Ho sempre tollerato poco e male le metafore belliche associate alla malattia: me ne sono resa conto con maggiore forza durante la pandemia. Durante il periodo del Covid – l’ho pensato in quel momento e poi l’ho traslato e applicato anche alla mia malattia – ho pensato che considerare taluni eroi e gli altri come combattenti per la sopravvivenza, implicasse in qualche modo la possibilità della perdita, del sacrificio. In quel periodo questo era molto chiaro specificamente verso i medici e gli operatori sanitari; considerarli eroi significava in qualche modo implicitamente metterne in conto la perdita o la mancata tutela. Il rapporto tra un paziente e un medico, il rapporto tra un essere umano e il proprio corpo non è una gara, non è una competizione, non è un posizionamento tra vincitori e perdenti. A maggior ragione questo non può avvenire nel caso di una malattia cronica, ma soprattutto nel caso di una malattia autoimmune, perché è il corpo che danneggia sé stesso e quindi questo implica moltissimi livelli simbolici. Il corpo Caino, da dove arriva la malattia e perché, un principio di ammutinamento e di sabotaggio che è tutto interno. Ma soprattutto considerare tollerabile la metafora bellica significa implicitamente di nuovo immaginare che possa esistere un catalogo o una classifica per cui qualcuno ha combattuto meglio di qualcun altro e questo semplicemente non è vero. L’ultimo dato che mi fa mal tollerare la metafora bellica è che in qualche modo ripiegare sulla forza del singolo, sull’eroismo del singolo, sulla combattività del singolo davanti alla convivenza o all’emersione da una malattia, all’esperienza di un male, che può essere una malattia cronica o qualsiasi altra cosa, significa in qualche modo eliminare la dimensione collettiva e sociale di questo problema, ed è esattamente il male dei tempi che viviamo e dello spirito del tempo che ci ammanta tutti. Se battaglia deve essere, e penso che non lo debba essere, deve essere un movimento e un fenomeno che ci coinvolge tutti, deve necessariamente essere un processo collettivo: un processo collettivo che chiede ricerca, un processo collettivo che chiede tutela, un processo collettivo che chiede che si parli del corpo di un malato in un’altra maniera, un processo collettivo che faccia sì che la cura sia davvero la cura di tutti, che il diritto al fine vita sia davvero il diritto al fine vita di tutti. Considerare l’esperienza della malattia come l’esperienza di un singolo verso una singola malattia, significa disintegrare l’esperienza collettiva dei malati con la sanità.
Vi ringrazio molto per questa domanda, perché è una domanda che mi sono sempre fatta e che mi faccio con più forza e cercando significati ancora nuovi da quando sto imparando, perché non si smette mai di imparare, a convivere con una malattia cronica. Mi sono a lungo domandata, anche prima della comparsa della sclerosi multipla nella mia vita, che cosa mi spingesse a raccontare le sofferenze, le solitudini, la violenza, il male del mondo, la fame, la guerra e la perdita. Sicuramente la risposta più o meno superficiale che potevo darmi prima della comparsa della malattia, ed è una risposta vera ancora oggi, era che mi spingeva una sincera curiosità e una consapevolezza della mia ignoranza rispetto ad alcuni grandi eventi del mondo. Un’ignoranza che desideravo colmare con una conoscenza diretta. La risposta più complessa e articolata che mi sono data dopo la comparsa della malattia, che mi ha messo necessariamente a contatto con delle parti di me che non conoscevo, che fanno capo alla paura e alla fragilità, ma anche ad una ferocia estrema, la risposta che mi sono data e che sto costruendo giorno dopo giorno, è che la guerra e i conflitti, la povertà, la fame, la morte, e la malattia, hanno un minimo comune multiplo che è l’autenticità. Non c’è una esperienza dell’essere umano come la guerra, e credo a volerla e a saperla affrontare in maniera davvero onesta anche la malattia, che fa emergere l’autentico dell’umano, laddove però autentico è sia l’autentico bene che l’autentico male. In guerra la solidarietà è spinta al suo limite massimo: si divide per dieci quello che si ha se si è in dieci, si divide per cinquanta quello che c’è se si è in cinquanta. Contemporaneamente la guerra esprime e lascia emergere delle forme di rabbia, violenza e ferocia che erano altrimenti controllate dagli argini sociali, che invece emergono e fanno sì che ognuno guardandosi allo specchio potrebbe chiedersi in modo diverso, anche se in analoghe situazioni: “sarei in grado io di uccidere la persona che mi è davanti?” E io penso che queste forme dell’autentico si possano traslare nella malattia, se si vuole guardarle in faccia senza timore di essere giudicati dagli altri e da sé stessi, la malattia ha la stessa forma dell’autentico. Quanta paura ho e quanto sono in grado di ammettere a me stessa, davanti allo specchio, i pensieri brutali che ho rispetto a me stesso, a me stessa e al resto del mondo.
