Attualità e nuove sofferenze

Quel che resta del DDL Zan.

“Una società che chiede di cambiare ci interpella: ecco perché quello che è successo in Parlamento ci riguarda”


Quel che resta del DDL Zan.

 

di Alexandro Fortunato, Laura Porzio Giusto

 

“Ho paura degli altri. Temo che possano capirmi male e linciarmi. […]

Non mi arrabbio se mi scherniscono. Piango, piango senza rimedio.

Ho camminato a testa bassa come se mi sentissi in colpa.

Ho camminato e camminato.

Mi trovo di fronte a un precipizio in cui posso cadere.

Ma non ho paura di caderci, perciò non ci cadrò”.

(Percy Bertolini, “Da sola”, 2021).

 

14 dicembre, 2021

 

Lo scorso 27 ottobre metà aula del Senato ha esultato ed applaudito alla richiesta di “non passaggio all’esame degli articoli”, una procedura del regolamento parlamentare denominata “tagliola”.

Così il DDL Zan, approvato alla Camera nel novembre 2020, è stato bocciato.

Com’è noto il decreto di legge, il cui primo firmatario è il deputato PD Alessandro Zan, prevederebbe un allargamento della già esistente legge Mancino, aggiungendo ad essa i reati e l’istigazione all’odio, fondati sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere, il sesso e l’abilismo.

 

L’articolo 1 riporta le definizioni che qui è bene ricordare:

“Ai fini della presente legge:

(Definizioni)

  1. per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico;
  2. per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso;
  3. per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi;
  4. per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”.

 

La sociolinguista Vera Gheno, partendo dalla premessa per cui la nostra società, nella sua complessità, può esistere grazie alle parole, si interroga su che cosa serva alle persone per star bene: “[…] la possibilità di un’autorappresentazione linguistica. Chi viene nominato ha più concretezza; chi non ha un nome, invece, è meno visibile ai nostri occhi.”. Per questo forse assistiamo al moltiplicarsi di definizioni che riguardano l’identità di genere (transgender, genderfluid, agender, genderqueer, non-binary, ecc). (“L’importanza di avere un nome”, in Questioni di un certo genere. Il Post, 2021).

Aggiungiamo che la possibilità di autorappresentazione linguistica è espressione e concretizzazione del sentirsi “esistere” e del sentirsi riconosciuti dagli altri. Ci muoviamo, dunque, lungo dimensioni che, lungi dall’essere mere questioni di parole, toccano livelli profondi dell’esperienza di sé e di sé nel mondo. Il diritto ad esistere passa anche attraverso le definizioni e le parole che usiamo.

Così non stupisce che gran parte del dibattito sul DDL Zan si sia svolto intorno a questi temi: definizioni, presunta restrizione della libertà di espressione e visibilità delle persone che si intendevano tutelare. Proprio le definizioni di sé, condivise (e al contempo in continuo divenire) dai movimenti LGBTIQ+[1], ma meno dal resto della società, sono la porta forse, per poter affermare la propria esistenza e meritano di essere ascoltate in modo più ampio e complesso. Sembra che per alcuni però, questo diritto ad esistere possa togliere qualcosa, forse certezze, a qualcun altro. Ma è davvero così?

La contestazione delle definizioni del DDL Zan ha spostato il centro del dibattito dal merito della legge. Eppure, quelle definizioni servivano a dare un parametro per i futuri giudici che avrebbero dovuto deliberare sul crimine commesso e non per imporre la famigerata e inesistente teoria gender ai “poveri bambini” o per ridurre la complessità delle identità.

La discussione e i disaccordi che si sono creati intorno alle definizioni, come anche all’istituzione di eventi per la giornata contro l’omotransfobia, ha portato la questione del tutto “altrove” rispetto allo scopo della legge, che sarebbe stato, appunto, quello di tutelare tutti i cittadini e tutte le cittadine da aggressioni e crimini dettati dall’odio, nonché quello di costruire la possibilità di una trasformazione culturale e collettiva capace di offrire protezione e pari diritti alle minoranze sessuali. Viene da domandarsi quale siano le motivazioni profonde suscitate dalla paura e dal rifiuto di una cultura del rispetto delle varietà delle caratteristiche di ciascuna persona.

