Conversazione con l’autore di “Questo visibile raggio di buio”
Una ferita celeste, ci apporta
non ne troviamo cicatrice,
ma un’interna differenza,
dove stanno i significati
Emily Dickinson
“Un nucleo vitale che, tra tante macerie, fu certamente mortificato, ma mai ucciso. Una sorta di grumo di energia segreta e misteriosa, invisibile e silenziosa. Quando le circostanze lo consentirono, quel piccolo seme sotterrato dalla cenere e dai lapilli, prese a germogliare tenacemente, aggrappandosi a quell’aspetto dell’esistenza che, da adulto, avrebbe definito bellezza”. È un passaggio di Fabio Castriota in “Questo visibile raggio di buio” (Alpes, 2024).
Ogni nuovo paziente tocca qualcosa di nostro. Deve farlo perché un processo analitico si svolga. Cosa succede, però, quando questo tocco riguarda le ferite più dolorose dell’analista?
Già in “Frammenti in ombra” Castriota, psichiatra e psicoanalista, dava vita a una temporalità stratificata e una compresenza di diversi registri dello psichico. Un discorso narrativo dove creatività e trauma si compenetrano. Nell’ultimo romanzo gli stessi due elementi assumono la forma di strutture dell’esperienza dei personaggi, loro condizioni di possibilità: Giorgio, medico e analista, incontra una nuova paziente, Sara e con lei ritrova le vicende traumatiche proprie e collettive. Una discesa agli Inferi che si svolge in luoghi e contesti storici diversi: la Roma del primo dopoguerra, lo stato di polizia brasiliano, un congresso psicoanalitico a Londra, un campo di concentramento…
D: Il male esiste e produce effetti. Eppure, lo psicoanalista Giorgio vive una trasformazione attraverso la relazione con la paziente Sara: una ripetizione che è anche “uno scambio fuori da ogni controllo cosciente. Qualcosa di implicito nella natura umana, che necessita di una misteriosa e rara precondizione per nascere e poi prender forma” …
R: Questo credo sia il motore del romanzo. La domanda sul se - e sul come - si possa elaborare il trauma: qualcosa che comunque non appartiene mai solo al paziente. C’è una traccia dolorosa che ogni analista porta nel profondo, più o meno definitivamente elaborata, che con certi pazienti può essere riattivata. Alcuni autori, come Puget e Wender parlano di “Fenomeno dei modi sovrapposti”. Una trasformazione profonda, in analisi, non può non passare con l’incontro e lo scambio profondo tra i due soggetti della relazione, comprese le aree traumatiche di entrambi. Per questo il lavoro dell’analista è sempre in parallelo sempre autoanalitico.
D: Nel romanzo il protagonista vive una storia estrema, che prende il via dall’azione plastica della distruttività. Dove la plasticità qui sta per una materia che fa esplodere la virtualità della forma vitale e che allo stesso tempo diventa forma-cicatrice di una ripetizione.
R: Direi proprio che il trauma diventa elaborabile attraverso il riconoscimento di quanto l'aspetto distruttivo che si riversa sul soggetto appartenga in primis al soggetto stesso. Tutto il romanzo ruota intorno a figure traumatizzate. Ce ne è una in particolare, che riassume in maniera drammatica questo percorso: la storia vera di un ebreo scampato all’Olocausto che, conscio di stare per finire nella camera a gas di Birkenau, si era nascosto in un bidone di carbone. Sfuggì alla morte solo perché le SS, trovatolo tutto sporco di carbone, anziché ucciderlo, risero del suo aspetto. Dopo anni quest’uomo fece un'analisi per via degli esiti drammatici di questo trauma. Durante l’analisi visse una situazione psicotica in cui cominciò ad avere una serie di allucinazioni. Tra queste riattualizzò la scena di lui, nudo, nero di carbone di fronte ai suoi aguzzini. Fu a quel punto, uscito dall’esperienza allucinatoria, che si riaffacciò il ricordo rimosso di quello che aveva pensato in quel momento: solo il caso aveva voluto che si trovasse in quella situazione nel ruolo di vittima, ma a parti invertite non era sicuro che si sarebbe comportato in un modo diverso dai nazisti. Così, contemplò che lui stesso fosse umanamente portatore di una parte potenzialmente distruttiva. Solo partendo da questa considerazione riuscì a rielaborare tutto quello che gli era accaduto, riuscendo a disidentificarsi dal ruolo di vittima per arrivare, alla fine del suo percorso, ad una sorta di accettazione, finanche di perdono. Nel romanzo ci sono altre storie come questa, non solo quella degli stessi protagonisti.
D: Il male non si può elaborare se non attraverso una discesa nell’oscurità che ci appartiene?
R: È chiaro che questa discesa deve passare nella possibilità di lasciare morire dentro di sé quella parte identificata con il ruolo della vittima, assumendo invece quell'area umana nella quale bene e male si confondono, come poi accade nella cultura orientale dove tutte le divinità, come tutti gli individui, contengono entrambi i versanti. Ogni divinità ha sempre il suo lato creativo e benevolo, ma anche il suo lato distruttivo, orrifico. La bellezza e la santità hanno un’altra faccia: quella che rimanda sempre all’orrifico. Tutto il romanzo gira intorno a questo tema. Senza il riconoscimento della propria distruttività non c'è perdono, perdono nel senso di uscita dal trauma.
