemente protetto dalle persone che lo amano.

 

In adolescenza tutte le incertezze e le paure si ripresentano, e bisogna anche imparare a dipendere sempre meno dall’ambiente che ha protetto attivamente gli anni dell’infanzia.

 

Grazie all’affinità con gli altri umani, ciascuno potrebbe progredire nel processo che porta a capire, a rispecchiarsi, a riconoscere le specificità, le sfumature, le identità e le differenze nelle altrui emozioni; grazie all’irriducibile unicità ciascuno può confermare l’iniziale senso di sé. L’adolescente sente di esistere e al contempo avverte una sorta di vertigine proprio di fronte alla percezione della propria esistenza di individuo unico e separato.

La vita preme, per l’adolescente è necessario incominciare a staccarsi per poter prendere il volo. Tornano, più complesse, le paure dell’infanzia: “Che scopo ha la vita? Esiste qualcosa oltre la morte?” Le angosce diventano più specifiche: “Dove porterà, oggi, la follia degli uomini?”

Ogni epoca ha sofferto le sue incertezze e i suoi timori, eppure si ha l’impressione che oggi i giovani si affaccino su un processo di cambiamento talmente vorticoso da apparire eccessivamente instabile, di conseguenza la sensazione di precarietà forse sta andando oltre la possibilità di tollerarla.

Cosa dovrebbero imparare a tollerare i ragazzi di oggi quando si preparano alla loro vita da adulti? Come tutti gli umani di tutte le generazioni e anche di più, hanno bisogno di imparare a tollerare l’ignoto, il dubbio, l’incertezza, a tollerare di non sapere, di non capire mai abbastanza.   

 

Dovrebbero imparare anche a non rifugiarsi nel proprio sapere, o in ciò che credono di sapere, come fosse un possesso e non un attraversamento.

 

La vita può essere una continua ricerca nel buio, e proprio in questa ricerca, tentennante e coraggiosa, forse è racchiusa la sua preziosità.

Siamo agli antipodi rispetto alla certezza di possedere il sapere e la verità e di essere migliori degli altri umani appartenenti a culture ed etnie diverse.

 

Il riconoscimento delle affinità e delle differenze permette di capire e rispettare l’altro. Lavorare perché questo processo interno non si inceppi e si sviluppi non è facile.

La rigidità e la stupidità sono sempre in agguato e può capitare di accoglierle. (Curiosità arroganza stupidità, catastrofe, situazione psicotica).[3]

 

Il punto a), sviluppo del pensiero e il punto b), identità e differenza, sono profondamente intrecciati.

 

Nel corso dell’adolescenza si è riproposta la scelta tra l’utilizzo della mente per pensare paure e incertezze e, qualche volta, poterne perfino parlare, e l’utilizzo della mente come se fosse un muscolo[4] per espellere emozioni e pensieri che danno troppo dolore.

 

Il secondo è il regno del fare senza vero pensiero.

 

L’adolescente vede rappresentate nel comportamento degli adulti entrambe le possibilità e molte sfumature intermedie.

Ad esempio perché dovremmo chiederci, da occidentali che fanno ricorso alla conoscenza della storia, se siamo, almeno parzialmente, responsabili della miseria di una gran parte dei paesi del mondo, se è tanto più facile ‘gridare all’invasione’, ‘difendere i confini’, espellere I nemici della nostra ‘nazione’? Fino a poco tempo fa in Italia eravamo soliti dire: il nostro paese; paese, un suono dolce e rassicurante, carico di affetto.[5]

 

La prima scelta richiederebbe un’assunzione di responsabilità, una riflessione collettiva e l’onere di doversi far carico di cambiamenti epocali, senza ricorrere a scorciatoie che scaricheranno tutto il peso sulle generazioni successive. 

La seconda scelta libera dalla responsabilità e dà l’illusione di risolvere inquietanti problemi attraverso una rapida e ripetuta violenza. 

Il paradosso è che un senso di identità relativamente solido si sviluppa attraverso l’accoglimento e la capacità di sopportare le angosce di cui parlavo prima, dalle quali non ci libereremo mai completamente nel corso di tutta l’esistenza. Potremmo imparare a tollerarle, a conviverci, perfino a dar loro un senso attraverso l’uso che abbiamo fatto della nostra vita.

