Ipotesi per una rilettura de l’io e l’es

Introduzione

 

Sappiamo che Das Ich und das Es fu pubblicato nell’aprile del 1923 e che il saggio fa parte di una serie di lavori che introdussero tutt’una serie di nuove idee nella teorizzazione psicoanalitica (1). In gestazione da più di un anno, lo scritto affrontava un tema che era già stato oggetto di una comunicazione orale presentata al settimo congresso di psicoanalisi (Berlino, settembre 1922), l’ultimo al quale Freud poté prender parte direttamente (2).

Due anni prima, al congresso dell’Aia del 1919, aveva fatto il suo debutto nel movimento psicoanalitico Georg Groddeck al quale Freud avrebbe successivamente chiesto di poter far uso di una sua intuizione per riconcettualizzare l’inconscio. All’Aia, Groddeck aveva ‘dimenticato’ il manoscritto in albergo e aveva esposto le sue idee “a braccio e in maniera suggestiva” contrariando non poco gli astanti con la dichiarazione di essere un “analista selvaggio” (Alt, 2016; p. 547). A questa sfacciata affermazione identitaria “aveva fatto seguito un misto di confessioni intime e di azzardate speculazioni psicosomatiche” (ibid.) – atteggiamenti inconsueti per professionisti che si rappresentavano come ricercatori clinici e come scienziati: condotte che ricordavano le attitudini provocatorie inaugurate da avanguardie artistiche come il dadaismo, che nella seconda metà degli anni dieci si erano diffuse confluendo nel vasto e influente movimento surrealista (Breton, 1962; Magrelli, 2018; Vallora, 2018). Nonostante ciò – o forse proprio a causa del disturbo che ciò provocava nel movimento analitico – Freud non aveva esitato nel 1920 a far uso del da di Dada per il famoso “fort/da” descritto in Al di là del principio di piacere (altro evidente imprestito filosofico, questo titolo: cfr. Al di là del bene e del male; Nietzsche, 1881), ricorrendo poi in modo esplicito alla proposta nicciana di Groddeck per ripensare l’inconscio: la sostantivazione del pronome ‘es’ e l’utilizzo del vocabolo das Es.

Le ragioni – o almeno alcune delle ragioni – che spinsero Freud a derogare alla sua calcolata distanza dai filosofi facendo uso del pronome es per designare l’inconscio, possono esser lette nelle lettere scambiate con Georg Groddeck.

È noto che Groddeck avesse diversi legami culturali e familiari con Friedrich Nietzsche (Assoun, 1980, Seravalli, 2019) (3) Quest’ultimo era diventato un autore così importante, nei decenni a cavallo fra il XIX e il XX secolo, da essere oggetto di una duratura e importante moda filosofico-letteraria che ebbe una rilevante influenza anche nel movimento analitico, prima di diventare un orientamento iscritto nell’ideologia nazista con la teoria del ‘superuomo’ (alla quale Freud replica con la teoria del super-io). Quando, nella prima lettera a Groddeck (il 5 giugno del 1917: dunque sei anni prima della pubblicazione de L’Io e l’Es) scrive la frase che riporto qui di seguito, che cosa ha in mente Freud? Non è difficile intuirlo, dato che è scritto con grande chiarezza.

 

Temo che Lei sia anche un filosofo, affascinato dall’unità, spinto dalla Sua tendenza monistica a minimizzare tutte le belle differenze della natura. Ma crede, con ciò, che possiamo liberare delle differenze?”

 

Freud si permette di scrivere una frase così netta e tanto radicalmente critica, perché Groddeck stesso (così preoccupato della sua identità professionale, ma anche geloso di quest’ultima) ha dichiarato la sua ‘fede’ (4) e immaginato le riserve che essa avrebbe suscitato negli psicoanalisti. “Sono consapevole – scrive il 27 maggio del 1917 – che così facendo rasento per lo meno i limiti del misticismo, e forse li ho già varcati” (Honegger, 1970; p. 11). Freud replica come se sentisse il bisogno di correggere e rieducare un allievo promettente ma riottoso. Il tema percorre tutto l’epistolario ed è evidentemente una preoccupazione costante del Freud di questi anni che si trova infatti anche in altri epistolari (quello con Binswanger, ad esempio). “Io non mi considero un monista, replica Groddeck, e vedo che mi piace assistere al gioco variegato di tutte le diverse forze […]. Ma, se riconosco che anche la scienza è solo un gioco, non ci casco più a prenderla ogni volta con religiosa serietà” (ivi. p. 21). “Lei sa che nutro grandissimo interesse per le sue concezioni – scrive Freud poco dopo (9 ottobre 1917) – e solamente mi chiedo, perplesso, fino a che punto potranno essere dimostrate” (ivi. p. 26).

In una lettera del 28 novembre 1920 troviamo poi una di quelle concise ed eleganti giravolte intuitive, al tempo stesso introspettive e proiettive, nelle quali Freud era maestro: “In realtà, sono io stesso un eretico, che non si è ancora trasformato in un fanatico. Io non sopporto i fanatici, le persone capaci di prendere solennemente sul serio la propria limitatezza” (ivi. p. 44). E tempo dopo ancora insiste: “Le mie divergenze critiche verso di Lei sono apparse fin dall’inizio della nostra corrispondenza. E cioè: non condivido il Suo panpsichismo che si spinge fino al misticismo, mentre io rimango fedele al mio vecchio agnosticismo; secondo me Lei ha preso troppo precocemente a disprezzare la ragione e la scienza, e farebbe troppo onore ai vari burocrati dell’università identificandoli appunto con la ragione e la scienza” (ivi p. 67).

Dato il tema di questo lavoro, la lettera di gran lunga più interessante è quella del 17 aprile del 1921.

Qui si trova lo schema grafico che si trova due anni dopo ne L’Io e l’Es. All’inizio della pagina, dopo una garbata serie di complimenti affettuosi, Freud scrive: “E ora parliamo di una cosa più seria: comprendo assai bene perché a Lei l’Ubw non basti per farLe considerare l’Es superfluo” (ivi p. 47). A questo punto, a sorpresa, si legge: “Anche per me è così, solo che io ho un particolare talento per accontentarmi della frammentarietà. Infatti, l’inconscio è ancora soltanto qualcosa di fenomenico, un segno distintivo, in mancanza di una conoscenza migliore, come se dicessi: il signore nel cappotto di loden, di cui non riesco a vedere chiaramente il viso” (ibid. sottolineatura mia). L’osservazione sul talento per accontentarsi della frammentarietà è utile e brillante (difficile, tra l’altro, ricondurla all’epistemologia del positivismo ottocentesco e dunque alle interpretazioni TS2) ed è un altro esempio dell’attitudine pedagogica e politica di Freud (ossia, ancora, la Dimensione A). Subito dopo, il discorso infatti si approfondisce e Freud aggiunge: “Che cosa faccio se un giorno egli compare senza questo indumento?” – un’osservazione che richiama la differenza fra volto e maschera, fra realtà e apparenza. Ed ecco il passaggio dalla Dimensione A a quella B (la clinica) e anche alla C (la ricerca e la teoresi). “Perciò da molto tempo io raccomando nella mia cerchia più intima di non contrapporre fra loro l’Ubw e il Vbw [ossia l’inconscio e il preconscio], bensì un Io coerente e una zona rimossa staccata da esso. Ma neanche così si risolve la difficoltà. Anche l’Io nelle sue zone profonde è altrettanto profondamente inconscio, e confluisce appunto col nucleo del rimosso”.

La rappresentazione visiva dell’apparato psichico è così un tentativo di ridisegnare le relazioni intrapsichiche e di spazializzarle provvisoriamente. “In modo più corretto – aggiunge – si potrebbe affermare che le distinzioni e le suddivisioni da noi osservate valgono solo per gli strati relativamente superficiali, non per le profondità, per le quali il Suo ‘Es’ sarebbe la denominazione giusta” (ibid.). Ammettendo che il tema richiede ancora pensiero e interlocuzione, questa lettera si conclude con accenni all’importanza della dimensione orale e dialogica che non sono frasi di circostanza. “Ne parleremo ancora quando il libricino (il Suo) sarà finito. E preferirei parlarne che scrivere. Ma come fare? Potrebbe venire quest’estate a Gastein o nel luogo dove mi troverò dopo?” (ivi. p. 48).

La questione dell’Es venne in effetti elaborata a fondo nei due anni successivi e nel Natale del 1922 Freud scrive a Groddeck una lettera decisiva per comprendere L’Io e l’Es.

 

“Lei ricorda del resto come già da tempo io abbia accettato da Lei l’Es? È accaduto assai prima che ci conoscessimo, in una delle prime lettere che Le ho scritto. Vi avevo inserito uno schizzo che fra poco verrà pubblicato quasi identico. Io credo che l’Es (in senso letterario, non associativo), Lei l’abbia preso da Nietzsche. Posso affermarlo nel mio scritto?” (ivi p. 75).

 

Il dato è tratto: la decisione presa. Das Unbewußte, l’inconscio, sarà ridenominato e il pronome impersonale ‘es’, che equivale al latino id e all’inglese it, diventerà das Es. Il signore col loden del quale Freud non distingueva bene il volto, ha ricevuto così una nuova denominazione ed è diventato il Sig. Es: Herr Es.

 

Ipotesi

Anni fa ho preso parte alla pubblicazione di un volume curato dal comitato editoriale dell’IPA (Arbiser & Schneider, 2013) e dedicato a un altro lavoro freudiano degli anni venti: Inibizione, sintomo e angoscia (Freud, 1926). Lavorando su quel testo, mi è parso di poter concludere che nella scrittura freudiana di questi anni convergono diverse dimensioni eterogenee, che possiamo ridurre a un minimo di tre diversi ambiti, fra i quali esistono poi intersezioni, aree di passaggio e integrazioni.

 

  • Freud come leader e come educatore [Dimensione A]: ossia la dimensione gestionale, politica e formativa del movimento psicoanalitico. Sono le pagine in cui prevalgono, in Freud, le responsabilità che sentiva di avere per il futuro della disciplina e per la credibilità culturale e la coerenza professionale della psicoanalisi. Nel campo psicoanalitico l’Autore che ha scritto le pagine più chiare su questo tema è Kenneth Eisold.

 

  • Freud come clinico e come uomo, come medico e come essere umano moralmente retto, cioè come Mensch [Dimensione B]: la dimensione del pensatore clinico che sa oscillare fra ciò che sa di sé e della propria vita psichica, e ciò che immagina del funzionamento altrui e della sofferenza umana. Sono le pagine in cui il lavoro mira a stabilire e a riprodurre ciò che oggi chiamiamo il setting interno dell’analista, ma anche a far avanzare la conoscenza grazie all’osservazione, all’ascolto e al metodo clinico. Sono le pagine che giustificano il giudizio di Harold Bloom secondo il quale Freud non sarebbe diventato il Darwin dei suoi tempi, come aveva immaginato, “bensì il Montaigne della sua epoca” – ossia “uno stupendo saggista morale” (Bloom, 2003; p. 302) (5). Gli psicoanalisti che si sono occupati per primi di questa dimensione sono Ilse Grubrich-Simitis e Didier Anzieu.

