"L'acclamatissima serie targata Netflix fa breccia sul pubblico e invita la comunità psicoanalitica a riflettere su limiti e risorse degli istituti psichiatrici, rappresentati come contenitori di fragilità ma senza alcuna possibilità di far emergere la proposta di cura. Che ruolo hanno le istituzioni della salute mentale nella società attuale?" - di Valeria Condino e Filippo Maria Moscati
Tutto chiede salvezza é l’adattamento seriale dell’omonimo romanzo di Daniele Mencarelli, Premio Strega Giovani 2020, dove il giovane protagonista finisce in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC), e subisce un TSO di 7 giorni.
Parallelamente Altro nulla da segnalare, libro di Francesca Valente, vincitore del Premio Italo Calvino 2021, racconta le struggenti storie “dei paz”: i pazienti dei servizi psichiatrici nati subito dopo la chiusura dei manicomi. “Altro nulla da segnalare” è una formula di rito con cui nei primi anni Ottanta, si chiudevano i rapporti degli infermieri del Servizio Psichiatrico di Torino. Episodi tragici, comici, feroci, in cui chi finiva il turno raccontava a chi lo iniziava cosa fosse accaduto nelle ore precedenti. In quelle note è presente “un’umanità che raccontava un’altra umanità, con benevolenza e un sincero sforzo di comprensione. Spesso erano entrambe umanità dolenti”.
Ed è proprio questo che si scorge ad una prima visione veloce della nuova serie Netflix.
Un condensato di umanità, un racconto corale che intreccia la storia del protagonista con quella degli altri pazienti e del personale medico e infermieristico. Un insieme complesso che ha bisogno di essere districato, elaborato, sciolto, per i suoi rimandi ad una realtà non sempre narrabile, senza giungere a facili contrapposizioni.
Siamo consapevoli della fecondità del momento: dopo la pandemia gli accessi ai servizi di salute mentale, le richieste di psicoterapie o di analisi, i progetti psicologici territoriali, regionali e nazionali, hanno avuto un incremento rapido. Questo ha generato molte riflessioni non solo nella nostra comunità. Ha soprattutto interrogato il mondo al di fuori, gli adolescenti come gli adulti, la politica e la società tutta. Motivo per cui la serie targata Netflix ha avuto un certo impatto: recensioni, interviste, commenti social, i nostri stessi pazienti ce ne parlano diffusamente. Ognuno commosso e suggestionato dalla capacità del regista (e dello scrittore) di aprire le porte alla malattia mentale, impresa tutt’altro che facile.
Sensibile, delicata, realistica per alcuni aspetti (poco credibili alcuni particolari: le finestre aperte, i tavoli di vetro, i farmaci a portata delle mani dei pazienti), la serie si allinea alla necessità sempre più palpabile di toccare con mano le fragilità. Esplora luoghi finora inesplorati perché considerati sporchi, distanti, malmessi, contenitori di quello che spaventa di questa società.
Ma di che tipo di sofferenza si parla in questa serie? Se da una parte siamo sicuri che ad essere rappresentata sia la fragilità di un giovane ragazzo, che dopo un abuso di sostanze si ritrova in un reparto di psichiatria con una serie di interrogativi, dall’altra sembra venir fuori una certa difficoltà a far emergere un pensiero che aiuti lo spettatore a tratteggiare i confini di questa sofferenza. È una sofferenza che rimane vaga, circostanziata, episodica, impalpabile e forse proprio per questo è impossibile da affrontare con la cura. Cura che richiede in analisi come nel reparto psichiatrico per acuti il “processo”, il trattamento (variabile) e il setting (costante) che contiene il processo (Bleger, 1967).
Nel trattamento dei pazienti gravi è necessario un contesto istituzionale costituito da più persone, il “gruppo dei curanti”, che garantisca una presenza costante (Correale,1997). Costanza che dovrebbe essere garantita anche dalla presenza dei servizi territoriali, CSM (Centri di Salute Mentale) o Ser.D (Servizi per le Dipendenze). Centri che, con la loro funzione gravitazionale, dovrebbero aiutare a tenere insieme il prima e il dopo di una crisi. Centri che non vengono menzionati nemmeno una volta nella serie.