Potremmo raggiungere un senso della nostra identità relativamente stabile nell’accettazione delle inevitabili oscillazioni ed evitare di ricorrere a capri espiatori per fuggire dall'incertezza e dall'angoscia.

Questo riguarda il singolo e la collettività come tragicamente ci insegna la storia del ‘900, a noi vicina, e la storia di tutta l’umanità. 

In questo momento ci troviamo in una congiuntura in cui sembra esserci poco spazio per il pensiero, in cui tutto pretende soluzioni rapide attraverso l’azione, ossia attraverso la violenza. Regredisce fino a scomparire la capacità di identificarsi con l’altro, di provare a capire le sue ragioni. Per chi vuole continuare a pensare il pensiero diventa privilegio di una minoranza; per quanti non pensano e non vogliono pensare il pensiero è la sciocca perdita di tempo di individui che accarezzano malinconicamente i propri dubbi. 

Tuttavia nella sciocca perdita di tempo di una minoranza è riposta tutta la nostra speranza per il futuro.

E qui torniamo a uno dei cardini del discorso che Maurizio Bettini sviluppa in questo libro. Penso che quanto l’autore dice intorno all’identità e alla capacità di tollerare la differenza, sia riferibile all’insufficiente sviluppo e alla precarietà del senso di identità in quelle persone che non hanno potuto o voluto attraversare il difficile cammino che porta a una maggiore fiducia nella propria identità.  È vero che il senso dell’identità è ontologicamente incerto, sempre in bilico, soggetto ai terremoti della vita, eppure, in qualche misura, può essere abbastanza coerente e organizzato, da rivelarsi capace di recuperare ogni volta sufficiente equilibrio e di essere quindi affidabile. Potersi ragionevolmente fidare della propria identità è la condizione per non perdere la capacità di pensare anche in situazioni molto complesse.

Se non si danno queste condizioni le differenze tra gli umani possono essere percepite come pericolosi attacchi, bisogna combatterle e annientarle.

È tanto impervio il cammino verso la tolleranza e il rispetto e basta talmente poco per scivolare all’indietro. È quasi incredibile quanto sta accadendo nel mondo occidentale negli ultimi anni e la velocità del processo regressivo.

Veniamo al punto c): che differenza c’è tra accumulare conoscenze ed entrare profondamente in relazione con ciò che si conosce?

¿È un paradosso che la cancel culture sia richiesta da studiosi noti, da persone che hanno una buona conoscenza dei classici?

Ecco qui si presenta la differenza tra conoscere un’opera perché la si è studiata - studiare è sicuramente una conditio sine qua non - ed entrare in un profondo rapporto emotivo con quell’opera anche grazie alla conoscenza.

Questo vale per tutte le arti, come per tutte le esperienze della vita. 

Gli studiosi dei quali Bettini ci parla hanno certamente rotto il dialogo con il passato, ma forse non sono mai stati davvero capaci di dialogo, nemmeno con il presente. Hanno avuto accesso alla conoscenza, ma l’hanno utilizzata come un possesso e non come un’occasione di trasformazione che permettesse loro di entrare in una relazione tanto profonda con l’altro da arrivare quasi al punto di diventare altro da se stessi, altro da ciò che erano prima di imbattersi in quell’esperienza.

Penso che questo sia un cardine importante tra gli argomenti che Maurizio Bettini sviluppa nel suo libro, il terzo sul quale proporvi brevemente qualche pensiero.

Farò un esempio che mi renderà più semplice farmi capire.

Ero a una mostra di Van Gogh, leggevo con interesse tante informazioni che si aggiungevano alle varie e non organizzate conoscenze precedenti. Leggevo brani tratti dalle lettere al fratello, tentavo di cogliere l’intensità con cui l’uomo Van Gogh ricercava le vie per esprimere la sua arte, la disperata inesauribilità della ricerca, come fosse di fronte all’infinito ben consapevole della finitezza del suo tempo.

C’erano vette di desiderio, direi bramosia di vivere, sperimentare, conoscere e abissi di sofferenza tali che l’epilogo della sua vita appariva in tutta la sua inevitabilità. Cercavo di immaginare le ultime ore prima della fine.