 

  • Freud come ricercatore e come teorizzatore [Dimensione C]: la dimensione dell’innovazione concettuale e della sistematizzazione teorica del sapere psicoanalitico. L’oscillazione fra la capacità di scrittura che Derrida ha definito ‘a-tetica’, cioè senza un piano teorico predefinito (Derrida, 1980), e la scrittura teoreticamente e retoricamente ben organizzata, che produce convincenti effetti di Aufhebung, il famoso togliere-conservando hegeliano; un prodotto del testo che costituisce a) per il filosofo tedesco la dinamica storica e la vita stessa dello spirito, e b) per il lettore di Freud il problematico e talvolta equivoco equilibrio fra continuità e discontinuità, fra coerenza e innovazione.

 

Nel caso del L’io e l’Es, per problematizzare la lettura e cercare di farla diventare ricerca anziché diletto identitario, ho lavorato sul testo di Freud tenendo aperto sul tavolo anche le Gesammelte Werke. Dal confronto col testo originale emergono diversi problemi interessanti. L’Io e l’Es è un saggio di una quarantina di pagine, suddivise in cinque capitoli ai quali è anteposta una breve premessa. Quello in cui campeggia la celebre raffigurazione della psiche/anima (Figura 1) è il secondo paragrafo e si intitola come l’intero saggio: Das Ich und das Es.

 

 

 

Dalla lettura che seguirà, i temi emersi come più rilevanti sono quattro.

 

Primo tema

Ci sono parole tedesche, in questo saggio, che vengono tradotte in italiano con “complessità” e “complesso” mentre hanno, nella lingua di partenza, un altro significato. Possiamo dire che Freud avesse una teoria della complessità?

 

Secondo tema

In uno storico e non abbastanza ricordato studio apparso nei primi anni Settanta, Henri Ellenberger ha sostenuto che la grande intuizione di Freud è stata quella di sostantivare, cioè dare dignità di soggetto e dunque di sostantivo, a un aggettivo che era già molto diffuso nella cultura romantica del XVIII e XIX secolo. Ciò che si osserva come processo psichico inconscio, unbewußt, consente di affermare che in effetti esiste, nella psiche, un territorio che possiamo chiamare l’inconscio: das Unbewußt. Cosa cambia se per questa operazione si usa un pronome anziché un aggettivo? Il pronome Es non è un neologismo: esso è già un soggetto grammaticale previsto e già dato. Se lo si impiega al posto di das Unbewußte, il rischio di ‘cosificare’ l’inconscio, ossia di reificarlo e feticizzarlo, si accresce o si riduce?

 

Terzo tema

Sin dal titolo del IV capitolo del saggio (tradotto elidendo una parte essenziale: Die beiden Triebarten) e poi con le nozioni di Mischung e di Einmischung (ottimamente tradotte con le parole impasto e disimpasto), Freud insiste sulla necessità di pensare insieme entrambe le organizzazioni pulsionali che sin dal 1921 aveva posto alla base delle sue ipotesi. Perché questa dualità intrinseca (patente e letteralmente irriducibile) ha tanto stentato ad esser… vista: ad esser accettata e compresa?

 

Quarto tema

Nel saggio succedono due cose apparentemente molto contraddittorie. Da un lato Freud presenta un disegno dell’apparato psichico in cui schematizza le relazioni che egli ‘vede’ disegnarsi fra le regioni consce e inconsce, nelle quali interagiscono tre organizzazioni: l’Es, l’Io e il Superio. Dall’altro svaluta le tracce mnestiche visive e privilegia ripetutamente ed esplicitamente le tracce mnestiche acustiche. La cosa è a tal punto rilevante che Freud decide di far indossare all’Io un “berretto acustico” (Hörkappe) che però scomparirà nella versione orizzontalizzata dello stesso disegno pubblicata nel 1932. Cosa significa tutto ciò? Come possiamo intenderlo?

 

Un altro tema appassionante sarebbe il senso di colpa conscio e inconscio. È un argomento che, in L’Io e l’Es, riceve una trattazione attenta. Si tratta della “tesi paradossale” secondo la quale “l’uomo normale non soltanto è molto più immorale di quanto creda, ma anche più morale di quanto egli sappia” (Freud, 1923; p. 314). Per tutta una serie di ragioni, ho pensato che questo fosse un argomento vasto che richiedeva di essere affrontato separatamente. Nell’epoca delle passioni tristi, in cui si osserva un’apparente agenesia collettiva del senso di colpa, penso che bisognerebbe dedicare una riflessione specifica a questo tema.

 

Fissilità dell’io e pluralità dei meccanismi di difesa

Nei famosi Trenta modi per distruggere la creatività dei Candidati (Kernberg, 1998), viene criticata la tendenza a concentrare l’attenzione sulle conclusioni teoriche cui Freud è giunto distogliendola da ciò che è altrettanto interessante, o forse anche più interessante, per il futuro della professione e della disciplina, ossia la modalità di pensiero/scrittura di Freud: la sua particolare capacità e modalità di funzionamento psichico – il “process of Freud’s thinking” scrive Kernberg (ivi p. 239).

Nell’espressione utilizzata – thinking – credo vi sia traccia della contrapposizione fra ‘thoughts’ e ‘thinking’ che Bion ha posto alla base della sua teoria del pensiero. Questa distinzione rimedia a una delle più serie difficoltà di traduzione del linguaggio freudiano. Quelle che noi chiamiamo ‘libere associazioni’ sono infatti, in tedesco, le componenti tematiche del flusso di coscienza – ossia le Einfälle. Il sostantivo Einfall deriva dall’espressione ‘es mir fällt ein’ che vuol dire mi viene in mente. Le Einfälle, cioè i pensieri che fanno subitanea, improvvisa apparizione nella mente e che sfuggono al controllo dell’Io cosciente che le liquida come Abfälle (cioè rifiuti, scarti), sono correlabili ai thoughts della teoria bioniana del pensiero, che intende il thinking come una funzione che si sviluppa per far fronte ai prodotti di quella che ora tutti e con troppa insistenza chiamiamo “funzione alpha”. Questa coppia di concetti (i processi di pensiero emergenti che generano le idee: thoughts; e i processi di elaborazione che organizzano i flussi di pensiero: thinking) ci consente di dare una prima risposta alla domanda che conclude il prologo di questo contributo. Che cosa decide di lasciar perdere Freud nel 1923?

Freud lascia perdere lo spirito di sistema – l’assillo di assoluta coerenza con le teorizzazioni psicoanalitiche precedenti. E dove si esprime, in questo testo, il “particolare talento per accontentarsi della frammentarietà” del quale aveva scritto a Groddeck nella lettera in cui gli chiedeva il permesso di far uso della sua ipotesi sull’inconscio in quanto Es (Honegger, 1970; p. 47)? Nelle pagine de L’Io e l’Es ricorre la preoccupazione di non farsi influenzare dai filosofi. Questo è precisamente il tema-chiave della filosofia critica di Harold Bloom – la “anxiety of influence” (Bloom, 1973, 1994) cioè il timore di essere paralizzati dalle teorie e dalle invenzioni, poetiche o concettuali, dei propri predecessori. Il dialogo a distanza coi filosofi che il testo freudiano attesta, riflette sia una sintonia con l’Autore dal quale deriva la scelta di sostantivare il pronome es, e cioè Nietzsche (la critica ai filosofi è il tema col quale si apre il nicciano Al di là del bene e del male: ad essi viene rimproverato di non capire che “un pensiero viene quando è ‘lui’ a volerlo e non quando ‘io’ lo voglio”; (p21), sia un’affettuosa ma radicale distanza da chi aveva cominciato a farne uso, ossia Groddeck (6).

Nelle laconiche ma molto esplicite pagine sulla teoria bioniana del pensiero (Bion, 1962) si trova l’ipotesi che la qualità dei processi di integrazione fra i pensieri e di rielaborazione teorica (e dunque del thinking), dipende dalla capacità di tollerare le frustrazioni emotive che ostacolano le ‘realizzazioni’ negative che fanno crescere la capacità di pensiero. La frustrazione che il lettore di questo saggio deve imparare a tollerare è quella di veder deluse (non tanto quanto in Al di là del principio di piacere, ma comunque in modo emotivamente e concettualmente significativo) le aspettative di sistematicità.

Vediamo dunque come appare il testo freudiano quando lo si legge dedicando un’attenzione specifica alla qualità della scrittura alla lettera del testo – cioè senza aver fretta nell’interpretarlo/sintetizzarlo.

 

Nella [Premessa] (Freud 1923 b, p. 474) – titolo aggiunto dal traduttore: nel testo tedesco questa pagina non ha denominazione (Freud 1923 a, p. 237) – Freud fa diretto riferimento al saggio che costituisce il punto di svolta della teorizzazione di quegli anni, e cioè Al di là del principio del piacere (Freud 1920). Come il saggio del 1923, anche quest’ultimo ha un’eco nicciana (Al di là del bene e del male, Nietzsche, 1881).

La parola che caratterizza l’intento del lavoro del ‘23 è in questa pagina “sintesi” (Synthèse), qui contrapposta a “speculazione” (Spekulation: ibid.). Speculativo sarebbe infatti il testo del 1920 che Freud dichiara di considerare con distacco: animato – scrive – da “una certa benevola curiosità” (einer gewissen wohlwollenden Neugierde). A differenza di  Al di là… (Jenseits), L’Io e l’Es sarebbe “più aderente alla psicoanalisi” poiché non farebbe uso di “concetti (Anleihen) presi a prestito dalla biologia” e mirerebbe solo a “trarre nuove conclusioni” che si accordino con i dati dell’osservazione clinica.

Anche se in tal modo il saggio sembra proporsi “una meta molto ambiziosa”, esso consisterebbe solo di “enunciazioni molto approssimative”. A questa dichiarazione, che ribadisce un aspetto dell’attività interpretativa freudiana che commenterò nel prossimo paragrafo, fa seguito un breve giro di frasi che costituiscono probabilmente una presa di posizione rispetto a Nietzsche e un’anticipazione della replica a coloro che, nel movimento analitico, ne avevano mutuato il pensiero. Freud riconosce che il suo scritto “non potrà fare a meno di sfiorare teorie enunciate da non psicoanalisti o da ex psicoanalisti”. Sebbene sia stato “sempre pronto a riconoscere” i propri debiti intellettuali, prosegue, qui dichiara di non sentir pesare su di lui alcun obbligo di riconoscenza. Perché mai? Ma perché, spiega, la psicoanalisi segue comunque “un proprio cammino” e quando giunge a occuparsi dei temi dei quali anche altri si sono già occupati, “quelle cose le appaiono comunque in una luce diversa da come appaiono ad altri” (ibid.).

