La morte. Istruzioni per l’uso. Note sull’ultimo scritto di Pontalis
“Nella parola muore ciò che dà vita alla parola; la parola è la vita di questa morte, è la vita che porta la morte e si conserva in essa” (Blanchot, 1982, 98)
Il titolo scelto per queste brevi note rimanda, ovviamente, al romanzo di Perec, La vita. Istruzioni per l’uso. Il rimando non è solo al legame che ha unito i due nell’analisi che Perec ha fatto con Pontalis ma, se si vuole, a quell’elemento finale del romanzo in cui il pezzo mancante di un puzzle, che coincide con una X, resta sospeso, dato che il personaggio Bartlebooth si ritrova invece, fra le mani, un pezzo a forma di W. W, o i ricordi di infanzia, è come è noto, il titolo di un altro romanzo di Perec e, come ci ricorda Rosenblum (Rosenblum, 2019, 19), Perec stesso prima di morire, fa segno di voler qualcosa: un pezzo di legno a forma di W che stringerà fra le mani e con il quale si addormenterà per sempre. Fine ed inizio vita così coincidono, come a stabilire fra di essi un patto, un circuito, tessere un filo. “Morire stringendo un frammento di W era concludere la sua vita come era cominciata: sotto il segno di una assenza (Rosenblum, 2019, 19). “Per dei mesi, degli anni forse, racconta Pontalis, ‘Paul’ aveva cercato degli indizi di sua madre cancellata. Cancellata nel reale, senza memoriale, senza la minima traccia, e in lui cancellata” (Ibidem).
Ognuno di noi, ci ricorda Freud, vuole morire a proprio modo. Certo il morire è inevitabile, ma l’organismo tenta di riappropriarsi di ciò che sconvolgerà per sempre il suo esistere tentando di riportare il non proprio al proprio, di riattraversare ciò che accade attraverso le sue reti, le sue connessioni, i suoi significanti. Difficile dunque sottovalutare questa necessità di un rapporto individualizzato con la propria morte, di una implicazione soggettiva che permetta di sfuggire all’anonimato di una morte che giunge senza un tentativo, seppur minimo, di senso. La “pulsione del proprio” -di appropriazione cioè- scriveva del resto Derrida, ne La carte postale (Derrida, 2015), è più forte della vita e della morte medesima. Analogamente, ne Lo spazio letterario, Blanchot osserva: “Morire a sé stesso, di una morte individuale, individuo fino alla fine, unico e indiviso: è riconoscibile qui il nucleo resistente che non vuole lasciarsi spezzare. Non si vuole morire come uno qualunque e di una morte qualsiasi. Il disprezzo della morte anonima, del ‘si muore’, è l’angoscia travestita che nasce dal carattere anonimo della morte o ancora, una morte si vuole, che è cosa nobile, ma non un decesso” (Blanchot, 1967, 102). Se cito Blanchot e le sue straordinarie pagine sul tema del morire, è perché trovo difficile leggere, o rileggere, Alta Marea, bassa marea di Pontalis (Pontalis, 2013), senza pensare al nesso fra i due, al riferimento, implicito o esplicito, che l’opera di Blanchot esercita su Pontalis. Come non tener conto, per esempio, delle straordinarie pagine ne La scrittura del disastro sulla morte non individualizzabile, sulla morte che ci precede: “Morire vuol dire: sei già morto, in un passato immemorabile, di una morte che non fu tua” (Blanchot, 2021, 86)? Si può ritenere che il testo postumo di Pontalis tenti, al medesimo modo, di realizzare- nello stile che lo contraddistingue, quello di una autobiografia frammentata, esplosa fra personaggi di finzione, tracce analitiche, romanzi e così via-, l’esperienza del proprio morire, di non allontanarla da sé esorcizzandola, o tenendola sullo sfondo come un dato doloroso, inevitabile, a cui per il momento opporre la vita, le