Cultura, cinema e arte

CINEMENTE: “A Chiara” e Antigone: la claustrofobia del desiderio" di Emiliano Alberigi Quaranta


CINEMENTE: “A Chiara” e Antigone: la claustrofobia del desiderio" di Emiliano Alberigi Quaranta

“A Chiara” e Antigone: la claustrofobia del desiderio.

 

Alla serata di Cinemente del 23/5, il film “A Chiara”, regia di Jonas Carpignano, interpretato dalla bravissima Swamy Rotolo, è stato accostato al mito di Antigone. Dopo l’introduzione di Fabio Castriota, che ha ripercorso i passaggi del mito di Antigone, e la proiezione del film, sono seguiti gli interventi di Anna Maria Nicolò e Valeria Condino, e il dibattito con l’attrice e il pubblico in sala.

Ripensando il film “A Chiara” sono innumerevoli le piste che il pensiero può prendere. Se a queste accostiamo il mito di Antigone e la loro interazione ci troviamo di fronte ad un aumento esponenziale di idee su temi enormi. Improvvisamente siamo noi Antigone che subisce l’interdetto di Creonte: dove possiamo collocare il corpo dell’amato fratello se non abbiamo più accesso alle mura delle città? Dove possiamo situare il nostro pensiero che non riceve contenimento ed accoglimento all’interno delle mura della città-stato, immagine del confine entro cui le cose sono pensabili? Improvvisamente siamo anche Chiara che nel corso dell’intero film corre rimanendo ferma sul tapis roulant e solo nel finale arriva, in ritardo, alla lezione di atletica per correre su una pista vera.

Per districarci partiamo dai sogni, nei quali immancabilmente e frequentemente accade la rappresentazione del movimento impedito, quelli in cui ci muoviamo senza poter giungere da nessuna parte. Zizek ci suggerisce che i sogni di movimento-immobile sono l’espressione iconica della distanza incolmabile dall’oggetto del desiderio, distanza che di per sé ne è elemento costitutivo. Il desiderio è causato dall’oggetto e non varia in funzione di quanto si avvicini o allontani da esso.

Siamo dunque di fronte alla rappresentazione della dimensione costituiva del desiderio? Ma non solo. Il film parla di adolescenza, che è un momento in cui la personalità prende forma e struttura. Antigone, d’altronde, è una tragedia, e le tragedie parlano di un’impossibilità a compiersi, a costituirsi. Siamo dunque di fronte non solo alla dimensione costituiva ma anche a quella costituente, strutturante del desiderio.

Quale desiderio dunque? E perché?

Torniamo al film, anzi al dietro le quinte cui il dibattito con la bravissima Swamy Rotolo (Chiara nel film) ci ha permesso di accedere. Già dai titoli di coda possiamo apprendere che gli attori che impersonano la sua famiglia sono la sua stessa famiglia: il padre è realmente il padre, la sorella è la sorella e così via anche con i parenti più lontani. Ovviamente non sono una ‘ndrina malavitosa, tuttavia Swamy ci racconta che il rapporto con suo padre è realmente così intenso, conflittuale e da figlia preferita.

Il film è recitato benissimo e, senza togliere merito agli attori, questo non può che ricordarci che per fingere è necessario che si possa attingere a qualcosa di vero. Nella finzione c’è un nucleo di verità, una verità altra. Alla base del gioco del fare finta dei bambini c’è l’autentico desiderio di essere come i grandi. Alla base del delirio c’è un nucleo di verità emotiva e di ordine diverso che non ha trovato il suo luogo di elaborazione o sepoltura simbolica.