È una domanda difficile a cui rispondere, perché direi che le difficoltà di gestire limite, imprevedibilità e attesa si alternano. In assoluto la cosa più complicata per me finora è stata imparare a gestire l’idea dell’imprevedibilità. L’idea che domani potrei svegliarmi non muovendo una gamba o stasera potrei addormentarmi e domani mattina svegliarmi non vedendo da un occhio. Ma l’imprevedibilità non è tanto un tema perché rappresenta un limite, quanto perché mi mette a confronto con la paura che qualcuno che dipende dalla mia cura e dalla mia presenza, nello specifico mio figlio, possa essere coinvolto da un mio stato di non autonomia. L’imprevedibilità è una specie di costante sottotesto, è lì, non cerco di non pensarci, è lì, c’è; però poi mi ricordo che ho scelto una poesia di Marianne Moore per aprire il mio libro, che per me è una sorta di primo comandamento di noi senza Dio, e che dice “se mi direte perché la palude appare insuperabile, allora vi dirò perché io credo di poterla superare se ci provo”, e penso che il centro di questi versi sia il “se ci provo” e quindi limite, imprevedibilità e attesa sono tre dati di fatto e tre condanne contemporaneamente. Ma poi il mio comandamento resta sempre “se ci provo”.
Realizzare che l’esperienza della maternità e la cronicità della malattia avrebbero rappresentato gli unici per sempre della mia vita è stata una specie di Epifania, arrivata nel corso di quei mesi molto complicati nel limbo diagnostico: quando non sai cos’hai ma sai che hai qualcosa. Il corpo, il mio corpo, il corpo di donna, doveva accettare di non essere mai più solo, per sempre. Io sarei stata dipendente da un altro, dipendente da me.
Nel mio caso specifico penso che le due cose si siano date la mano perché hanno messo in discussione quello che era il grande perimetro della mia vita, l’ossessione del controllo. La comparsa di una malattia di questo tipo e l’esperienza della maternità hanno disintegrato quel castello con varie muraglie e senza ponti levatoi che io avevo costruito con il controllo, l’autocontrollo e l’assenza di lacrime, molti chiavistelli stretti chiusi a doppia mandata. Si può vivere nell’eremo del proprio autocontrollo, anche nonostante la comparsa di due eventi così significativi, ma io mi sono trovata di fronte alla necessità di doverlo analizzare e di voler trovare un senso che esulasse dal solo significato medico. Qualcosa che ha a che fare col simbolico, con l’interpretazione del proprio corpo, e penso di aver scritto “bianco è il colore del danno” per interpretare quello che la maternità e la malattia mi stavano dicendo. Credo che il bianco sia stata la traduzione di un momento che ha segnato un prima e un dopo della mia vita
Nella prima bozza di questo libro il titolo che avevamo immaginato era “la paura potenziale”. Ma poi ci sembrava troppo metallico, un titolo appuntito, ma il fatto che quando ho cominciato a scrivere questo titolo fosse nelle bozze è perché nel momento in cui ho iniziato una riflessione sulla mia malattia la sua potenzialità era per me il tema più difficile da gestire, cioè che non potessi prevedere nulla di quello che sarebbe accaduto. Potevo – e lo faccio – affidarmi ai grandi numeri, alle percentuali, alla media statistica, a quello che ci dice la scienza, all’evoluzione straordinaria della scienza, ai passi da gigante che ha fatto la scienza negli ultimi venticinque anni. Tuttavia, la domanda ultima era e resta sempre: potrei svegliarmi senza muovere le gambe domani mattina? Potenzialmente la risposta era e resta sempre sì. Nonostante i grandissimi passi da gigante della medicina, nonostante tutta la razionalità che possiamo e dobbiamo applicare nella convivenza con la malattia, la risposta resta sì. Il potenziale può, quindi, essere distruttivo ma io penso che analizzare quello che ci accade serva a contenere un istinto distruttivo e nichilista. Se tanto non posso prevedere, allora devo cercare di riannodare il filo e provare a considerare il corpo come se fosse una specie di magazzino dei ricordi e di contenitore del simbolico. E questo è quello che io penso abbia salvato e stia salvando me. Ovviamente non faccio statistica perché è la mia personale esperienza ed è un percorso che ho fatto e che sto facendo parallelamente alla fiducia cieca che ho verso la medicina: non è un percorso di sostituzione, anzi è un percorso di accompagnamento del mio percorso medico ospedaliero.
Mi fa sorridere adesso pensando a come è cambiata la mia vita dopo l’uscita del bianco. C’è un punto nel libro in cui dico “ci perdoneranno gli dèi perché vogliamo tutto” e mi viene da dire che la continuazione del bianco potrebbe iniziare così: “gli dèi non ci hanno perdonato perché volevamo tutto”. La cosa più importante che il bianco ha fatto per me, insieme all’analisi, è darmi gli strumenti per capire quello che è successo dopo. Non tanto e non solo quanto i canoni del patriarcato abbiano influenzato i giudizi verso di me in questi anni, quanto, e in maniera più complessa, abbiano influenzato il mio giudice interiore: me ne sono resa conto soltanto col passare degli anni che la prima a puntare il dito, a giudicare la mia condotta, ero io. Perché quegli archetipi li avevo lentamente introiettati. Io non penso che viviamo ancora in una società che sappia accettare che una donna possa non solo volere, ma avere tutto quello che desidera. E che in quello che desidera c’è anche una gestione tutta personale, e talvolta sbilenca, della maternità. Non lo so se e quando, dato lo spirito del tempo, questo cambierà. Ma penso che non cambierà se non cominciamo ad analizzare prima il patriarcato dentro di noi e poi il patriarcato fuori di noi, cioè quanto noi stesse abbiamo digerito, non solo inghiottito, ma digerito una visione del femminile per cui pensiamo di dover essere perdonate per la nostra ambizione. Quando invece dovremmo soltanto essere, neanche stimate, ma accettate per la nostra ambizione. Questo è un passaggio faticosissimo, per cui penso che se davvero noi ci impegniamo, forse i nostri figli e le nostre figlie potranno raccogliere un po’ di risultati.