sue gioie, le sue speranze, ma anzi, mediante la scrittura, la finzione, la moltiplicazione dei tratti biografici, di operare una sorta di lutto di sé. Analogamente alle ossessioni freudiane, relative all’evento della propria morte, che di volta in volta stabiliscono date, occorrenze, cifre numeriche, come per anticipare e al medesimo tempo personalizzare l’ultimo momento, Pontalis scrive: “Ricordo di essermi creato un segreto: la morte mi avrebbe sorpreso il giorno del mio compleanno. Quando? Lo ignoravo, ma sarebbe stato quel giorno”. “Chi ha un segreto ha un’anima”, scrive del resto Pascal Quignard (Quignard 2009, 59). Così in effetti è accaduto nella realtà, e anche qui ritrovo una pagina di Blanchot, nel Journal des dèbats, in un testo dal titolo “De Jean Paul à Giraudoux”, (Blanchot, 1944) in cui egli scrive, a proposito dell’irruzione del poetico in Jean Paul: “Egli ebbe una notte la rivelazione della sua morte, prese realmente la forma cadaverica. Morì l’anniversario della sua visione, trentacinque anni più tardi. Questa rivelazione, intellettuale ed immaginativa, lo getta in una febbre creativa straordinaria”. Analogamente, e ancora ne Lo spazio letterario, Blanchot scrive: “Fare della morte la mia morte non è dunque, più, ora, rimanere io fin nella morte, ma significa allargare questo io fino alla morte, espormi ad essa, non più escluderla ma includerla, guardarla come mia, leggerla come la mia verità segreta, il tremendo in cui io riconosco ciò che sono, quando sono più grande di me, assolutamente me stesso o l’assolutamente grande” (Blanchot, 1967, 108). I continui riferimenti a Blanchot nel pensare al testo di Pontalis, non mi paiono forzati; da una parte ritroviamo qui l’ amore di Pontalis per la letteratura, dall’altra gli effetti dell’incontro con un testo, quello di Blanchot, che mette al suo centro l’esperienza della morte e la dimensione creativa dell’opera, incontro che, nel momento in cui si cerca di realizzare una pensabilità, un bilancio della propria vita, (fatto dunque di speranze sopite o presenti, di tratti melanconici, di dolore per l’evento che accadrà, per l’evento che inghiotte in sé, necessariamente, rievocandoli, altri eventi simili della propria storia o della propria infanzia), assume lo statuto di una guida, di un vertice di osservazione e di maneggiamento dei vissuti più dolorosi. Perché non pensare allora che Blanchot è, di fatto, il Virgilio di Pontalis? Dal mio punto di vista, questo dialogo con l’opera, con Blanchot, ma al fondo con tutti i personaggi, gli autori, gli analizzati, gli amori della sua vita, è ciò che ritroviamo in questo testo terminato poco prima di morire, e dove la dimensione melanconica del fine vita, espressione di un amore incondizionato per la vita, si ritrova non solo in tutte le pagine del testo ma, al fondo, già in quel segreto che egli stesso si crea, quello del dover fare coincidere ricorrenza della nascita e evenienza della morte. La morte, la ricorrenza che gioca con le date, non è solo, pertanto, il gioco o la necessità di calcolare, di prepararsi all’imprevisto, ma forse, da qualche parte, la sua attesa. Quando? chiede Pontalis. Quel quando è un timore, un’attesa, una previsione anticipatoria, un evitamento? E che pensare del fatto che Pontalis ha redatto un testamento all’età di 17 anni, in cui di fatto pone un’autobiografia già frammentata, spezzata dalla sua giovane età? D’altra parte, come scrive in Limbo (1988), chiudere la memoria dei limbi, non sarebbe prepararsi a morire, “come se ci si potesse poi preparare! ma rinnovare l’ingiustificabile amore per la vita”.