La strada della visibilità e di percorsi che si muovono verso situazioni più inclusive è spesso ostacolata da battute d’arresto e riacutizzazioni conservatrici, espresse anche attraverso modalità aggressive, che possiamo leggere come segnali di paure e incomprensioni che generano rifiuto. Ma, quello che sembra sfuggire al dibattito è che ancora troppo frequentemente la cronaca ci parla di aggressioni fisiche e/o verbali nei confronti di persone con orientamento non eterosessuale, identità di genere non cisgender[2] o con espressioni del proprio genere non conformi alle aspettative sociali relative al sesso biologico di appartenenza. Questo avrebbe dovuto essere il centro del dibattito.

Introdurre leggi che riguardano le minoranze sembra sempre un’elargizione di indulgenze, un contentino di cui è necessario prendere il lato positivo senza fare troppe domande (per esempio le unioni civili al posto del matrimonio egualitario o lo stralcio della stepchild adoption). Eppure, non si vede motivo reale per cui non debba esistere una legge che protegga da crimini così odiosi.

È indubbio però che il motore della storia (sociale, psicologico e relazionale) non si arresta e, nonostante tutto, continui a procedere in una direzione trasformativa e che questa progressione faccia emergere sacche di resistenza e ostilità. Concetto che sembra esprimersi in affermazioni che spesso si sentono dire, tipo: “non ho nulla contro i gay ma non vedo perché debbano mettersi in mostra”, cosa che nessuno direbbe di un uomo e una donna che camminano mano nella mano.

Ci vengono in mente le parole di Audre Lorde, un’attivista, donna, nera e lesbica: “Ma più di tutto credo abbiamo paura della visibilità senza la quale però non si può davvero vivere” (1984).

La visibilità è una conquista relativamente recente delle persone che con questa legge si intendevano tutelare ed è un tema estremamente importante sul quale si è giocata parte della partita. L’affossamento del DDL sembra concretizzare il dilemma espresso da Audre Lorde: la “paura della visibilità” (“se sono visibile rischio di essere discriminato/a, insultato/a, aggredito/a…) e la “non vita” se si resta invisibili.

Questa estate, nel pieno del dibattito, ci capita di sentire un padre di famiglia commentare con degli amici, davanti ai figli, che questa legge gli vorrebbe impedire di dire “fr***o di me**a” a qualcuno. Ecco, oltre ad essere al centro del dibattito la questione della libertà di parola (e no, insultare non è libertà di parola) ci siamo domandati: cosa sta insegnando ai suoi figli? Che c’è un gruppo di persone che può essere preso in giro, insultato, offeso impunemente? Che una caratteristica umana può essere assunta ad insulto? Che ci sono persone che non vengono considerate persone nel pieno del diritto della loro dignità? Mentre formulavamo questi pensieri, il figlio, prima ancora che qualcun altro, scansandosi i lunghi capelli dal viso e smettendo per un attimo di seguire la partita sul suo dispositivo dice: “quella parola non si dice, me l’hanno insegnato a scuola”. La cultura del rispetto è dunque non solo necessaria ad un armonico sviluppo della personalità di coloro che appartengono alle minoranze vessate, ma diventa una preziosa opportunità di crescita per tutti.

Basta ascoltare gli adolescenti (di qualunque orientamento sessuale e identità di genere) parlare nei nostri studi e non solo, per accorgerci che, nati in un mondo dove le persone omosessuali e trans* sono più visibili rispetto al passato (quando più spesso si proteggevano “in the closet”), hanno molta più dimestichezza di noi nel parlare di questi temi. Li vediamo snocciolare parole, pronomi, differenze, che a volte non capiamo. La questione delle identità, di genere o sessuali, è molto complessa e noi come psicoanalisti non abbiamo ancora trovato una quadra, mentre il mondo continua ad andare avanti.

Vale la pena inoltre ricordare qualcosa di cui nessuno ha praticamente parlato: il decreto-legge riguardava anche l’istigazione all’odio e i crimini commessi sulla base del sesso (violenza sulle donne) e dell’abilismo, persone del tutto oscurate all’interno del dibattito e affossate con tutto il resto.