Sono frasi che perseguono probabilmente due scopi: 1) rispondono alle critiche sugli eccessi biologizzanti che erano stati lamentati dai lettori di Al di là del principio di piacere; e 2) prevengono le riserve sulla terminologia filosofica che, attraverso Groddeck, Freud aveva derivato da Nietzsche.

 

 

I

Il primo capitolo del saggio si intitola "Bewusstsein und Unbewusstes”: Coscienza e Inconscio.

Lo scopo perseguito da queste pagine sembra inizialmente quello di rassicurare il lettore (“In questo paragrafo introduttivo non ho niente di nuovo da dire…”) riassumendo il modello dell’apparato psichico basato sulla distinzione tra Inconscio, Coscienza e Preconscio. Questi tre termini sono sintetizzati con formule contratte che distinguono l’aggettivo, minuscolo, e il sostantivo, maiuscolo: bw e Bw (Bewusstsein), ciò ch’è conscio e la Coscienza; vbw e Vbw (Vor Bewusstsein), ciò ch’è preconscio e il Preconscio; e infine ubw e Ubw (Unbewusstes), ciò ch’è inconscio e l’Inconscio. Nel bel mezzo del breve testo di questa prima parte troviamo il sorprendente e motivato rifiuto di una chiarificazione concettuale astratta, ossia ‘filosofica’, delle definizioni di Coscienza e Preconscio, e poi la rivendicazione della “inevitabile ambiguità” terminologica dell’Inconscio (Zweideutigkeit des Unbewußten).

Senza un’abitudine maturata nel corso del lavoro clinico e costruttivamente rassegnata all’impiego di formule provvisorie e imprecise, scrive Freud, le descrizioni dei processi psichici diverrebbero troppo complicate. Dunque, prosegue, dobbiamo rassegnarci a far uso di concetti con un’area di significato vaga e ancora provvisoria, che hanno però dato prova di essere utili.

Dopo un’apertura che problematizza e relativizza ciò che pareva già ben stabilito, Freud esplicita nel giro di poche righe due idee molto nette:

  1. l’Io si compone di una parte che è inconscia;
  2. l’inconscio non può più essere inteso come se fosse solo rimosso. “Rimane esatto asserire che ogni rimosso è inc (alles Verdrängtes ubw ist) – scrive – ma non tutto l’Inc è rimosso (aber nicht alles Ubw ist auch verdrängt)” (1923b, p. 480; 1923 a, p. 244).

 

 

II

Il secondo capitolo – L’Io e l’Es – è quello in cui si trova lo schema grafico ben noto (ivi p.487; p. 262) e inizia con una dichiarazione assai precisa: “La ricerca […] ha fatto sì che il nostro interesse si rivolgesse in modo troppo esclusivo al rimosso” (ivi 482; p. 247). Per essere più accurati, “wir möchten mehr dem Ich erfahren”, ossia vorremmo, o dovremmo, conoscere di più l’Io. Ciò significa porsi altri quesiti sull’inconscio e sui processi psichici, come ad esempio questo: “cosa significa rendere cosciente qualche cosa” (etwas bewusst machen)? Per il Freud di questa pagina occorre porsi il problema di come evolvano, e dove si svolgano, “quelli che – in modo rozzo e impreciso – possiamo indicare come processi di pensiero (Denkvorgänge)”. Dopo che nel paragrafo precedente ha distinto un punto di vista descrittivo e uno dinamico, Freud cerca a questo punto di utilizzare una “rappresentazione spaziale, topica, dell’accadere psichico” (räumlichen, topischen, Vorstellung des seelisches Geschehens: p. 247) della cui utilità si mostra però subito dubbioso. Utilizzando la distinzione tra inconscio e preconscio, Freud riformula la domanda iniziale (“com’è che qualcosa diventa preconscio?” 483; 247) e propone una risposta molto chiara. I contenuti inconsci possono divenire preconsci “attraverso il collegamento (Verbindung) con le rispettive rappresentazioni verbali (mit den entsprechenden Wertvorstellungen)" (ibid.).

Emerge qui un tema importante per la comprensione di questo testo e per la concezione freudiana di questi anni più in generale. Per Freud le percezioni acustiche, dalle quali originano i “resti mnestici” (Erinnerungsreste) necessari affinché i contenuti inconsci divengano preconsci, sono privilegiate sulle altre tracce mnestiche e in particolare su quelle visive. “I residui verbali [dei quali fa menzione in relazione al ruolo di mediazione che svolgono fra preconscio e inconscio] provengono essenzialmente da percezioni acustiche (akustische Wahrnehmungen), cosicché si ha in un certo modo un’origine sensoriale specifica (ein besonderes Sinnesursprung) per il sistema Prec” (ivi. p. 483; p. 248).

A questo punto del testo i Curatori aggiungono un’importante nota a piè pagina che può apparire poco significativa, mentre non dovrebbe sfuggire all’attenzione del lettore. Nella storia della psicoanalisi, scrivono, questo punto di vista era stato espresso per la prima volta da Breuer e Freud in Studi sull’isteria (1892-1895; p. 336). Le tracce mnestiche che organizzano al meglio la rappresentazione di parola non sono quelle generate dalla lettura, né quelle che derivano dalle immagini simboliche motorie che sono così importanti per i sordomuti. La parola che Freud ha in mente in queste pagine “è essenzialmente il residuo mnestico di una parola udita (ist doch eigentlich der Erinnerungsrest des gehörten Wortes)” (ivi p. 484; p. 248). L’Autore de L’Io e l’Es dichiara di non voler trascurare l’importanza dei residui mnestici di origine ottica o di negare la possibilità che i processi di pensiero possano diventare consci anche grazie al ritorno, o al ricorso, di immagini visive. Tuttavia, “il pensare per immagini (das Denken in Bildern)”, sebbene abbia una funzione importante nella produzione onirica, è per il Freud di queste pagine “un modo assai incompleto di divenire cosciente (nur sehr unvollkommenes Bewußtwerden)” poiché (sic!) “a quelle relazioni che costituiscono le caratteristiche peculiari dell’attività di pensiero”, per tutta una serie di ragioni, “non può esser data espressione visiva” (ibid.).

A questo punto, il testo cambia prospettiva e si occupa dell’Io esaminando gli apporti percettivi che lo accrescono: percezioni esterne (äußere Wahrnehmungen) e percezioni interne (innere Wahrnehmungen). Se l’inizio del secondo capitolo si occupa di come i processi di pensiero possono rendere preconsci i contenuti inconsci adottando una prospettiva bottom-up (e il problema così era quello di pensare le relazioni fra preconscio e inconscio come un modo per arrivare alla coscienza), pensare al ruolo delle percezioni esterne sull’Io è un processo che ricorre a una prospettiva esterno-interno: outer-inner. Studiare la percezione endopsichica, cioè considerare le percezioni interne, implica però nuovamente una prospettiva bottom-up. La percezione interna produce sensazioni (Empfindungen) relative a processi svariati che si svolgono a diversi livelli di profondità, ma di esse, scrive Freud, “si sa poco” (ivi. p.484, p. 249). Il modo migliore per studiarle è quello di ricorrere alla “serie piacere-dispiacere” (Lust-Unlustreihe). Anche qui torna subito il tema dell’importanza privilegiata delle rappresentazioni di parola, grazie alla mediazione delle quali i processi di pensiero possono divenire percezioni e avere così accesso alla coscienza.

È a questo punto che Freud ritiene che si possa procedere “nella costruzione della nostra immagine dell’Io” (ivi p. 486; p. 251). Oltre alla raffigurazione grafica, il testo propone due metafore. La prima è quella dell’uovo fecondato (la stessa usata da Gramsci, curiosamente: vedi sopra) e la seconda quella di un cavaliere sul cavallo. L’Io si estenderebbe progressivamente dal suo primo nucleo, che è il sistema P (percettivo), appoggiandosi sull’Es “più o meno come un disco germinale poggia sull’uovo” (ivi p. 487; p. 251). La differenza nei confronti di questo esempio biologico, però, è che l’Io non sarebbe nettamente separato dall’Es, “ma sconfina verso il basso fino a confluire con esso” (ibid.). La seconda metafora serve per descrivere i rapporti di forza fra l’Io e l’Es. Come un cavaliere a cavallo, l’Io cerca di domare la prepotente forza dell’animale sul quale si trova, e del quale è spesso costretto a subire l’iniziativa, “trasformando in azione la volontà dell’Es come se si trattasse della volontà propria” (p. 488; p. 253). In questo caso il limite dell’analogia è che, a differenza del cavaliere, l’Io non sarebbe dotato di mezzi propri ma sarebbe costretto ad agire “con mezzi presi a prestito” (ibid.).

Le metafore illustrano il modo col quale Freud fa propria la teoria di Groddeck.

Quest’ultimo, scrive Freud, “insiste nel concetto che ciò che chiamiamo il nostro Io si comporta nella vita in modo sostanzialmente passivo, e che – per usare una sua [si riferisce a Groddeck] espressione – noi veniamo “vissuti” da forze ignote e incontrollabili” (wir nach seinem Ausdruck ‘gelebt’ werden von unbekannten, unbeherrschbaren Mächten)” (ivi. p. 486; p. 251).

La celeberrima rappresentazione grafica della Fig. 3 viene introdotta dalla frase che segue.

“Propongo di tenerne conto [della teoria di Groddeck] chiamando ‘Io’ quell’entità che scaturisce dal sistema P e comincia col diventare prec; ma di chiamare l’altro elemento psichico in cui l’Io si continua e che si comporta in maniera inc, Es nel senso di Groddeck” (ibid.). “Un individuo – prosegue – è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio, sul quale poggia nello strato superiore l’Io, sviluppatosi dal sistema P come da un nucleo” (ibid). Il rimosso è tenuto lontano dall’Io dal lavoro delle resistenze, ma “esso confluisce nell’Es del quale esso non è altro che una parte (ist nur ein Teil von ihm)” (p. 487; p. 252).

Da notare, nello schema, la posizione assegnata al “berretto acustico”: Hörkappe.

Il testo si conclude illustrando due altre caratteristiche dei rapporti fra l’Io, la coscienza e l’Es.

  1. Sulla genesi dell’Io influiscono non solo le percezioni del mondo esterno, che giungono all’Io attraverso il sistema P, o quelle che originano dall’interno dell’apparato psichico. “Il corpo, e soprattutto la sua superficie, è un luogo dove possono generarsi contemporaneamente percezioni interne ed esterne” (488; 253). Da qui la celebre affermazione: “L’Io è innanzitutto un’entità corporea (Das Ich ist vor allem ein körperliches), non è soltanto un’entità superficiale (Oberflächewesen) ma anche la proiezione di una superficie (die Projektion einer Oberfläche)” (ibid.).
  2. L’esperienza clinica insegna che i rapporti dell’Io con la coscienza hanno importanti aspetti controintuitivi. Ci sono prove antiche e ben note che un lavoro intellettuale impegnativo, elaborato e difficile può svilupparsi in modo preconscio, cioè senza pervenire alla coscienza. E parimenti preconscio e inconscio può essere il lavoro della coscienza morale (Gewiss). Esiste infatti qualcosa che possiamo definire “senso di colpa inconscio (unbewußte Schuldgefühl)” (p. 489; p. 254).

