Attualità e nuove sofferenze

Quiet life. Manuale di resistenza per non (più) rassegnati. Chiara Buoncristiani sul nuovo film di Alexandros Avranas

Presentata a Venezia la pellicola che mette in scena le conseguenze devastanti della “strategia burocratica” verso le famiglie che chiedono asilo. Sembra una distopia ma succede davvero.


Quiet life. Manuale di resistenza per non (più) rassegnati. Chiara Buoncristiani sul nuovo film di Alexandros Avranas

 

Quiet life è un film presentato alla 81° Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti. Ma è anche un manuale, o forse un contro-manuale di resistenza. Se l’Ottocento ha dato alla luce le isteriche, questi primi anni Duemila partoriscono qualcosa come la “Sindrome da Rassegnazione”. Qualcosa che somiglia molto a quella “morte in culla” per assenza di investimento che René Spitz aveva osservato già nel secolo scorso negli orfanotrofi inglesi. I neonati seppur nutriti e accuditi cadevano nel torpore catatonico o morivano perché a mancare erano cure (e amore). Per assenza di Eros.

Molto simile a quanto, dal 2000, sta accadendo in Svezia. Solo che qui a essere colpiti non sono gli orfani ma centinaia i bambini, figli di immigrati in attesa del riconoscimento di rifugiati. Cadono in uno stato comatoso e sono allontanati dai genitori, (de)tenuti in reparti di psichiatria infantile.

Una storia che ha colpito il regista greco Alexandros Avranas, soprattutto per la segretezza con cui la civilissima Svezia ha gestito questa epidemia di casi (sarebbero centinaia). Una storia che a un certo livello, se è vero che le soggettività soffrono dei sintomi che passa l’epoca, ci parla di noi europei. Tutti più o meno malati di indifferenza. Tutti coinvolti in questa luce straniante, surreale e allucinata che Quiet life riflette così bene. Una luce di cui non sappiamo accorgerci… fino a quando qualcuno non fa qualcosa come andare in coma.

È così che Quiet Life diventa denuncia: un ritratto raggelante di una Europa che preferisce annegare la giustizia in un mare di burocrazia, mentre l’unica strategia che può resistere è la solidarietà tra gli ultimi. Tuttavia la storia di Quiet life non fa sconti a nessuno, neppure ai deboli. Esplora in modo glaciale e spietato le contraddizioni dell'amore e della famiglia in un contesto di estrema difficoltà.

Controllato e per nulla sentimentale, il film è un apologo kafkiano che rivela l’aspetto perverso delle “difese burocratiche” dell’apparato. Chi si occupa dei rifugiati e del diritto di asilo non lo fa come essere umano, ma come “funzionario”. Con un’etica impersonale che si traduce in assenza di responsabilità verso le non-persone immigrate.

Al centro della storia c’è una famiglia di dissidenti russi, entrati illegalmente in Svezia per salvarsi dal FSB e dalla violenza di Stato russo. Il padre, Sergej, è un preside che ha manifestato idee troppo democratiche e diffuso libri “proibiti” e liberali. Ha pagato con uno squarcio nell’addome la sua indipendenza di giudizio.

Nella prima scena lo vediamo con la moglie Natalia e due figlie ancora piccole in una sorta di “acquario” asettico. Muoversi come una marionetta vuota, o come una semi-persona in attesa di sapere se potrà diventare un “esule”, un qualcuno. I quattro familiari sembrano paralizzati, come glaciali sono le interazioni tra loro. Si trovano in un appartamento messo a disposizione dalle istituzioni svedesi e aspettano l’udienza che gli consenta di vivere legittimamente nel Paese in cui si sono rifugiati.

Arrivano dei funzionari a controllare la possibile “integrazione” nella realtà europea. Sembrano entomologi che verificano la correttezza dei movimenti di formiche robot. E poi c’è l’udienza, un tripudio di indifferenza: l’unica testimone dell’agguato al capofamiglia è la figlia più piccola Katia, che i genitori vogliono proteggere da una nuova deposizione, ma in assenza di prove certe, la famiglia deve ritornare in Russia.

Katia, caricata di una responsabilità e di una tensione troppo grande cade in coma, vittima di quella che le autorità svedesi hanno appunto identificato come la Sindrome da rassegnazione. La bambina viene sottratta ai genitori che paradossalmente ora possono restare in Svezia sino a che la piccola è in cura in un istituto sperimentale. Un centro che somiglia molto più un carcere guidato da una setta disumana e vendicativa, che a un moderno ospedale. A fornire la “soluzione” per salvare questa famiglia non sarà la grottesca terapia per imparare a sorridere imposta dai protocolli svedesi, ma una donna che ha vissuto lo stesso incubo di Sergej e Natasha.

Il film di Avranas è un altro ritratto crudele di una famiglia costretta a subire una pressione traumatica: non essere visti e non essere ascoltati come individui prosciuga ogni spinta libidica. C’è del sadismo nell’interrogatorio cui è sottoposta una delle due bambine, Alina. Per mostrarlo Avranas sceglie uno stile piano, severo, quasi sempre a camera fissa, una progressione narrativa implacabile che ha nei tre momenti di confronto fra la famiglia e l’autorità le chiavi di volta dei suoi tre atti. Fino al culmine del “giro in auto” in un parcheggio sotterraneo stipati su una vecchia Volvo bianca, con le bambine intubate e una canzone russa cantata dai genitori.

Il film è informato e ossessivo. A tratti la tragedia sociale sembra diventare una distopia delirante. Fino alla domanda finale: “Nella speranza di una vita dignitosa, milioni di bambini sono costretti a spostarsi e ad abbandonare le loro case per via di guerre, povertà o repressione politica. Ma come possono i genitori garantire protezione e stabilità ai loro figli nella consapevolezza che la realtà dei fatti è tutt’altro che ottimistica?



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