All’interno di quell’immersione - per fortuna ero sola - sono arrivata in presenza del tableau (gli altri erano études) che rappresenta il giardino del manicomio di Saint-Remy.

 

 

 

L’opera mi è arrivata addosso quando le sono stata di fronte. Ho sentito il modo doloroso in cui la realtà era penetrata nell’uomo Van Gogh, trapassando la pelle del corpo e della mente. Troppa realtà in quell’irruzione, i colori dei fiori come punte acuminate di bellezza che lo ferivano e non c’era riparo, non c’era riparo dall’esplosione del reale, l’intensità dell’esperienza si trasformava in disperazione. L’uomo era inerme di fronte alla piena di una vita capace di annientarlo con la sua potenza, eccessivamente bella e subito perduta perché non poteva essere per lui, era troppo per lui. E la sfida del pittore, per trattenerla, per esprimerla, per restituirla all’umanità. 

Davanti all’opera ho sentito una sorta di attonita meraviglia, di sgomento, e poi l’illusione del contatto con le emozioni travolgenti del pittore, emozioni che davano le vertigini.

Prima di vedere quella mostra avrei detto, da analista, che forse l’uomo Van Gogh non sentiva di avere una pelle psichica a proteggerlo. Dopo quell’esposizione mi sono chiesta se la sua difficoltà a vivere non fosse anche in un dono meraviglioso e terribile, una particolare, eccessiva permeabilità rispetto a emozioni e a sensazioni. Forse, guardando semplicemente il quadro, sono inaspettatamente entrata in contatto diretto con alcuni vissuti del pittore, esperienza probabilmente nota a molti, in vari campi. Mi ci sono trovata con i miei mezzi e i miei limiti. Le opere d’arte continuano a parlarci attraverso i secoli. Hanno da trasmettere un messaggio diverso a ciascun interlocutore. Non c’è un’unica verità, ma soltanto quanto in quel momento ha visto la luce grazie a un incontro: l’opera e lo spettatore. Unica condizione è che si stia in silenzio, da soli.

 

Ogni artista, direi ogni essere umano ci passa un’esperienza del mondo, ossia il modo in cui la sua sensibilità ha trasformato l’esperienza; attraverso l’opera entriamo in contatto con il particolare vibrare di quella sensibilità di fronte alla realtà, o meglio di fronte al modo in cui la realtà gli è apparsa… La realtà in se stessa è inconoscibile, dicono i filosofi, e penso che da analisti possiamo confermarlo.

“Quando fotografo un paesaggio è il paesaggio che entra dentro di me, si fa l’autoritratto, così che anch’io diventi “un paesaggio”, per esprimermi al meglio.” [1]

L’arte ricrea la realtà, qualunque espressione dell’umano ricrea la realtà, con il bene e il male che la realtà contiene, e questo ci raggiunge con una straordinaria potenza. Noi entriamo in contatto profondo con l’artista e spesso, forse sempre, l’artista cerca proprio questo. Ciò che la sua arte gli ha permesso di mettere nell’opera continuerà a raggiungere altri esseri umani fino a che l’opera vivrà. [Come potremmo mutilarla?]

 

Per pensare con Bion, non c’è conoscenza senza emozione profonda, senza divenire almeno per qualche momento ciò che si sta conoscendo. Conoscere è trasformarsi, nessuna vera conoscenza ci lascia uguali a come eravamo. È ciò che Bion chiama: trasformazione in O.

 

Spero di non essere uguale a com’ero prima di essere passata attraverso questo intenso libro.

 

 

 

Bibliografia

 

Bion, W. Trasformazioni, Il passaggio dall’apprendimento alla crescita. A cura di Loredana Micati e         Luciana Zecca, Astrolabio, Roma, 2024, cap. 3.

Freud, S. (1911), Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, osf, vol. 6, Boringhieri, Torino 1974, pp. 453-60.

Vittorio Gallese, Ugo Morelli. Cosa significa essere umani? Raffaele Cortina editore Milano 2024

 

[1] Franco Fontana. Roma Ara Pacis, 2024-25.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Davanti all’opera ho sentito una sorta di attonita meraviglia, di sgomento, e poi l’illusione del contatto con le emozioni travolgenti del pittore, emozioni che davano le vertigini.