 

 

 

III

Il terzo capitolo sviluppa un tema che era già stato elaborato nella Introduzione al narcisismo (Freud, 1914) e in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (Freud 1921). Il testo si intitola Das Ich und das Über-ich (Ichideal): L’io e il Super-io (ideale dell’Io).

Nel saggio del 1921 la rappresentazione visiva delle relazioni fra l’Io e il Super-io era stata riassunta con una metafora che richiede una sola parola: esiste un ‘gradino’, Stufe, all’interno dell’Io (Eine Stufe im Ich: XI capitolo della Ich-analyse). La novità che il testo del 1923 propone è che, dati i rapporti postulati fra l’Io e l’Es in questo saggio, la parte dell’Io che denominiamo Super-io abbia con la coscienza un rapporto che non è diretto e ovvio – un rapporto che si fa fatica a rappresentare. Il Super-io è il risultato di una complessa serie di processi ontogenetici e filogenetici, individuali e transgenerazionali.

Prima di procedere a descriverli, Freud fa una premessa che indica come e quanto, sulla scrittura di queste pagine, abbiano influito le sue esperienze cliniche come medico e come paziente. Fa infatti riferimento allo studio della melanconia e afferma di doverlo riprendere e meglio precisare perché, all’epoca in cui era stato scritto il suo precedente contributo, “non conoscevamo ancora tutto il significato di questo processo (erkannten wir aber noch nicht die ganze Bedeutung dieses Vorganges)”, ossia la depressione con i suoi sviluppi, “e non sapevamo quanto frequente e tipico esso sia (wie häufig und typisch er ist)” (p.491; p. 256). Nel riflettere sugli effetti delle molte crisi osservate e patite in quegli anni, Freud riprende le concettualizzazioni precedenti e le riformula. Per un lungo tratto il testo riproduce il movimento che è stato descritto da Derrida: un’anticipazione innovativa annunciata dal titolo e poi una retrocessione a principi già stabiliti (decostruendo la struttura del saggio del 1920, il filosofo francese ha riassunto con un gioco di parole la sua osservazione: nel testo in cui annuncia di voler compiere un passo al di là del principio di piacere,“un pas au de là de PP”, scrive Derrida, il testo però pare non riuscire ad andare davvero al di là di questo PP: come se quasi non ci fosse un al di là, “pas de au de là” del principio di piacere).

Il terzo capitolo de L’Io e l’Es si dilunga nella descrizione dei processi di identificazione coi quali viene elaborato il lutto, come se in effetti non fosse davvero possibile andare al di là di questi. Al tempo stesso però Freud non li descrive come se fossero del tutto noti e ben chiari. L’accento è qui sulla struttura dell’Io e sulla storia delle relazioni d’oggetto che ne hanno plasmato lo sviluppo e determinato l’organizzazione. Tra il numero delle relazioni d’oggetto e la coerenza dell’Io c’è un conflitto che può infragilire la struttura di quest’ultimo, anche se gli effetti della moltitudine interiore che deriva dalla storia degli investimenti oggettuali, precisa Freud, non sono necessariamente patologici (ivi. p. 403). Scrive: “la formazione dell’Ideale dell’Io” è il processo dietro al quale “si cela la prima e più importante identificazione dell’individuo, quella col padre della propria personale preistoria” (dem Vater der persönlichen Vorzeit). L’identificazione primaria è però un processo complesso (kompliziert: dunque complicato più che complesso) del quale sono responsabili il “carattere triangolare della situazione edipica” e la “bisessualità costituzionale dell’individuo”. In entrambi i sessi l’esito dei processi evolutivi è duplice. Possono prodursi “o un’identificazione con la madre o un rafforzamento dell’identificazione col padre”. L’esito dipende comunque dalla “intensità relativa delle due impostazioni sessuali” che generano la bisessualità. L’indagine analitica scopre, in genere, che dietro la “semplificazione o schematizzazione” del complesso edipico (che “sul piano pratico è per lo più abbastanza giustificata”), si trova “un complesso edipico più completo (vollständigeren Ödipuskomplex) il quale è di natura duplice, positiva e negativa”.

La struttura dell’Io è il risultato di una “alterazione dell’Io” (Ichveränderung) in cui una parte, l’Ideale dell’Io o Super-Io, si contrappone al “restante contenuto dell’Io” (dem anderen Inhalt des Ichs). Questo effetto costituisce non solo l’esito più comune della fase sessuale dominata dal complesso edipico, che determina “un lascito nell’Io” (Niederschlag in Ich) caratterizzato da entrambe le serie di identificazioni, ma rappresenta anche una “potente formazione reattiva nei confronti di quelle scelte”. Nulla è riconducibile a un semplice, lineare e stabile effetto nella vita psichica. La parte dell’Es che si è sviluppata in questo modo ammonisce l’Io con la prescrizione “così (come il padre) devi essere”: So (wie der Vater) sollst du sein. Nella relazione diseguale e instabile che lega le due organizzazioni in conflitto è contenuto però anche il precetto contrario, ossia il divieto “così (come il padre) non ti è permesso di essere”: So (wir der Vater) darfst du nicht sein. All’Io è prescritto di fare ciò che il padre fa, ma anche proscritto di fare ciò che è solo prerogativa paterna poter fare. L’ideale dell’Io ha un “doppio volto”: ein Doppelgesicht.

Alla fine del capitolo Freud trova un modo pittorico per visualizzare ciò che sta cercando di descrivere.

Utilizza un dipinto del XIX secolo che descrive la battaglia di Châlons (451) fra Attila e un’alleanza capitanata dai romani coi Visigoti e altre tribù germaniche. In questo affresco destinato al Nuovo Museo di Berlino, Wilhelm von Kaulbach ha raffigurato i combattenti come se la battaglia detta dei Campi Catalaunici non si fosse conclusa sulla terra, ma proseguisse anche dopo la morte (fig. 4) – esattamente come aveva immaginato un filosofo neoplatonico, quasi omonimo di un famoso neurobiologo portoghese contemporaneo (Damascio, Damasio), vissuto fra il IV e il V secolo dopo Cristo.

 

 

 

 

Per Freud, la rimozione del complesso edipico non è “impresa da poco” (leite Aufgabe).

Per far fronte alla forza degli impulsi dell’Es, l’Io infantile ha “preso in prestito dal padre la forza necessaria per compiere quest’opera”. Questo “atto straordinario” è tuttavia “denso di conseguenze”. Il ‘gradino’ (Stufe) nella struttura dell’Io descritto nel 1921 e che adesso è diventato il Super-io, sarà tanto più ampio e ripido quanto più forte è stata l’intensità emotiva del complesso edipico. Quanto più rapidamente e bruscamente si è compiuta la rimozione, “tanto più severo si farà in seguito il Super-io nell’esercitare il suo dominio sull’Io sotto forma di coscienza morale, o forse – si badi – di inconscio sentimento di colpa” (497). I fattori relazionali e pulsionali che determinano la struttura del Super-io risultano anche da due serie di fattori biologici altamente significativi. Essi sono da un lato la lunga durata che ha nell’uomo la dipendenza infantile e dall’altro, per via del periodo di latenza, l’inizio in due tempi della vita sessuale. La separazione di Io e Super-io è così il risultato di una serie di caratteristiche evolutive, dell’individuo e della specie, che conferiscono durevole influenza ai genitori del soggetto perpetuando per tutta la vita il loro ruolo grazie ai fattori che ne hanno organizzato evoluzione e struttura.

Freud sembra costantemente preoccupato delle banalizzazioni che possono derivare da letture frettolose e semplificanti dei suoi scritti. Continua a descrivere la dinamica della vita psichica come un insieme di processi che si svolgono parallelamente a diversi livelli. Così, scrive nelle ultime righe (del III capitolo: p. 502), la lotta “già infuriata negli strati più profondi” e che per diversi motivi non ha potuto risolversi “attraverso una rapida sublimazione e identificazione”, prosegue successivamente ad altri livelli come mostra appunto il dipinto di Kahlbach.

In due riprese, in queste pagine, ricorrono le raccomandazioni metodologiche, filosofiche o anti-filosofiche, che abbiamo già riscontrato ricorrenti nel testo. Esse dimostrano quanto fossero vive le preoccupazioni che possiamo ascrivere alla dimensione del Freud politico, cioè quella del leader e dell’educatore del movimento analitico. La prima è l’esplicita accettazione del carattere incompleto e imperfetto del sapere clinico della psicoanalisi, che costruisce la sua strada verso la “comprensione della complicata realtà psichica” (Weg zum Verständnis der seelischen Komplikationen) procedendo “passo passo attraverso la dissezione analitica (schrittweise durch die analytische Zergliederung) dei fenomeni normali e patologici”. La seconda è, nell’ultima pagina, il rilievo che nemmeno la distinzione tra l’Io e l’Es debba essere intesa in modo troppo rigido, perché in fondo “l’Io non è che una parte particolarmente differenziata dell’Es” (daß das Ich ein besonders differenziert Anteil des Es ist: 500, 267).

 

 

IV

Il titolo del quarto paragrafo presenta un problema di traduzione interessante.

L’originale è Die beiden Triebarten che nella traduzione delle OSF diventa Le due specie di pulsioni. Ciò che viene trascurato nel titolo italiano è la parola “beide” che è sia un aggettivo che un pronome ed equivale all’inglese both (potremmo dire infatti che ‘beide’ is both an adjective and a pronoun). Come anticipato nell’apertura di questo capitolo, non si tratta di criticare la traduzione (difficile peraltro trovarne una più aderente al tedesco e abbastanza eufonica), ma di capire perché Freud abbia pensato di scegliere proprio questa espressione indubbiamente un po’ ridondante. Perché da subito, già nel titolo, “entrambe” le modalità pulsionali? Suppongo che il motivo possa essere quello di evitare che la coppia antinomica Eros e Thanatos venga frettolosamente iscritta in uno schema filosofico, divenendo il principio di una dialettica lineare ed evolutiva come era accaduto per le fasi libidiche (cui solo l’ipotesi dei punti di fissazione aveva potuto contrapporsi concettualmente consentendo così di comprendere la ‘bilogica’ dell’apparato psichico: il doppio movimento di progressione/regressione della vita psichica). Le ipotesi di Al di là del principio di piacere avevano suscitato perplessità e Freud riprende qui il tema della più controintuitiva delle sue ipotesi, articolandolo con quello appena introdotto della partizione dell’apparato psichico in Io, Es e Superio. Il capitolo consta di solo sei pagine e inizia esprimendo il convincimento che la “scomposizione della psiche” (Gliederung des seelischen Wesen) debba dar prova di costituire uno strumento utile per una “intelligenza più approfondita e una descrizione migliore dei rapporti dinamici che hanno luogo nella psiche” (dynamischen Beziehungen im Seelenleben: 502, 268).