Ma perché quello che è successo con questa legge ci riguarda? Intanto perché in quanto professionisti della salute mentale e della cura questi temi entrano nelle nostre stanze, ci scuotono e ci mettono in crisi. Reagire come se dovessimo “difendere” la purezza della psicoanalisi è come chi reagisce festeggiando all’affossamento della legge: stiamo confondendo il diritto alla dignità umana con il crollo delle nostre certezze. Il fatto che alcune nostre teorie sembrano scosse dalle nuove richieste che vengono dalla società è solo in apparenza un problema. La psicoanalisi può divenire teoria, modello e clinica anche di questi “nuovi” fenomeni a patto che noi per primi possiamo essere disposti a metterci in gioco. Compito del clinico, infatti, non è far rientrare la realtà nei propri modelli teorici, ma guardare e ascoltare la realtà per poterla comprendere. Se ciò che non rientra in norme o teorie a cui si è soliti affidarsi viene considerato “psicosi”, non solo si cede alla tanto odiata etichetta diagnostica, ma si tradisce anche la missione di cura e comprensione dei fenomeni che invece è nella nostra storia. I temi sollevati dal DDL Zan andrebbero guardati con lenti scientifiche poggiate su una montatura costruita sul nostro sapere e su dati di ricerca e clinici.

Sappiamo che ragazzi e ragazze che subiscono discriminazioni e/o violenze all’interno dei loro contesti di vita (famiglia, scuola, ecc.) hanno una probabilità maggiore dei loro coetanei che non vanno incontro a questo tipo di esperienze, di sviluppare sindromi ansiose, depressive, fino a comportamenti autolesivi e suicidari.

Sappiamo che per una buona crescita è fondamentale che tutte le dimensioni che compongono la persona siano riconosciute ed accolte.

Sappiamo che l’omotransfobia sociale può facilmente interiorizzarsi traducendosi in sentimenti che vanno da un senso di inadeguatezza e incertezza fino al disprezzo e all’odio per sé.

Sappiamo che la vita affettiva non è solo un fatto privato ma è una dimensione socializzata che chiede di essere riconosciuta.

Sappiamo più genericamente dell’inscindibilità del binomio diritti/dignità.

E, naturalmente, potremmo aggiungere molto altro.

Angelo Schillaci, in un’intervista pubblicata su spiweb (https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cultura/intervista-ad-a-schillaci-a-cura-di-p-ferri/), sostiene:

“Non si deve dimenticare che stiamo parlando di una legge che ha l’obiettivo di proteggere persone in carne e ossa dalla discriminazione e dalla violenza, lo ripeto. Una legge che prende atto di come corpi e libertà si intrecciano, della molteplicità di forme in cui la dignità personale si incarna, al fine di preservare le persone dall’odio, consentendo loro di esprimersi in condizioni di sicurezza. Vite, non “prospettive antropologiche” o ideologie. Si tratta di una precisazione importante – per me, assolutamente centrale – perché mette in luce come alla base del DDL Zan ci sia una complessa operazione di riconoscimento: alcune dimensioni della personalità, tra cui l’identità di genere e il modo in cui viene agita nella vita di relazione, vengono protette poiché ne viene riconosciuto il valore per la persona e, di riflesso, per la comunità. Non si tratta di accidenti della vita o, come qualcuno ritiene, di capricci: si tratta di dimensioni della dignità, ricche di valore e dunque meritevoli di protezione proprio perché – purtroppo – il riconoscimento del loro valore non è condiviso, come dimostra l’elevata incidenza di crimini d’odio verso le persone trans*”.

Non possiamo che essere d’accordo con Schillaci: questa precisazione sembra rappresentare il ponte tra il Diritto e la dignità delle persone che si intendevano riconoscere e tutelare.

Così ritorniamo forse alla parte peggiore di questa vicenda: vedere tanti senatori “festeggiare” l’affossamento di questo ponte, esultando per poter continuare a camminare lungo la strada dell’odio. Al netto delle questioni politiche in gioco (giocate sulla testa delle persone), quale messaggio è arrivato? Sembra che quella scena legittimi tutti coloro che si sentono in diritto di guardare male due persone che si amano e di insultare o aggredire sulla base di caratteristiche identitarie personali.

Quella scena ci riporta indietro e ci ricorda che esistono ancora persone con una dignità e persone senza dignità umana riconosciuta. Perché, semplicemente, non godono degli stessi diritti di tutti gli altri.

 

[1] LGBTIQ+: Acronimo che indica lesbiche, gay, bisessuali, trans*, intersessuali e queer. Il “+” messo al fondo sta ad indicare tutto lo spettro delle possibilità delle identità sessuali senza forzarle a riconoscersi in un’etichetta.

[2] cisgender indica persone la cui identità di genere corrisponde al genere e al sesso biologico alla nascita.



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