Avant-coup e Après-coup

“Per una storia dell’ascolto umano” di Marta Calderaro

Après-coup della serata del Ciclo "Al Cuore Dell'Umano: la voce e l'ascolto" con Emanuele Trevi


“Per una storia dell’ascolto umano” di Marta Calderaro

Mentre assistevo, per la terza serata del ciclo Psicoanalisi, vita, scritturaLa voce e l’ascolto, al dialogo tra lo scrittore Emanuele Trevi e Maurizio Balsamo, mi ha raggiunto un interrogativo. Com’erano le voci, quella sera, nella sala? E come l’ascolto?

Una parziale, insufficiente risposta l’ho ricevuta solo un po’ dopo, quando anche gli interventi dell’uditorio hanno completato la serata; cercherò di parlarne più avanti. 

Il discorso di Emanuele Trevi è una storia dell’ascolto umano, che non può però iniziare se non dagli eroi dell’epica omerica e virgiliana (ma, come sarà stata la preistoria dell’ascolto?).

A partire dalla voce di Teti all’orecchio di Achille, una voce autoritaria, divina, che pone ad Achille la scelta tra due soli destini, è poi l’eroe ad iniziare a parlare: un essere umano, un nostro simile, per quanto superiore per virtù ai suoi stessi simili. È Enea a raccontare a Didone e ai Feaci la sua storia, in una scena che, nelle parole di Trevi, sopraggiunge con tutta la sua carica perturbante ed ipermoderna: Enea guarda gli affreschi nella sala del banchetto e scorge in essi le scene che si accinge a raccontare, un’eco che però nulla toglie alla forza del racconto, alla forza della voce ascoltata in silenzio da Didone e i Feaci.

È nel momento in cui viene abbandonata la dimensione metafisica della voce che compare la coscienza (con un rimando di Balsamo e Trevi a Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza di Julian Jaynes). Ed è nel momento in cui la voce da divina diventa umana che può darsi un ascolto, e non solo una cieca obbedienza ad un fato deciso dagli dei – o dalla nostra storia, e dalla storia di chi ci ha immediatamente preceduto.

A partire dagli autori russi, poi, il racconto viene continuamente interrotto dalle domande degli ascoltatori. Qui la voce non è più eroica nel senso epico. L’eroe diventa proprio uno di noi, un marito geloso, un giovane assassino senza un vero perché, una donna infelice, un idiota. Infatti, anche quando la narrazione non si dipana attraverso l’interazione diretta tra chi racconta e chi ascolta, come in Sonata a Kreutzer, diciamoci la verità: non è quasi possibile leggere un autore russo senza porre agli “eroi” continue domande: perché? Quando? Come? E poi? Potrebbe ripetere più lentamente, così da prendere appunti?

 

Ma è solo con il Marlow di Conrad, e soprattutto con Freud, continua Trevi, che il difetto della narrazione e del narratore viene ammesso, spudoratamente confessato, finalmente valorizzato.

Ed eccoci qui, dritti nella nostra pratica quotidiana, che si serve di voce e di linguaggio, di ascolto e decodifiche, di interpretazioni silenziose e sonore, mormorate, esclamate, evitate, e così via. A corrispondere a racconti altrettanto silenziosi, sonori, mormorati, esclamati, evitati.

Cosa resterebbe dei racconti senza un ascolto? Trevi si dà una risposta che è difficile non condividere: è l’ascolto che fa la narrazione, e l’ascolto determina in modo fondante la storia narrata. Non c’è psicoanalista che non ne faccia esperienza diverse ore al giorno. Con quell’ascolto che a volte sembra quasi la descrizione di un’attività zen – l’esercizio calligrafico, la disposizione di fiori in un vaso, la tensione di un arco – in cui è l’essere assorbiti nell’atto di ascoltare che distrae dall’ascolto, ed è lì che avviene l’incontro tra il difetto, appunto, della voce che narra e il difetto dell’orecchio che ascolta. E può essere solo lì che il bivio omerico tra morte e gloria si biforca, si apre in un ventaglio di “se invece…”, è lì che l’eroe diventa semplice protagonista, dunque cresce, si ritrova.

Dunque, per tornare alla domanda iniziale, gli interventi dell’uditorio dopo questo coinvolgente dialogo non potevano che riflettere un ascolto al singolare. Chi attentamente, chi prendendo appunti, chi disponendo fiori in un vaso, abbiamo ascoltato. E poi abbiamo domandato ai narratori. Ognuno col suo filtro, ognuno con i suoi difetti, e come accade con i bei dialoghi sembrava di aver ascoltato versioni diverse della stessa storia, ma, come in Esercizi di stile, ogni versione assolutamente necessaria.

Ne La psicosi bianca Green e Donnet citano Balint: se si fanno domande, si otterranno solo risposte. L’aveva capito Freud, l’aveva capito Emmy – che lo zittì, fondando un embrione di ascolto psicoanalitico. È quello che noi raccogliamo ancora oggi, quando ci mettiamo comodi e ci accingiamo all’ascolto di “tutto quello che le viene in mente, anche se le sembra ininfluente o sciocco, come se descrivesse quel che vede dal finestrino di un treno”. Quello che facciamo è ascoltare difettosamente i nostri narratori – dunque creare storie, che è il modo umano, infine, di darsi un senso.



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