Delle “due specie di pulsioni” (zwei Triebarten) quella costituita dalle pulsioni sessuali “è di gran lunga la più appariscente e la più facile da individuare”. Essa comprende la pulsione sessuale vera e propria, i moti pulsionali inibiti nella meta e sublimati, ma anche la pulsione di autoconservazione che, precisa Freud, anni prima era stata contrapposta alle pulsioni sessuali oggettuali. Avendo individuato nel sadismo il rappresentante più evidente di una serie pulsionale diversa dalla libido, il IV paragrafo prosegue illustrando le funzioni di entrambe le modalità pulsionali. Tutt’e due “agirebbero in modo conservativo” poiché “mirerebbero al ripristino di uno stato turbato dall’apparire della vita”; solo che l’Eros “perseguirebbe il fine di complicare la vita”, mentre alla pulsione di morte competerebbe la funzione di “ricondurre il vivente organico nello stato privo di vita”. 

La prospettiva che questa concezione propone è rigorosamente ed essenzialmente “dualistica”.

La vita è una perpetua lotta che accade a diversi livelli e produce numerosi compromessi “fra [entrambe] queste due tendenze” (zwischen diesen beiden Strebungen). Ad esse corrispondono specifici processi fisiologici che Freud qualifica come “costruttivi e distruttivi” (nel testo tedesco sono due sostantivi: Aufbau und Zerfall), che nella traduzione italiana vengono specificati sul piano biochimico con un’aggiunta fra parentesi quadre: [processi anabolici e catabolici]. In questa frase c’è poi una seconda parte estremamente utile per comprendere ciò che nelle righe successive è indicato come “un postulato irrinunciabile della nostra concezione” (in unserem Zusammenhang unabweisesbaren Annahme). “In ogni parte della sostanza vivente sarebbero attive entrambe le pulsioni (wären beiderlei Triebe tätig) sia pure in un impasto di proporzioni ineguali (aber doch in ungleicher Mischungen) sicché una certa sostanza potrebbe assumersi la rappresentanza principale dell’Eros”.

Ricorrono in tutto il capitolo diverse espressioni di dubbio. Ad esempio (504): “… la distinzione fra le due specie di pulsioni non appare però sufficientemente certa, e non è escluso che dati tratti dall’analisi clinica rivendichino soluzioni diverse”. Oppure (506): “Anche in questa discussione posso solo prospettare un’ipotesi, non ho prove da offrire.” Nella seconda pagina del capitolo, Freud ammette che sia “difficile rappresentarsi (il tedesco è più netto: ganz unvorstellbar) in qual modo le pulsioni delle due specie si associano, si impastano, e si legano” (miteinander verbinden, vermischien, legieren: 503, 269). Contravvenendo all’impegno preso nella pagina di apertura (non far uso di concetti presi a prestito dalla biologia), Freud si avventura a questo punto in congetture francamente biologistiche. Immagina che il compito di neutralizzare la pulsione di morte sia una necessità anche per la singola cellula e che gli organismi pluricellulari abbiano invece sviluppato, con la muscolatura e il movimento, la possibilità di dirigere la Destruktionstrieb (sottolineata nel testo tedesco) “contro il mondo esterno e contro gli altri esseri viventi” (gegen die Außenwelt und andere Lebenswesen äußern: 503, 269). Quando a causa del “disimpasto” (Entmischung) pulsionale la scarica della pulsione di distruzione non è più posta al servizio dell’Eros, la compresenza integrata e stabilizzata delle due pulsioni viene meno.

 Considerando la vita psichica in questo modo, si aprono diverse possibilità interpretative che potrebbero chiarire parecchi fenomeni. Si possono intendere come “prodotto e segno del disimpasto” (Produkt und Anzeichen einer Triebentmischung) – scrive Freud – sia “l’attacco epilettico” (sic!) sia “gli effetti di alcune nevrosi gravi, ad esempio la nevrosi ossessiva”. Possono essere intesi in tal modo i processi regressivi, “ad esempio dalla fase genitale a quella sadico-anale”, e quelli evolutivi. In questi ultimi, “il progredire dalle prime fasi sessuali a quella genitale” è comprensibile come il risultato di un “apporto supplementare (Zuschuß) di componenti erotiche” (504, 270). Anche l’ambivalenza che si osserva così spesso nelle nevrosi può essere intesa in questo modo. Più che essere l’effetto di una “disposizione costituzionale alle nevrosi”, essa “è qualcosa di talmente primordiale che conviene considerarla piuttosto un impasto pulsionale rimasto incompiuto” (nicht vollzogene Triebmischung). Ammesso che queste sono tuttavia “rapide generalizzazioni” (rascher Verallgemeinerung) e che la distinzione fra le due specie di pulsione “non appare sufficientemente certa” (scheint nicht genug gesichert), Freud adotta il metodo – ma sarebbe meglio scrivere la scelta retorica – di abbassare il livello di inferenza teorica della scrittura e propone di rifarsi descrittivamente “alla polarità di amore e odio” (die Polarität von Liebe und Haß) osservabile clinicamente. Più facilmente accettabile dell’ipotesi dell’impasto e del disimpasto pulsionale, la compresenza di amore e odio aiuta a comprendere la più astratta pulsione di morte, perché l’odio, “invariabilmente inatteso accompagnatore dell’amore” (unerwartet regelmäßige Begleiter der Liebe), è un sentimento che “indica la via” sulla quale possiamo capire l’influenza della pulsione di distruzione.

Freud è attento a non confondere i piani discorsivi. Cerca di non conferire alla sua argomentazione il carattere di una struttura concettuale chiusa. Sappiamo “non solo che l’amore spesso precorre l’amore nelle relazioni”, ma anche che “in alcune occasioni l’odio si trasforma in amore, e l’amore in odio”. Questi processi di cambiamento sono il risultato di una “trasformazione” (Verwandlung) – ipotesi o postulato (Annahme) che è più vicina/o a ciò che possiamo osservare clinicamente della logica di impasto/disimpasto. Nella genesi della “paranoia persecutoria” (in italiano nel testo tedesco) “è legittimo inferire” che, nella fase immediatamente precedente a quella aggressiva, “l’amore si sia convertito in odio”. Nel caso contrario, ad esempio nell’omosessualità o nei sentimenti sociali desessualizzati, l’indagine analitica avrebbe rivelato, analogamente, che le inclinazioni aggressive precedentemente presenti possono essere superate e che “l’oggetto dapprima odiato può diventare l’oggetto amato, oppure l’oggetto di un’identificazione”.

Un’analisi dei processi di trasformazione osservati nella paranoia consente di familiarizzarsi con “un altro possibile meccanismo” (mit der Möglichkeit eines anderen Mechanismus: 503, 27). Essendo presente sin dall’inizio un’impostazione ambivalente, la “trasmutazione” (sempre Verwandlung) si compie mediante uno “spostamento reattivo dell’investimento” (reaktive Besetzungverschiebung) che risulta da una “sottrazione di energia all’impulso erotico” che si combina con un parallelo “apporto di energia all’impulso ostile”. Il risultato è che l’ambivalenza diventa a un certo punto franca ostilità. Qualcosa di simile accade nel superamento della rivalità che porta all’amore omosessuale. Qui lo spostamento dell’asse emotivo dipende da ragioni economiche. Poiché “l’impostazione ostile non ha alcuna possibilità di essere soddisfatta” (keine Aussicht auf Befriedigung), essa viene sostituita da una “impostazione amorosa” (Liebeseinstellung) che ha “maggiori possibilità di soddisfacimento (mehr Aussicht auf Befriedigung) e cioè di scarica” (Abfuhrmöglichkeit).

Continuando a formulare congetture e a variare punto di vista sui processi psichici, Freud sostiene a questo punto di aver “fatto implicitamente uso di un’ipotesi”, un’altra dice il testo tedesco, “che merita di essere resa esplicita” (eine andere Annahme (…), die laut zu werden verdient). Per comprendere la trasformazione dell’amore in odio, “abbiamo proceduto come se nella vita psichica esistesse – non importa se nell’Io o nell’Es – un’energia spostabile (verschiebbare Energie) di per sé indifferenziata (an sich indifferent) suscettibile di associarsi a un impulso qualitativamente differenziato di natura erotica o distruttiva”. E dopo un lungo paragrafo, in cui ancora scrive che “il problema della qualità dei moti pulsionali e della sua persistenza attraverso le mutevoli vicissitudini delle pulsioni è ancora molto oscuro”, sostiene che “sembra plausibile che questa energia operante sia nell’Io che nell’Es (…) provenga dalla scorta di libido narcisista, e sia dunque Eros desessualizzato” (506).

Contraddicendo ciò che è stato appena affermato (ossia che “l’impostazione ostile non ha alcuna possibilità di essere soddisfatta”), l’argomentazione delle ultime due pagine comincia descrivendo gli spostamenti che consentono la soddisfazione delle istanze vendicative e aggressive. Ciò viene qui ricondotto alle funzioni dell’Io, che dispone di “libido desessualizzata” – ridefinita “energia sublimata” (507). Grazie a quest’ultima, l’Io può servire “il fine principale dell’Eros, e cioè l’unire e il legare”: quel tener fermo, quel fissare (festhalten) in unità – o tendenza alla costruzione di unità (Herstellung jener Einheitlichkeit) – che lo caratterizza. I processi di pensiero (Denkvorgänge) sono possibili grazie al lavoro del pensiero (Denkarbeit) che è “sostenuto dalla sublimazione di forze motrici erotiche” (Subliemirung eroitischer Triebkraft: 274, 507). Le vicissitudini, le alterazioni e le trasformazioni della struttura dell’Io derivano dalla dialettica con l’Es e dal lavoro che viene fatto dall’Io sulle finalità dell’Eros. Si osserva così che “desessualizzando o sublimando la libido dell’Es, l’Io lavora contro le finalità dell’Eros”, spesso “costituendosi quale solo e unico oggetto d’amore” (508). Il narcisismo secondario è il risultato del lavoro dell’Io che, rafforzatosi nel corso della vita, “cerca di impadronirsi della libido oggettuale e di imporsi all’Es come oggetto di amore” (ibid.).

