Attualità e nuove sofferenze

Perché i Gatti - di C. Buoncristiani e T. Romani

Da gattina a gattara: quando Johan Riviere incontrò Taylor Swift


Perché i Gatti - di C. Buoncristiani e T. Romani

C’era una volta una gatta

(Gino Paoli)

 

 

“Ci sono due tipi di persone al mondo. E io le odio entrambe”.

A parlare è “grumpy cat”, in uno dei suoi meme virali. Si tratta di uno dei gatti più famosi di Internet. Espressione imbronciata e occhioni impertinenti. Ha fatto la storia di quel 15% di traffico web che la rete dedica interamente ai gatti. Con 4,5 milioni di followers “Nala cat” ha invece scalato le classifiche di popolarità arrivando ad avere perfino una sua linea di prodotti per felini.

Dal canto suo Taylor Swift si fotografa proprio con un gatto per fare il suo pubblico endorsement in favore di Kamala Harris.

Ciascuno di noi sa che scorrendo la bacheca di qualunque social troverà foto di felini. Gatti che corrono, che guidano macchine indossando occhiali da sole, che inciampano simpaticamente mentre provano assurde acrobazie, gatti bambini, gatti pasticceri, gatti criminali e gatti poliziotti. Non possiamo fare a meno di rimanere incantati quando davanti ai nostri occhi si manifestano gli occhioni del gatto.

Qualcuno si è chiesto come mai. C’è chi azzarda ipotesi sulle proporzioni del musetto e degli occhi di queste simpatiche bestiole, molto simili a quelli dei bambini piccoli. Chi rispolvera i gatti nell’antico Egitto e chi al netto di ogni spiegazione sa bene che mandare in rete un gatto è comunque una manovra di marketing di successo garantito.

Solo per fare un esempio: la Marvel per rilanciare la sua saga ha inserito decine di gattini simpaticissimi nel copione di uno dei suoi ultimi film.

La qualità umanizzata delle immagini presenta i gattini sotto la luce più familiare possibile. Li vogliamo teneri, buffi, seduttivi, intimi, vivaci, sorprendenti. D’altronde l’operazione di rendere qualcosa familiare dovrebbe sollevare il dubbio che invece qualcosa di differente venga preso in un processo di addomesticamento. E chi consce bene i gatti sa quanto questo animale domestico sia molto poco addomesticabile. Tanto da dover ricorrere alla sterilizzazione: “castrazione” molto concreta per farli stare buoni in un appartamento. Con i lupi, poi diventati cani,  i Sapiens hanno avuto meno problemi che con i gatti…

Secondo Harari segnalare al gruppo “Dove sta il leone”, il pericoloso felino, sarebbe stata una delle funzioni del linguaggio e la ragione di un vantaggio competitivo per i cacciatori raccoglitori di 50 mila anni fa rispetto al mondo animale. Dunque, felino come natura selvaggia da cui, dopo la rivoluzione cognitiva, i Sapiens si sono staccati.  Ma forse tutto il lavoro che siamo spinti a fare con l’immagine dei gatti conserva la traccia di questa antico impasto iniziale poi diventato il nostro “Fuori”.

Derrida lo spiega così: “Il fuori intrattiene con il dentro un rapporto che come sempre, è tutto meno che di semplice esteriorità. Il senso del fuori è sempre stato nel dentro” (1967).

Dunque, al cuore del desiderio di rendere familiari i gatti potrebbe esserci un senso di profonda alterità. Basta guardare bene le pupille verticali dei gatti, predatori notturni, molto simili a quelli del serpente. Vedono il buio, la notte, la morte, ciò che noi non vediamo. Altre figure dell’alterità.

Abbiamo bisogno di lavorare il fuori e lo facciamo spesso trasformandolo in oggetto del desiderio o facendolo entrare in paradigmi estetici. L’analisi che stiamo conducendo sui gatti e su come trasformiamo ciò che ci inquieta è la stessa che Virginie Despentes, nel suo libro King Kong Theory, sviluppa intorno al concetto di mignotteria. “Guarda quanto sono buona, nonostante la mia autonomia, la mia cultura, la mia intelligenza, il mio unico obiettivo rimane quello di piacerti, sembrano dichiarare le bambine in tanga”…e i gatti. Sembra che chiediamo ai gattini su Internet di mandare lo stesso messaggio che le donne anche molto emancipate sono spinte a mandare, “non abbiate paura di noi, siamo disposte a camminare su scarpe impossibili, a indossare vestiti scomodissimi, a gonfiarci i seni, pur di rassicurarvi in quanto siamo solo oggetti del vostro desiderio”.  

D’altronde, nel 1927 Johan Riviere nel suo lavoro “La femminilità come travestimento” dice proprio questo. Le sue prestazioni intellettuali, indipendenti e brillanti, significavano per lei “l’esibizione del suo possesso del pene del padre”. Terminata questa ostentazione veniva però colta dallo spavento del castigo che il padre avrebbe a quel punto finito per infliggerle. Il tentativo di offrirsi sessualmente facendo seduttivamente “la scema”, facendo la mascherata della femminilità, costituiva un passo per tranquillizzare il padre vendicatore.

Tutto ciò non è comprensibile se non si parte dall’idea che l’accesso a un potere tradizionalmente maschile implica la paura della punizione.

Porsi come oggetto del desiderio dell’altro, quindi, è un porsi rassicurante. Questa mascherata è la stessa dei gattini in rete. La “gattinità” potrebbe essere considerata la costruzione non libera di un genere. L’essere gatto di cui abbiamo parlato è l’edificazione di un’identità sotto lo sguardo di un altro da cui dipendi e che in termini politici è in posizione egemone.

I gatti non sono sfuggiti neanche al padre della psicoanalisi. Freud, come è noto, amava i cani. C’è però un bel passaggio sui gatti in Introduzione al narcisismo. Nel 1914 Freud mette insieme donne seduttive, gatti e criminali: per noi sono attraenti per il loro narcisismo. Ma il fatto che si rendano attraenti “per noi” lusinga piuttosto il nostro di narcisismo e disattiva la loro alterità. Rende al limite il loro narcisismo meno pericoloso. In questo senso il loro narcisismo è la posizione di “beatitudine psichica a cui abbiamo rinunciato” (Freud 1914), il loro essere “fuori legge”. La verità dell’analisi di Freud, al di là di Freud, sta tutta nella figura del criminale che lui associa alla donna e al gatto. Quindi l’oggetto d’attrazione è ciò che viene costruito per recuperarlo alla legge e disattivare l’angoscia che quell’alterità ci suscita. Il proliferare di film sui criminali non è altro che questo.

E quindi perché Taylor Swift dalla parte di Kamala si fotografa con un gatto? Ricordiamo che il vicepresidente scelto da Trump, J.D Vance, aveva detto: “Le donne senza figli sono solo gattare che non dovrebbero avere diritto di voto”. Eccolo il gatto che non si lascia addomesticare!

La gattara come figura di resistenza psicosociale. Subito divenuta geniale risposta di marketing elettorale… In quanto fuori legge non ha diritto di voto. Dunque, abbiamo fatto il giro: da gatti e donne costruiti come oggetti di desiderio, a donne che rifiutano di fare figli e si alleano con gatti randagi.

Taylor Swift nel suo endorsment si definisce una Childless Cat Lady, una Johan Riviere intelligente e brillante, non più gattina ma finalmente gattara.

Resta da indagare come questa operazione meravigliosa e paradossale sia tutta interna al capitalismo, sebbene utilizzi una figura della sovversione…

     

  

 

 

 



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