D: Sarebbe d’accordo con l’ipotizzare che uno degli aspetti traumatici del male consiste proprio nel costringere chi lo subisce ad assumere l’identità di vittima senza poter riconoscere quella del carnefice come elemento che sta anche dentro di sé?
R: Credo che Ferenczi, con le sue riflessioni sul trauma infantile e l’identificazione della vittima con l’aggressore, ci abbia aperto lo sguardo su questi temi fondamentali. C’è un passaggio ne I promessi sposi dove Manzoni dice che le persone che fanno del male sono colpevoli non solo per il dolore che infliggono, ma per la devianza che imprimano nella mente di chi lo subisce. Cioè il trauma non solo produce una ferita, talvolta non riparabile, ma distorce un percorso che sarebbe stato vitale. Recuperare e anche rivivere gli stessi ricordi o emozioni del trauma è però difficile perché in qualche modo la mente si articola e si organizza per tenerlo lontano dalla coscienza.
D: È quello che succede a Giorgio nel romanzo. A livello cosciente l'analista pensava di aver ormai sistemato dentro di sé i vissuti traumatici, mentre finisce per riattraversare quei vissuti.
R: Lo deve fare per poter dare questa volta una risposta diversa a quel trauma, che non può però essere una risposta da trovare in solitudine. Questa è la grande potenza dell'analisi, che è sempre una situazione relazionale. Soltanto entrando in comunione con la psiche dell'altro possiamo prendere contatto con parti di noi e costruire quella area terza di rappresentazione per elaborare il trauma. Winnicott ci ricorda la necessità in analisi di tornare, in alcune situazioni estreme, a una dipendenza assoluta, di agonia primitiva che si deve riattraversare per poter riaprire una finestra di esperienza altrimenti preclusa. Questa esperienza passa dalla ripetizione traumatica come elemento trasformativo, all’interno della relazione, ma necessita comunque del trovare la forza per lasciar morire la propria identità di vittima.
D: Il suo romanzo sembra un modo in cui l’esperienza analitica può darsi attraverso la scrittura creativa. Ci aiuterebbe a capire la funzione della forma stilistica particolare che sceglie, per frammenti, con sogni che si alternano alla narrazione?
R: La forma stilistica che ho sviluppato negli anni è quella che mi sembra risuonare con il nostro funzionamento psichico, che non è mai fluido e ordinato. In analisi, ma anche nella vita, siamo in relazione con pensieri, immagini, emozioni frammentate, che riguardano il presente e si ricollegano al passato, ma anche a fantasie legate al futuro, che ci immergono nella nostra solitudine. La scrittura credo dovrebbe riuscire a cogliere proprio questo funzionamento mentale che è da una parte un continuum, ma contemporaneamente un movimento psichico frammentario. Il mio obiettivo è trasferire nello stile narrativo il senso di questa frammentarietà, che non è però frammentazione.
D: Le scene espressionistiche dei sogni, scritte in una lingua lirica, si alternano al mondo reale, raccontato in una agevole prosa. Un dialogon, come d’altronde è l’analisi, botta e risposta fra sogno e realtà, conscio e inconscio, paziente e analista. Una membrana, dunque, fra luce e tenebra, uno spazio transizionale e di relazione “tra” che oltre a essere cifra letteraria esprime anche un particolare modo di stare nella cura?
R: Molti, leggendo il romanzo, hanno pensato che le scene che si svolgono nel “sotterraneo” siano un riferimento esplicito all’inconscio che solo tramite i sogni può emergere alla coscienza. In realtà il mio intento era quello d’indagare un’area psichica, non solo individuale, abitata da una sorta di archetipi e miti che sono poi l’inconscio dell’umanità. Una “zona” dove s’intersecano le vite di ogni essere umano. Il confine è molto più labile di quanto pensiamo e noi siamo continuamente attraversati dai resti di questi movimenti profondi, coi quali prendiamo contatto nei sogni, ma non solo. Un contatto che è alla base della creatività e dell’arte.
D: Rispetto a questa “poetica”, quali sono i suoi riferimenti letterari e psicoanalitici?
R: Nella cultura occidentale sono sempre stato colpito dallo stile essenziale di McCarthy, come ad esempio ne “La strada”. Nella scrittura orientale: gli Haiku giapponesi, nella cultura Zen, che hanno la capacità, la potenza, di cogliere, in poche parole, l’ineffabile. Poi ci sono i poeti. Rilke ed Emily Dickinson prima di tutti. Per quanto riguarda i riferimenti psicoanalitici, mi risuona l'approccio di Ogden, quando parla di vivere la seduta come un grande sogno, insieme al paziente. La scrittura di un romanzo è anche questo: sognare sé stessi nei diversi personaggi.