Ed ecco che alla fine del capitolo Freud riprende il tema del dualismo pulsionale e dei motivi per i quali esso tende a essere misconosciuto. “Immer wider”, sempre di nuovo (la traduzione italiana è “sempre di più”), capita di fare esperienza col fatto che “i moti pulsionali di cui riusciamo a seguire le tracce sono manifestamente derivazioni dell’Eros”. Pare che “le pulsioni di morte siano per loro natura mute” (die Todestriebe im wesentlich stumm sind) e che “il frastuono della vita provenga soprattutto dall’Eros” e “dalla lotta contro l’Eros” (von Kampf gegen den Eros). Oltre a ciò che è stato trattato in Al di là del principio di piacere, sappiamo però che c’è una componente sadica nell’Eros senza la quale “sarebbe difficile tener ferma la nostra fondamentale concezione dualistica” (an der dualistischen Grundanschauung festzuhalten: 275, 508).

Il principio di piacere si pone “come una bussola” (Kompaß) al servizio dell’Es nella lotta contro la libido. Quest’ultima, infatti, introduce continuamente “perturbamenti nel corso della vita” (Störungen im Lebensablauf). Se non fosse per Eros, il “principio di costanza” enunciato da Fechner (Konstanz-Prinzip) farebbe della vita “un lento scivolamento verso la morte” (ein Gleiten in den Tod sein sollte). Ma Eros, “guidato dal principio di piacere, vale a dire dalla percezione del dispiacere”, continua l’azione eccitatoria che mantiene elevata la tensione interna. L’Es si difende in diversi modi. Innanzitutto, accetta “il più possibile sollecitamente le pretese della libido non desessualizzata”, ossia lotta perché vengano scaricate “le tendenze sessuali dirette” alleviando lo stato interno di tensione e dunque il dispiacere (Lust und Unlust). Quando questa scarica coincide con un pieno soddisfacimento, si osserva una “espulsione della materia sessuale” che “corrisponde in un certo senso alla separazione del plasma germinale dal soma” (Trennung vom Soma und Keimplasma). Da qui la somiglianza fra il pieno soddisfacimento e il morire, poiché una volta “estromesso l’Eros attraverso l’atto che procura il soddisfacimento” succede che sia “lasciata piena libertà alla pulsione di morte”. Un altro metodo è quello di avvalersi della collaborazione dell’Io. “L’Io facilita all’Es il compito di padroneggiare le tensioni (Bewältingungsarbeit) – è l’ultima frase del capitolo – giacché sublima per sé e per i propri scopi una parte della libido” (276, 509).

 

 

V

Il titolo del quinto paragrafo è I rapporti di dipendenza dell’Io (o più letteralmente, le dipendenze dell’Io al plurale: Die Abhängigkeiten des Ichs).

Il testo che lo apre è una frase elegante che esprime il movimento abituale della scrittura freudiana. La parola che funziona da soggetto sintattico è un vocabolo che non si trova nei dizionari: Verschlungenheit. La traduzione italiana è grosso modo corretta, ‘complessità’, ma per diversi motivi non dà un’idea abbastanza accurata di ciò che Freud intendeva dire e/o sottintendere. Ai giorni nostri, le teorie della complessità, le logiche emergenti dei sistemi dissipativi e le loro proprietà auto-organizzative hanno molto modificato il campo semantico del lemma – si tratta di un tema che si è enormemente sviluppato negli ultimi decenni. I verbi dai quali deriva il vocabolo tedesco utilizzato in questa pagina, verschlingen e schlingen, hanno un doppio campo semantico: stringere, intrecciare, ma anche divorare, trangugiare. Dunque il riferimento, se si volesse cercare di immaginare cosa Freud stava prefigurando, bisogna forse pensare alle ipotesi sui pensieri veloci e sui pensieri lenti di Daniel Kahneman (i “due sistemi”: Kahneman, 2011), ipotesi che d’altra parte richiamano il tema freudiano dei processi primari e secondari, cioè i due principi dell’accadere psichico, nonché le ricerche di Matte Blanco sulla bilogica dell’apparato psichico (Matte Blanco, ).

Ma ecco la traduzione italiana: “Spero che la ‘complessità’ (Verschlungeheit) della materia valga a scusarci del fatto che nessuno dei titoli dei paragrafi corrisponde pienamente al loro contenuto, e che, volendo studiare nuove relazioni, ci rifacciamo continuamente ad argomenti già trattati.” (ivi p. 510). La materia psichica è veschlungen (arruffata, intricata, contorta, complicata, voracemente e frettolosamente deglutita: non chiaramente dispiegata nei processi che la costituiscono). Per affrontare “nuove relazioni” (neue Beziehungen) dobbiamo dunque risalire/riallacciarci (zurückgreifen) a ciò che è stato già trattato/sbrigato (bereits Erledigtes). In ciò che è intricato e sfuggente, rapidamente ingoiato e processato nella/dalla vita psichica, ci sono oggetti già chiariti (bereits erledigt) ai quali conviene fare riferimento. Come in Al di là del principio di piacere, anche qui si tratta dunque prima di arretrare, richiamare e riassumere per poi prender slancio e cercare di proseguire ulteriormente.

Il capitolo V consta così di 11 pagine e comincia con un riassunto delle ipotesi con le quali nei capitoli precedenti Freud ha cercato di descrivere i processi di organizzazione del Super-io (“due punti di vista”: identificazioni primarie ed eredità edipica) e le relazioni fra Io, Super-io e Ideale dell’Io. Già nella seconda pagina il discorso vira però verso considerazioni cliniche che sono probabilmente un mix di auto-osservazioni ed etero-osservazioni. Il tema è quello degli effetti controproducenti di rassicurazioni e speranze. Per spiegare le “reazioni terapeutiche negative” e l’apparente “bisogno di malattia” (Krankeitsbedürfnis) dei pazienti, Freud fa uso dei suoi insight. La traduzione accredita una visione solo etero-osservativa dei fenomeni descritti (“si giunge infine alla persuasione che… “), mentre l’originale è francamente introspettivo (man kommt endlich zur Einsicht) e mette in evidenza “un fattore per così dire moralistico”: ossia “un senso di colpa che trova il proprio soddisfacimento nell’essere malato” e un’ostinazione nel non voler “rinunciare alla punizione della sofferenza”. Relegando il problema del senso di colpa inconscio in una lunga nota a piè pagina (in cui si dilunga soprattutto sui problemi tecnici del trattamento), Freud fa riferimento al “senso di colpa normale e cosciente (la coscienza morale)” – stato d’animo che “non presenta difficoltà di interpretazione” poiché è “basato su una tensione fra l’Io e l’Ideale dell’Io” che risulta da una “condanna dell’Io da parte della sua istanza critica” (512, 280). Segue una rassegna sul ruolo del senso di colpa nella nevrosi ossessiva e nella grave melanconia – la condizione clinica della quale Freud aveva affermato di aver dovuto fare una nuova esperienza personale all’inizio del III capitolo. Per una mezza pagina il testo illustra le differenze con l’isteria, nella quale Freud conferma di ritenere importanti i fenomeni di rimozione (che però qui vengono ascritti alle funzioni dell’Io e dunque definiti atti: Akt der Verdrängung). Poi il discorso muta nuovamente direzione e si leggono due pagine sul senso morale – e dunque nuovamente sul ruolo del Super-io e dell’aggressività.

La frase d’apertura è divenuta uno dei più famosi aforismi freudiani.

Con un giro di frase che attenua l’impatto apodittico dell’enunciazione (“Se qualcuno volesse sostenere la tesi paradossale… la psicoanalisi non avrebbe nulla da obiettare), Freud afferma che “l’uomo normale non soltanto è più immorale di quanto egli creda” (tema che era stato uno dei principi più noti della ricerca psicoanalitica degli anni precedenti) “ma anche molto più morale di quanto egli sappia” (514). Riprendendo l’intuizione di un lavoro del 1916 (Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro analitico) e richiamando in particolare il paradosso del “delinquente per senso di colpa”, torna sul problema del sollievo provocato dal castigo – e dunque sul ruolo patogeno del senso di colpa. In tutti questi processi, ciò che il Super-io “lascia scorgere” della propria posizione strutturale e della propria funzione è la sua “indipendenza dall’Io cosciente e i suoi intimi rapporti con l’Es”. Riemerge a questo punto l’insistenza sul tema delle tracce mnestiche di tipo uditivo (“… è impossibile disconoscere anche al Super-io un’origine dalle cose udite”) e la domanda che guida la ricerca diviene a questo punto pulsionale. “Come mai il Super-io manifesta una così straordinaria durezza e severità nei confronti dell’Io?” Cosa succede nella melanconia, dove troviamo un “Super-io ultrapotente” (überstarke Über-ich) che “infuria senza pietà contro l’Io, come se si fosse impossessato di tutto il sadismo disponibile nell’individuo” (514, 283)? Confrontando nevrosi ossessiva e melanconia, Freud ipotizza che le pulsioni siano diversamente combinate. Cercando di dipanare l’intrico dei processi psichici, rallentandone la velocità e chiarendo premesse e passaggi intermedi grazie al lavoro analitico, si può intendere la melanconia come una condizione in cui la pulsione di morte ha preso il sopravvento (facendo divenire il Super-io una “coltura pura della pulsione di morte”: Reinkultur des Todestrieb) e spinge l’Io verso la distruzione suicida. Nella nevrosi ossessiva una “regressione all’organizzazione pregenitale” determina invece la “trasformazione degli impulsi amorosi in impulsi aggressivi verso l’oggetto”. Divenuta libera, la pulsione distruttiva dell’ossessivo vuole annientare non l’Io ma l’oggetto d’amore. L’Io si trova così “privo di soccorso da entrambi i lati": tenta di difendersi dalle istigazioni dell’Es a danno dell’oggetto, ma anche di proteggersi dai rimproveri della coscienza punitiva. Il risultato è che dapprima si tormenta ininterrottamente e che nel decorso successivo della malattia tormenta sistematicamente l’oggetto.

Nelle ultime pagine, Freud formalizza ulteriormente l’ipotesi dell’impasto e del disimpasto pulsionale, formula una sintesi delle relazioni dell’Io con le diverse istanze cui è soggetto, abbozza una teoria sulle diverse forme d’angoscia che tenterà di sviluppare due anni dopo (in Inibizione, sintomo e angoscia, Freud, 1926) e dirige infine la sua aggressività critica verso un ex allievo, Wilhelm Stekel, del quale biasima l’affermazione secondo la quale “ogni angoscia è propriamente angoscia di morte”.