Questo tema ritorna anche nella storia del film, ma questa volta come impossibilità. Chiara fa due non-sogni: un pozzo illuminato al centro di una stanza quando il padre sta fuggendo e il padre davanti a delle fiamme vivide che la prende in braccio per riportarla nel letto. Sono non-sogni perché non si capisce se siano reali o meno dal momento che sono inseriti in delle sequenze dove la protagonista non è né chiaramente sveglia né addormentata. Inoltre il rapporto tra finzione e realtà viene raffigurato anche nella scena magistrale in cui Chiara decide di svincolarsi dalla famiglia, quando è in macchina col cugino in attesa del posto di blocco della polizia. Il padre, latitante, è nascosto nel porta bagagli. Il cugino per simulare una conversazione normale tra un adulto ed un adolescente, intavola un discorso sulla concezione dell’arte di Raffaello che si riprometteva di riprodurre nei suoi quadri il vero senza infingimenti: la verità come qualità estetica di per sé. Ma la cornice è di una menzogna, di un inganno, della simulazione di un rapporto padre-figlia per non essere considerati sospetti dalla polizia. Lì il film ci dice che l’ostacolo all’accesso alla qualità veritativa del finzionale è dato dalla menzogna. Posso godere delle qualità simboliche, generative, autentiche del fare finta solo all’interno di una cornice priva di menzogna o inganno. Non solo in quella scena, ma in molte altre troviamo questo richiamo. Esempio più eclatante è suggerito dal titolo stesso del film, “A Chiara”, che parla di un brindisi finale per i suoi diciotto anni, in contrasto con il mancato brindisi del padre sia a lei, perché Chiara ha deciso di crescere in un’altra famiglia, ma soprattutto alla sorella maggiore quando il padre, seppure presente, è totalmente inibito nel proclamare il suo affetto alla figlia. D’altronde anche il brindisi finale risulta lievemente distonico, il simpatico discorso della sorella acquisita risulta lievemente patinato e sul volto di Chiara rintracciamo una frustrazione inesprimibile.

Qui possiamo appoggiarci alla cultura familiare malavitosa, all’omertà che diviene omertà degli affetti. La menzogna e l’inganno sono presi estremamente sul serio, si tratta di vita o di morte d’altronde. Non ci può essere accesso alla verità, ma solo alla menzogna e dunque non è possibile giocare a fare finta: l’adolescente che si separa dalla famiglia viene ucciso (il racconto delle due giovani che sono state ritrovate con l’acido nella pancia); i sogni non possono essere sognati; il movimento forsennato rimane concluso in un claustrum. E questo si doppia con il dramma adolescenziale, quando il desiderio incestuoso prende corpo con l’emergere della sessualità, non più fantasia ma realtà. In una cultura omertosa il desiderio non può divenire materia costituente per eccesso di realtà, la menzogna è eccessivamente vera.

Ma riproviamo a dare respiro alla storia ricorrendo ad Antigone: anche lì, nel finale tragico, troviamo un claustrum. Creonte punisce Antigone rinchiudendola nella grotta dove si introdurrà di nascosto anche il suo amato, figlio dello stesso tiranno. Qui entrambi troveranno la morte, lui suicidandosi con la spada, lei impiccandosi. La fine di Antigone ha delle analogie con la madre, Giocasta che di fronte alla verità dell’incesto si impicca. Antigone permane nella sua verità affettiva, la legge di natura, degli dei è superiore a quella degli uomini o dello stato, dunque vi è l’accettazione della punizione che simbolicamente ci appare come un ritorno nell’utero o nel finale destinale della madre.

Antigone è stata presa a simbolo sempre rinnovato della lotta contro il potere costituito di uno stato patriarcale. Antigone è l’eroina e Creonte l’antagonista, tiranno iniquo. Tuttavia se siamo certi che Antigone è Chiara, non sappiamo chi sia Creonte: è forse il magistrato minorile che decreta l’adozione di Chiara ad una famiglia di un’altra regione? È l’assistente sociale che racconta a Chiara l’importanza delle norme? O è il padre di Chiara che impone alla figlia il suo silenzio e la chiusura nella grotta? O la sorella maggiore che sostiene che per crescere bisogna non sapere? Creonte è la polis, la molteplicità delle facce del potere, ma anche la sua impersonalità. Antigone è la singolarità verticale del desiderio. Quando il dialogo tra questi poli diviene impossibile, il potere non può essere impersonato e il desiderio verticale finisce per perire impiccato in una grotta. È in questo difficile dialogo che il film si dispiega conducendoci ad un finale un po’ amaro dove da un lato il desiderio di questa adolescente non può che restare inappagato e lasciandoci d’altronde con la domanda se sarà ora possibile che la sua corsa produca movimento, oppure no.

 



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