Se è in riferimento a Blanchot che leggo l’ultimo testo di Pontalis, è anche per segnalare le infinite allusioni disseminate in un lascito in qualche modo testamentario, costruendo un’autobiografia che segnala la lotta fra il momento che sta per giungere e la vita che ad esso si è opposto e che comunque l’ha preparato nelle sue traversie, nei suoi respingimenti. Autobiografia (ma Pontalis, come osserva ne L’amore degli inizi (1986), preferisce sostituire ad essa il termine autografia: “una grafia di sé che crea un Io tramite lo scritto”), che utilizza frammenti di vita immaginari, personaggi i più vari, per tentare di tracciare percorsi compiuti, di ritrovare sentieri interrotti, altri solo immaginati, in una alternanza fra dolore della perdita di sé, accompagnamento pensato e non scontato di questa esperienza che sta per compiersi, e in questo percorso il riemergere imprevisto di Eros, delle potenzialità dell’esistenza, del piacere da ritrovare nonostante tutto. Pontalis, da buon analista, da buon amante dell’esperienza che una esistenza ci permette e ci obbliga a fare, non vuole trascurare ovviamente questo ultimo appuntamento, altrettanto decisivo, che lo attende. Se a lui, come ad altri analisti, è capitato di accompagnare un paziente verso la propria morte, perché non dovrebbe accadere lo stesso per l’analista coinvolto nell’ultimo passaggio? Perché non dovrebbe realizzare egli stesso una forma di accompagnamento che possa tenere con sé, morte, vita, dolore, nostalgia, sensazioni di cose effimere e di altre insostituibili, di amori perduti e amori eterni, in breve di ciò che ci fa umani? Per questo, il testo inizia col racconto del Comandante, di un uomo anziano che torna ogni anno sulla stessa spiaggia, che osserva intorno a sé la vita del mare (ed è sul tema del mare che terminerà il libro, espressione della passione di Pontalis per il mare certo, per una dimensione illimitata della stessa esperienza dell’inconscio- penso qui a tutti i riferimenti al mare come rappresentazione dell’apertura nei testi di Fachinelli-), pensiero di quel movimento di alta e bassa marea che copre e ricopre gli oggetti, che li vela e li disvela. Mostrando così da una parte le piccole meraviglie lasciate sulla sabbia dal ritiro dell’acqua e di cui i bambini o gli adulti vanno a caccia una volta che questa si è ritirata, dall’altra, allusione al movimento stesso della vita, tesa fra il suo scorrere impetuoso e il suo ritirarsi lasciando dietro di sé ciò che gli altri erediteranno, raccoglieranno… È al fondo quel movimento che fa sì, come egli scrive al termine del libro, a mo’ di commiato, che “La vita si allontana, ma ritorna”. Espressione della lotta fra la certezza della fine prossima e il ricorso, la richiesta ad Eros, di Eros, per contrastare questa vena melanconica, ma anche domanda di una vita che permane al di là della ritirata dell’acqua. Perché sarà in quel momento che ciò che l’alta marea aveva ricoperto, conservando nel suo intimo, si lascia finalmente scoprire, viene alla luce, a disposizione di coloro che ritroveranno in esso qualcosa da utilizzare, di cui meravigliarsi, da collezionare, da mangiare e così via. Il Comandante, l’anziano che di lì a poco scomparirà, e che pertanto anticipa già nel prime pagine il destino stesso dell’autore, “ha conosciuto tutti i porti del mondo”. Mi sono chiesto se non ci fosse qui un’ironica citazione del testo del suo analizzato Perec che, in La vita. Istruzioni per l’uso (Perec, 2005), racconta al fondo della dinamica sadomasochistica fra i due membri della coppia analitica, attraverso i personaggi di Bartlebooth (evidente il reinvio al Bartleby melvilliano) e Winckler e dove “l’analista” Bartlebooth, il miliardario, passa venticinque anni della sua vita per dipingere cinquecento porti per poi inviare gli acquarelli a Winckler, affinché questi li scomponga in un puzzle di settecentocinquanta pezzi. Del resto, come è noto, i riferimenti a Perec e alla sua analisi abbondano nei testi di Pontalis. Ma è altrettanto ovvio l’amore di Pontalis per il viaggiare, per il cercare altrove, per trovare nuovi luoghi da cui partire. “Amo ciò che accade, arriva, non ciò che si produce”, dirà. Al fondo, se