L’impasto e il disimpasto fra le pulsioni (Mischung und Entmischung) consente di arricchire la comprensione dei processi di identificazione, sublimazione e desessualizzazione (516). Grazie a queste nuove prospettive, “possiamo ora vedere l’Io nella sua potenza e debolezza” (in seiner Stärke und in seinen Schwäche). Esso appare come un “monarca costituzionale” la cui firma è necessaria per ratificare le decisioni e le proposte di altre istanze istituzionali, ma che è riluttante nell’applicare il suo sovrano diritto di veto. Questo Io è “una povera cosa” (armes Ding) che deve interagire con il mondo esterno della realtà sociale, con il mondo interno stabilito dall’Es e con il rigore del Super-io. È dunque un “elemento di confine” (Grenzwesen) sottoposto a un “triplice servaggio” (dreilerlei Dienstbarkeiten). Su ciascuna di queste aree di interfaccia, si sviluppano diverse tipologie di angoscia. Ed è l’Io, dunque, “la vera e propria sede dell’angoscia” (die eigentliche Angststätte). La “frase altisonante” (volltönende Satz) dell’allievo che Freud non cita (tatto o piuttosto damnatio memoriae?) è una generalizzazione prematura. In effetti, l’angoscia di morte è solo una delle forme di angoscia e pone alla psicoanalisi “un difficile problema” poiché essa, la morte, è “un concetto astratto che ha un contenuto negativo per il quale non è possibile trovare un contenuto inconscio corrispondente”. E tuttavia, conclude, “a mio parere l’angoscia di morte è qualcosa che si gioca fra l’Io e il Super-io” (519, 288).

L’ultimo paragrafo è dedicato all’Es in quanto elemento psichico che “non è pervenuto a una volontà unitaria” (einheitliche Willen), perché “Eros e pulsione di morte lottano in esso” (Eros und Todestrieb kämpfen in ihm) – lottano dunque entrambe (beide) e continuamente (immer). Avendo descritto l’Es come un’entità “sotto il dominio delle mute ma possenti pulsioni di morte”, Freud conclude il saggio con un dubbio: “non vorremmo in tal modo aver sottovalutato la parte che spetta all’Eros”. Come dire che le novità concettuali così introdotte, dovrebbero essere intese come elementi che entrano in una dialettica aperta e instabile con le ipotesi che erano state precedentemente descritte. Il sistema teorico complessivo deve guardarsi da un fuorviante monismo e rimanere dinamico e aperto – incompiuto e dualistico.

 

 

 

 

 

 

Osservazioni e conclusioni

“Essere giusti con Freud”[7] è difficile perché egli “mette gravemente in crisi la nostra possibilità di dire qualcosa di originale”: dopo di lui, ha scritto Harold Bloom, corriamo il rischio di trovare “solo commenti su quanto ha scritto” (Bloom, 2004; p. 306). Scopo di questo lavoro non è stato individuare il ‘protocollo’ del testo freudiano (per come intende la tradizione neopositivista questo vocabolo) né tanto meno quello di destabilizzare l’autorità delle interpretazioni canoniche decostruendo il significato delle interpretazioni prevalenti. Tentare di esser giusti col testo ha qui voluto dire impegnarsi a studiare il saggio senza pretendere di individuare un cripto- o un iper-testo che intendesse trasmettere concetti sostanzialmente diversi da quelli che sono stati letti dai suoi lettori più attenti.

Le guerre di Freud non sono ancora finite (Forrester, 1997) e forse non finiranno mai, ma è ancora possibile leggere criticamente queste pagine senza apologetici continuismi né forzose discontinuità. L’Io e l’Es non trabocca di novità di stile e di sconcertanti dubbi come Al di là del principio del piacere. Questo libro resta tuttavia un’opera aperta volutamente provvisoria, che pone a chi la legge parecchie domande che le ipotesi proposte non riescono a soddisfare. Freud lo dice con chiarezza nelle prime righe del saggio. Questa è una “Synthese” – una sintesi. Però è una di quelle sintesi che, come le buone interpretazioni, non richiede idolatrica ammirazione ed è stata pensata affinché venga voglia, a chi legge, di proseguire con la propria riflessione di migliorare e se occorre persino di correggere il risultato. “Vi prego, miglioratelo voi stessi coi vostri pensieri” scriverà infatti Freud 10 anni dopo.

Divido le conclusioni in due paragrafi.

Il primo riguarda i contenuti, ossia le tesi, o le ipotesi che mi sembrano giustificate alla fine di questo lavoro. Il secondo riguarda i contenitori, ossia i metodi e le tecniche che possono essere utili per sviluppare le future ricerche.

 

  • Primo ambito. Si potrebbe riassumere il risultato del lavoro sin qui svolto con una battuta: la psiche non è tanto estesa quanto piuttosto compressa; essa vive di processi che accadono parallelamente e contemporaneamente. Qualche volta essi sono descrivibili come indipendenti gli uni dagli altri e altre volte essi sembrano influenzarsi gli uni con gli altri. Nella comprensione e nell’interpretazione della svolta degli anni venti due parole tedesche possono riassumere alcune delle tematiche qui affrontate. “Jenseits” e “beide”. Esse sono una locuzione che metaforizza la prospettiva topica: al di là (del principio di piacere) ossia in un luogo limitrofo ma più avanzato e altro; e un aggettivo/pronome che postula una simultaneità: entrambe le modalità pulsionali allo stesso tempo. Sia nel saggio del 1920 (Jenseits der Lustprinzip) sia ne L’Io e l’Es, e in particolare nel capitolo che riprende più esplicitamente le tesi della svolta teorica, ossia il quarto (Die beide Triebarten), Freud propone soluzioni concettuali che sono ‘viste’ come teoricamente necessarie, ma delle quali contesta e ritratta la pertinenza poiché per diverse ragioni ne è in effetti scontento. Capisce che per rendere chiare le intuizioni psicoanalitiche deve cercare di spazializzare ciò che è spazializzabile solo in via tentativa e didattica; ma sa bene che non c’è un al di là ma una contemporaneità condensata e compressa. Si tratta di processi che ‘legano’ e ‘slegano’ le istanze primarie inconsce producendo ‘impasti’ e ‘disimpasti’. Pulsioni, processi e relazioni sono parole che possiamo leggere parallelamente a quelle che oggi si sono affermate per ‘vedere’ di nuovo, e per noi oggi forse meglio, gli stessi sfuggenti fenomeni: fattori, funzioni, effetti.

 

  • Secondo ambito. Ho cercato di mostrare l’importanza di guardare alle pagine scritte da Freud con attenzione filologica, considerando con pazienza l’efficacia ermeneutica di un confronto diretto con il testo originale e con gli epistolari (Conci, 2019; Grubrich-Simitis, 1992). Ciò è proficuo perché rende possibile intendere la sinergia fra dimensione orale e dimensione scritta, osservare il gioco delle diverse traduzioni e vedere con una certa chiarezza le differenze che hanno dato vita alle tradizioni della psicoanalisi contemporanea. Che cosa debba intendere uno psicoanalista per rigore filologico è detto con grande efficacia nelle prime pagine di Aurora, dove Nietzsche scrive che essere filologi significa esser divenuti esperti nella lettura lenta dei testi. Anche per gli psicoanalisti sarebbe importante saper “portare all’esasperazione ogni genere di gente frettolosa” (Nietzsche, 1887; p. 8). Ovviamente, prima di ogni altro noi stessi: cioè gli psicoanalisti stessi. Freud dice qualcosa di analogo nell’epistolario con Groddeck, là dove ricorda che bisogna essere eretici, ma non fanatici. Quanto all’efficacia ermeneutica, ho qui cercato di sviluppare l’idea – idea che potrà sembrare tanto ovvia da apparire banale – che la scrittura di Freud debba esser letta pensando sia a un Freud paziente (un paziente che soffre e che si cura leggendo dentro se stesso pazientemente) sia a un Freud clinico (un clinico che immagina il funzionamento altrui a partire da ciò che è divenuta l’esperienza di se stesso, per via dei suoi dolori, dei suoi interessi e dei suoi studi) sia a un Freud politico (un dirigente responsabile: l’uomo che fece l’impresa grazie alla quale molti di noi si guadagnano di che vivere e che si pone in continuazione il problema di come estendere ciò che lui chiamava Bewegung: il movimento psicoanalitico). Anche questo è un tema che possiamo solo sperare di chiarire spazializzandolo (l’immagine di diverse ‘dimensioni’ compresenti nel testo); ma si tratta solo di proiezioni ortogonali dell’oggetto (metafora anch’essa semplicisticamente geometrica) che possono tanto facilitare quanto fuorviare la nostra comprensione dello sfuggente divenire dei processi.

 

Per quanto riguarda invece la serie dei quattro di quesiti ricordati nel secondo paragrafo…

 

Primo tema

Possiamo dire che Freud avesse una teoria della complessità? Credo che la risposta sia: ne sì ne no. No, perché ciò che intendiamo ora con la locuzione teorie della complessità è un insieme assai diversificato di modelli concettuali (cibernetica, teoria del caos, teoria delle catastrofi, sistemi dissipativi, dinamiche non lineari etc) che si sono sviluppati grosso modo dagli anni Quaranta ad oggi a partire dallo studio dei meccanismi di retroazione. Sono le logiche del vivente – il naturalmente vivente e ora anche dell’artificialmente intelligente – che sono state e sono oggetto di studio per un campo molto vasto di discipline. Eppure, sì può senz’altro affermare che molti modelli concettuali di Freud sono ben lontani dal meccanicismo del positivismo ottocentesco e irriducibilmente distanti dall’epistemologia positivista. Un esempio per tutti: l’affermazione freudiana di aver trattato il sogno “come il testo sacro”, cioè con le precauzioni teoriche e attenzioni interpretative che sono proprie della tradizione talmudica – modello ante litteram di pensiero della complessità.

 

Secondo tema

Inconscio aggettivo, inconscio sostantivo e il pronome Es. Cosa cambia se per designare l’inconscio si usa un pronome anziché un aggettivo trasformato in sostantivo? Il pronome Es non è un neologismo, per Freud. Nella lingua in cui fu pensato ESso è una componente lessicale e grammaticale comune. Non è l’Id delle traduzioni in inglesi, che è un forestierismo latino in questa lingua (dove tuttavia i.e., ossia cioè, è id est), ed è invece molto vicino al Ça delle traduzioni francesi. Con questa designazione l’inconscio diventa un’area della vita psichica che è ben più vasta del distretto riconducibile al meccanismo di difesa della rimozione; l’inconscio si connota così come un soggetto che può assoggettare l’intero apparato psichico e ostacolare l’Io cosciente nei processi che lo qualificano come soggetto. Il “terzo analitico” e le teorie del “campo psicoanalitico” sono radicalizzazioni di ipotesi presenti nei testi freudiani in cui, come Psicologia delle masse e analisi dell’Io, più forte è la sottolineatura delle influenze relazioni, sociali e culturali sul funzionamento e sullo sviluppo dell’apparato psichico. Insomma: la scelta di Groddeck e di Nietzsche che Freud fa propria rende più difficile sostantivare l’astrazione teorica (l’inconscio non si osserva: si inferisce) e dunque riduce il rischio di cosificare, di concretizzare/reificare l’inconscio.