Ad essere raccontato è un reparto Alcatraz: un’isola luogo di custodia, con una equipe di curanti incapace di offrire un pensiero che vada oltre l’organicismo, un insieme di sarti di camisole de force chimique per situazioni da tenere sotto controllo quando scoppiano. Soppressori delle crisi e di ciò che rappresentano, in alcuni casi espulsivi, al limite del traumatico. Un panorama poco più che desolante, se visto dalla prospettiva di chi si occupa di salute mentale. I pazienti, a questo punto, non possono far altro che organizzarsi in un gruppo di auto mutuo aiuto. Non è mostrata alcuna possibilità di un incontro in grado di dare un senso alle loro esperienze, se non quella di una condivisione senza giudizio con chi sta altrettanto male, un ascolto dato da chi è in cerca di cura (che con quelle premesse, si manifesta come una grande ricchezza). Non c’è modo di approfondire le relazioni familiari, che comunque appaiono come interdipendenze problematiche, o il mondo interno, o, più semplicemente, le loro storie personali al di là della patologia.
La crisi del protagonista quindi non si può inscrivere all’interno di una continuità del sé, che appare sfilacciato e frammentato. È il male di vivere, il male di tutto il mondo, che lo fa soffrire.
Pertanto, le uniche possibilità di alleviare il dolore sembrano essere la ricerca dell’eccitazione, del sensoriale più che del sentire, attraverso il sesso, la rottura delle regole, le sostanze, la fuga in una relazione di coppia conflittuale ed intensa. Ma oltre questo, dopo questo, cosa rimane se non si è potuto contattare sé stessi? Così come nel brano dei MEUTE, una band che suona musica tecno, che con le loro trombe, bassi e il ritmo sempre più incalzante attiva, sostiene, innalza come una corrente d’aria le ali di un uccello. E poi improvvisamente si interrompe, lasciando noi che l’ascoltiamo senza più aiuto, facendoci cadere dall’alto dove ci aveva portato.
Da questo punto di vista, nonostante il libro originale sia ambientato a metà degli anni ‘90, la trasposizione in video descrive molto bene il funzionamento attuale degli adolescenti e dei giovani adulti che chiedono aiuto, e che sono sempre più, purtroppo, coloro che accedono ai SPDC, luoghi complessi in cui la richiesta è quella di stare ai confini della pensabilità. Ma come operatori di questi servizi siamo sicuri di essere in grado di rispondere a questa complessità? Di riuscire a rimanere lungo i bordi, di riuscire a dare un senso a questa sofferenza senza rimanere fagocitati da posizioni estreme e contrapposte?
Sappiamo quanto il trattamento per i pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici per le acuzie, costituisca un intricato crocevia di aspetti etici, giuridici, teorici, di appropriatezza dei trattamenti, costruzione di linee guida, standardizzazione ed economia sanitaria, ma anche di quanto spesso evidenti difficoltà emergano per via di una serie di carenze.
La spinta rivoluzionaria avanzata da Basaglia è stata possibile perché preceduta e accompagnata da determinate condizioni politiche, sociali, culturali, scientifiche, e forse anche un po’ casuali.
Senza entrare nel merito dell’annosa questione se quelle che osserviamo oggi siano nuove manifestazioni della stessa sofferenza di un tempo, o proprio nuove forme psicopatologiche, quello che sappiamo di sicuro è che siamo di fronte ad un ennesimo passaggio.
Siamo al tramonto dell’illusione di un progresso senza fine, che si accompagna alla crisi economica e ai cambiamenti sociali. Il tutto mette alla prova gli assetti democratici.
E questa serie è spietata nel rappresentare i servizi territoriali così assenti, perché nella realtà c’è un grande sforzo da parte di chi lavora nella salute mentale. Allo stesso tempo è vero che in questo contesto è necessario chiedersi come si possa riformare la cultura dei servizi, e soprattutto come l’istituzione psicoanalitica debba e possa contribuire a questo processo.
È necessario creare nuovi spazi di pensiero che siano interpreti e contemporaneamente espressione del tempo presente.
È necessario perché tutto chiede salvezza: le dolenti umanità dei pazienti, quelle degli operatori e ciò che le contengono, le istituzioni.
Bibliografia
Bleger, J. (1967), Psicoanalisi del setting psicoanalitico. In “Setting e processo psicoanalitico. Saggi
sulla teoria della tecnica”, (a cura di) Genovese C., Raffello Cortina Editore, Milano, 1988.
Correale A (1997). Quale psicoanalisi per le psicosi? In Correale A., Rinaldi L. (a cura di), Quale
psicoanalisi per le psicosi? Milano, Cortina, 1997.
Mencarelli, D. (2020). Tutto chiede salvezza, Mondadori
Valente, F. (2021). Altro nulla da segnalare, Unici