è vero che le scene che si susseguono nei vari racconti sono intrise del tema della morte, del ritiro, della perdita paterna, del tentativo di dare e ricevere sollievo, dell’angoscia non tanto di morire, ma piuttosto di diventare come un vegetale in una casa di riposo, “un morto vivente” come scrive, cioè rappresentazione di un vita che non termina nella pensabilità della propria morte, ma invece, nella perdita di ogni pensiero, diventando un morto- non morto, è altrettanto vero che questo testo tenta di riafferrare continuamente la vita, di fare di ogni vita una vita da ricordare, una vita di cui serbare memoria, salvandola dall’oblio a cui tendenzialmente essa è destinata. E nello scorrere della vita, il senso degli amori perduti, di quelli vissuti, delle gioie che permettono di resistere al desiderio di guarire dalle sofferenze dell’amore, il senso medesimo dell’infedeltà come timore di perdere Eros, si veda il racconto Eros in rianimazione, dove Pontalis scrive, a proposito dell’infedeltà: “temono che Eros si addormenti, che si allontani fino a sparire” (Ibidem, 29), il dubbio stesso di aver tradito qualcosa o di essere stato tradito nella vita da qualcosa che si è giocato in illo tempore, si tesse la tela per pensare l’ultimo evento. Come attraversare dunque questo ultimo passaggio, come compiere questa traversata (altro termine chiave di Pontalis, allorché egli pensa il percorso analitico)? Mi pare doveroso riconoscere a Pontalis una grande onestà: né compiacimento narcisistico, né melancolia distruttiva, quanto piuttosto, se volessimo utilizzare un piccolo evento come modello di ciò che egli tenta di mantenere in vita, ciò che scopre attraverso la sua analisi, mediante il riconoscimento di un significante che ritorna incessante nei suoi sogni quello di Oreste, il nome del suo cane, e che decripterà allora come la dimensione del resto, (Oh! Resto), cioè di ciò che permane, di ciò che si è trascurato, lasciato dietro di sé e che ci rimprovera o ci interroga nella sua dimensione di vicenda impensata, accantonata, smarrita. Il racconto della caduta, nel testo, d’altra parte, con la questione che ci pone, e cioè il tema della scelta dell’ora della propria morte, non è differente dal tema del compleanno e della coincidenza secretata del giorno dell’evento, né a dire il vero dalla questione del suicidio che Blanchot stesso analizza ne Lo spazio letterario (1955) mediante la discussione su di una scelta che renderebbe al fondo quella morte ancora inautentica. Testo dunque, come osservavo, intriso di melanconia, di vitalità, di pensiero, di rilancio, si veda il tema del pensionato in casa di riposo che ritrova il piacere dell’incontro, il rilancio estensivo che egli fa dal luogo delle proprie origini al mondo come esperienza globale, in un percorso segnato in fondo, già nell’incipit del testo, dalla citazione della frase di un suo allievo, Michel Gribinski: “detesto le separazioni, ma chi le ama”? E di una ultima separazione questo libro ci parla incessantemente, realizzando un ultimo transfert, quello sul lettore che si vede necessariamente coinvolto nei personaggi, nelle traversie che li caratterizzano, negli amori perduti che li segnano per sempre, nelle sostituzioni che essi fanno delle mancanze ricevute.
Bibliografia
Blanchot M. (1955). Lo spazio letterario. Torino, Einaudi, 1967.
Blanchot M. (1948). La follia del giorno. La letteratura e il diritto alla morte. Reggio Emilia, Elitropia, 1982.
Blanchot M. (1980). La scrittura del disastro. Milano, Il Saggiatore, 2021.
Blanchot M. (1944), Chroniques littéraires du Journal des débats, Paris, Gallimard, 2007
De M’Uzan M. (1977). De l’art à la mort. Paris, Gallimard.
Derrida J. (1980). La carte postale. Milano, Mimesis, 2015
Rosenblum R. (2019). Mourir d’écrire. Paris, Puf.
Perec G. (1978). La vita. Istruzioni per l’uso. Milano, Rizzoli,2005.
Pontalis J.B. (2013). Alta marea, bassa marea. Roma, Alpes, 2023.
Pontalis J.B.(1986). L’amore degli inizi. Roma, Borla,1986.
Pontalis J.B. (1998). Limbo. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000.
Quignard P. (2009). La barque silencieuse, Paris, Éditions du Seuil.
Maurizio Balsamo, Roma
Centro Psicoanalitico di Roma