 

Terzo tema

Perché la dualità intrinseca nel discorso freudiano ha tanto stentato a esser accettata e compresa? Il monismo è una delle caratteristiche di alcune modellizzazioni psicoanalitiche. La teoria della libido e quello che le prime femministe del movimento analitico hanno poi chiamato monismo sessuale fallico hanno caratterizzato non solo la mentalità di una parte cospicua della psicoanalisi delle prime generazioni, ma anche la prima fase della teorizzazione freudiana. Da subito, tuttavia, e poi ancora più chiaramente con la seconda topica le “coppie antinomiche” sono una caratteristica logica (sarebbe meglio dire “bilogica” ricordando la proposta teorica di Matte Blanco) di quel Freud’s way of thinking sul quale ha tanto insistito Otto Kernberg. Radicata nella metafisica ebraica, la dualità pulsionale – la coesistenza ineludibile di amore e odio – è al tempo stesso un’acquisizione assai diffusa e un principio che introduce instabilità e sgomento nella teorizzazione. Alberto Sonnino ha scritto pagine molto chiare su questo punto. “La cattiva inclinazione ha tredici anni più della buona inclinazione” Ha scritto un commentatore del Talmud che Alberto cita estensivamente (Cohen, 1935). “Esiste da che l'individuo esce dal seno materno; cresce con lui e lo accompagna nella vita” (Sonnino, 2022; p. 64).

 

Quarto tema

Infine, il gioco della rarità – ossia l’alternanza di negazione e di ironica utilizzazione – nell’impiego del registro sensoriale ottico. Perché “si prega di chiudere un occhio” e talvolta tutti e due, e si raccomanda di ascoltare, magari col cuore o con la pancia, più che guardare? Certamente, per dar valore ad un altro modo di ‘osservare’: per propugnare uno stile di raccolta dei dati (lo overhear: un analogo ricettivo delle libere associazioni; un auscultare sui generis) che consenta di costruire rappresentazioni di processi che non usano solo le tre dimensioni più ovvie (quelle che si danno allo sguardo: lunghezza, larghezza e profondità) ma che si emancipano dalle modalità immediate, fotografiche e statiche di appercezione della realtà. Non è solo il male che non si vede con lo sguardo, come scriveva Mosè Maimonide, ma è tutta la vita psichica che richiede il riconoscimento che la nostra intelligenza è a suo agio fra gli oggetti solidi. Per aver le idee davvero chiare, bisogna continuare a cercare di confondersele (è una battuta di Umberto Eco) ed evitare così di essere imprigionati dal miraggio degli automatismi binoculari: l’inferenza inconscia che, secondo Hermann von Helmholtz, rende così rapidamente profonda (nel senso della vista: la terza dimensione), plausibile ma troppo facilmente realistica la nostra visione della realtà esterna.

 

Riassunto

Il lavoro propone una rilettura del L’Io e l’Es che adotta diversi punti di vista. Innanzitutto (a) il testo come ripensamento e ‘sintesi’ psicoanalitica delle idee che costituiscono la svolta teorica dei primi anni venti -- ossia la “seconda topica”. Ma anche, (b) il contenuto del saggio come schema di raffigurazione della psiche ironicamente spazializzata, (c) come riflessione auto-osservativa e auto-terapeutica, e, infine, (d) come problematizzazione epistemologica delle tesi prevalenti nel movimento psicoanalitico fra le due guerre mondiali.

In sintesi: scrivendo questo saggio, Freud fa tesoro delle osservazioni fatte su di sé e su altri con i lutti, i traumi e le crisi di quegli anni. Consapevole delle sue responsabilità come leader ‘politico’ (nel senso migliore della parola) del movimento culturale che contribuiva a dirigere e della professione da lui fondata, SF non cessa di preoccuparsi dell’uso che verrà fatto delle sue teorie e del suo insegnamento.  Riscrive dunque la sua concezione dell’inconscio, ridimensiona il ruolo della rimozione, accantona le ipotesi gruppali che ha elaborato in Psicologia delle Masse e analisi dell’Io, e ripensa all’etica e all’estetica del suo insegnamento proponendo Es, Io e Superio come soggetti intrapsichici necessari per comprendere la dialettica della Seele. Le parole che possono riassumere le conclusioni del lavoro sono i due avverbi individuati da Freud in quegli anni come centrali: jenseits (al di là) e beide (entrambe). Il secondo sintetizza, nel 1923, le ipotesi messe in evidenza dalla ricerca clinica avviata nel 1921 col primo avverbio. L’esito più ironico di questa ricerca è nella raffigurazione complanare di Es e Io che verrà pubblicata da Freud nel 1932.

 

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[1] Oltre ad Al di là del principio di piacere (del quale si occupa lo scritto di Derrida che ho citato), in questo gruppo di testi non dovrebbero esser dimenticati Psicologia delle masse e analisi dell’Io (Freud, 1921), Il problema economico del masochismo (Freud 1924), il già ricordato Inibizione, sintomo e angoscia (Freud, 1926), L’avvenire di un’illusione e Il problema dell’analisi condotta da non medici (Freud   ) testo che rappresenta la presa di posizione su un tema a lungo oggetto di un’insanabile contesa politica all’interno del movimento psicoanalitico.

[2] La ragione dell’ assenza degli anni successivi è l’insorgenza del cancro alla mascella che lo condusse a morte sedici anni più tardi. La comunicazione al congresso di Berlino consta di una sola pagina, si intitola Qualche parola sull’inconscio (Etwas von Unbewußten: letteralmente qualcosa sull’inconscio), e costituisce il resoconto di un discorso fatto a braccio che non si trova incluso né in Gesammelte Schriften né in Gesammelte Werke, forse perché redatto da qualcun altro (probabilmente la figlia Anna). Del congresso di Berlino Peter-André Alt ha scritto: “L’intervento di Berlino non implicava solo una promessa per il futuro, rappresentava anche un addio, senza che i diretti interessati se ne rendessero conto. Si trattava dell’ultima uscita pubblica del fondatore della psicoanalisi. Sei mesi dopo ci sarebbe stata una tragica svolta che ne avrebbe determinato in modo pesantissimo il resto della vita – pur sempre altri 16 anni” (Alt, 2016, p. 548).

[3] Nella nota introduttiva a L’Io e l’Es, Musatti riferisce che un’ipotesi secondo la quale Groddeck avrebbe assimilato il pensiero di Nietzsche attraverso il “rinomato medico tedesco” che era stato il suo maestro: Ernst Schwaninger. In uno scambio epistolare con un filosofo (che scrisse poi un libro su Nietzsche, Hans Vaihinger), Groddeck risponde a quesiti intesi a esplorare l’ipotesi che suo padre, Carl Theodor Groddeck, potesse aver influenzato la filosofia politica di Nietzsche in quanto autore di una dissertazione di dottorato intitolata La malattia democratica, una nuova specie di follia (il testo è datato 1850). Quando fece visita alla tomba di Nietzsche con la famosa e famigerata sorella del filosofo, Elisabeth Förster-Nietzsche (un privilegio che veniva accordato a pochi, una tale compagnia), quest’ultima raccontò a Groddeck che la sera prima un amico intimo di Nietzsche, Gersdorff, le aveva parlato per tre ore filate della signora Koberstein, che era la nonna di Georg Groddeck. “In Groddeck – scrive Assoun – Freud incontrava qualcuno particolarmente legato da affinità personali a Nietzsche” (Assoun, 1980; p. 64).

[4] Groddeck aveva iniziato la sua carriera nella medicina facendo ciò che oggi definiremmo riabilitazione e/o fisiatria: approcci terapeutici a mediazione corporea che mirano a riconnettere psiche e soma. “Già da molto prima di conoscere nel 1909 la paziente di cui Le parlavo sopra [perché scrivere una lettera è più parlare che scrivere: NdA], io mi ero convinto che la distinzione tra anima e corpo fosse solo verbale e non sostanziale, che corpo e anima costituissero un tutto unico, e che in questa totalità stesse nascosto un Es, una forza da cui veniamo vissuti mentre crediamo di essere noi a vivere. (Honegger, 1970, p. 11).

[5] Ciò non significa, beninteso, che io qui faccia mia questa ipotesi che mi pare in ogni caso pertinente e utile, se si vuole “essere giusti” con Freud.

[6] La pagina dalla quale è tratta la citazione di Nietzsche sembra scritta da Bion, tanto è coerente con diversi passi dei testi di quest’ultimo. “Per quanto riguarda la superstizione dei logici, non mi stancherò mai di ritornare sempre a sottolineare un piccolo, esiguo dato di fatto, che malvolentieri questi superstiziosi sono disposti ad ammettere – vale a dire, che un pensiero viene quando è ‘lui’ a volerlo, e non quando ‘io’ lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto ‘io’ è la condizione del predicato ‘penso’. Esso pensa: ma che questo ‘esso’ sia proprio quel famoso vecchio ‘io’ è, per dirla in maniera blanda, soltanto una supposizione, un’affermazione, soprattutto non è affatto una ‘certezza immediata’” (Nietzsche, 1886; § 17, p. 21).

[7] “Essere giusti con Freud” è il titolo di un saggio di Jacques Derrida (1992). Il titolo del libro ha le virgolette perché si tratta una frase prelevata da un libro di Michel Foucault (Storia della follia nell’età classica: Foucault, 1961) dove la locuzione compare in forma imperativa: “Bisogna essere giusti con Freud” (ivi p. 378). Come Starobinski con Montaigne, Derrida si impegna nel saggio del 1992 in un lungo corpo a corpo coi testi a seguito del quale ipotizza che Foucault, con Freud, “deve proprio averla provata, dentro di sé o fuori di sé" la tentazione alla quale raccomanda di sfuggire – e cioè di essere ingiusti con Freud (Derrida, 1992; p. 39).

Per essere giusti con i testi che si studiano, occorre rispettarne innanzitutto la lettera. “Qualunque cosa si faccia, bisogna cominciare col capire il canone” – scrive Derrida (ivi. p. 30). E ricordando un’antica querelle con Foucault a proposito di Cartesio, chiarisce: “In un protocollo che metteva in scena certe posizioni di lettura, evocai allora il radicamento del linguaggio filosofico nel linguaggio non filosofico e ricordai una regola di metodo ermeneutico, che mi sembra valere anche per lo storico della filosofia come per lo psicoanalista, ovvero la necessità di assicurarsi dapprima del senso patente, e di parlare quindi la lingua del paziente che si ascolta: di capire bene, in modo quasi scolastico, filologico e grammaticale, tenuto conto delle convenzione dominanti e stabilizzate, quello che Descartes voleva dire alla superficie del già così difficile suo testo, per come è interpretabile secondo le norme classiche della lettura, e di capire questo prima di sottomettere questa prima lettura a un’interpretazione sintomale e storica regolata da altri assiomi e altri protocolli: capire questo anche prima di e per destabilizzare, là dove è possibile e se è necessario, l’autorità delle interpretazioni canoniche” (ivi p. 29).

 

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