Prima di vedere quella mostra avrei detto, da analista, che forse l’uomo Van Gogh non sentiva di avere una pelle psichica a proteggerlo. Dopo quell’esposizione mi sono chiesta se la sua difficoltà a vivere non fosse anche in un dono meraviglioso e terribile, una particolare, eccessiva permeabilità rispetto a emozioni e a sensazioni. Forse, guardando semplicemente il quadro, sono inaspettatamente entrata in contatto diretto con alcuni vissuti del pittore, esperienza probabilmente nota a molti, in vari campi. Mi ci sono trovata con i miei mezzi e i miei limiti. Le opere d’arte continuano a parlarci attraverso i secoli. Hanno da trasmettere un messaggio diverso a ciascun interlocutore. Non c’è un’unica verità, ma soltanto quanto in quel momento ha visto la luce grazie a un incontro: l’opera e lo spettatore. Unica condizione è che si stia in silenzio, da soli.

 

Ogni artista, direi ogni essere umano ci passa un’esperienza del mondo, ossia il modo in cui la sua sensibilità ha trasformato l’esperienza; attraverso l’opera entriamo in contatto con il particolare vibrare di quella sensibilità di fronte alla realtà, o meglio di fronte al modo in cui la realtà gli è apparsa… La realtà in se stessa è inconoscibile, dicono i filosofi, e penso che da analisti possiamo confermarlo.

“Quando fotografo un paesaggio è il paesaggio che entra dentro di me, si fa l’autoritratto, così che anch’io diventi “un paesaggio”, per esprimermi al meglio.” [6]

L’arte ricrea la realtà, qualunque espressione dell’umano ricrea la realtà, con il bene e il male che la realtà contiene, e questo ci raggiunge con una straordinaria potenza. Noi entriamo in contatto profondo con l’artista e spesso, forse sempre, l’artista cerca proprio questo. Ciò che la sua arte gli ha permesso di mettere nell’opera continuerà a raggiungere altri esseri umani fino a che l’opera vivrà. [Come potremmo mutilarla?]

 

Per pensare con Bion, non c’è conoscenza senza emozione profonda, senza divenire almeno per qualche momento ciò che si sta conoscendo. Conoscere è trasformarsi, nessuna vera conoscenza ci lascia uguali a come eravamo. È ciò che Bion chiama: trasformazione in O.

 

Spero di non essere uguale a com’ero prima di essere passata attraverso questo intenso libro.

 

 

 

Bibliografia

 

Bion, W. Trasformazioni, Il passaggio dall’apprendimento alla crescita. A cura di Loredana Micati e         Luciana Zecca, Astrolabio, Roma, 2024, cap. 3.

Freud, S. (1911), Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, osf, vol. 6, Boringhieri, Torino 1974, pp. 453-60.

Vittorio Gallese, Ugo Morelli. Cosa significa essere umani? Raffaele Cortina editore Milano 2024

 

 

 

 

 

 

[1] Non farò altri riferimenti al rispetto per il genere maschile femminile, spero si possa dare per acquisito una volta per tutte nel testo.

[2] Freud 1911

[3] Vedi Bion, Riflettendoci meglio. Cap. 7 “L’arroganza”. 

[4] Vedi Bion, Trasformazioni. Cap. 3 “Nel suo lavoro su "I due principi dell'accadere psichico"[4] Freud distingue tra uno stadio in cui si intraprende l'azione muscolare per alterare l'ambiente e uno stadio in cui esiste una capacità di pensiero.

*Propongo di includere nella categoria rappresentata dal termine "azione" fantasie per le quali la mente, agendo come se fosse un muscolo e un muscolo che si comporta da muscolo, può alleggerire la psiche dall'accrescimento di stimoli.”

[5] La parola nazione è diventata dura, troppo vicina a nazionalismo, assetto mentale che orienta un popolo contro l’altro. Infatti ora se ne fa un triste abuso e verrebbe voglia di lasciarla da parte in attesa che si decontamini.

[6] Franco Fontana. Roma Ara Pacis, 2024-25.



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