“L’arte è, giustamente, una gomma da cancellare e non ha niente a che vedere con le idee” Jean Dubuffet, 1949
opera di Profeta Gentileza [1917-1996]
Brut. Grezzo, ruvido, primitivo, non elaborato, rude, persino, ma proprio per questo autentico e bellissimo.
Art, quindi.
Non si può non condividere questo sentire quando si visita il SIC12 artstudio. Uno spazio espositivo ideato e curato dagli artisti Gustavo Giacosa e Fausto Ferraiuolo nel quartiere Ostiense di Roma.
Puentes è il titolo della collezione. Ponti, collegamenti, connessioni tra le opere di artisti contemporanei – artisti come tutti siamo abituati a pensare gli artisti, che creano arte e sono consapevoli di farlo – e coloro che non sanno di esserlo perché non hanno intenzione di esserlo, realizzando le proprie opere non per gli altri ma per sé stessi: gli artisti dell’Art Brut.
Dobbiamo al pittore e scultore francese Jean Dubuffet (1901-1985) la “definizione” di Art Brut, l'arte “che non ha niente a che vedere con le idee”, prodotta da artisti non professionisti, non colti, a volte analfabeti, fuori dagli schemi della cultura artistica condivisa, e che realizzano le loro opere in modo spontaneo, lontano dal mondo e dal mercato dell’arte. Brut, quindi, come autentico, puro, incontaminato.
I pazienti psichiatrici erano gli artisti che Dubuffet preferiva e che amava scoprire: persone spesso recluse nei manicomi ma libere di creare e di esprimersi, di scrivere per ore una lingua sconosciuta
e incomprensibile fino a realizzare sul foglio una scrittura-ricamo concreta e tangibile, quasi tridimensionale e ipnotica.
Opere meravigliose, realizzate con i pochi mezzi a disposizione rimediati: ossi, scatole, biro, fibbie… Con le fibbie delle divise dei ricoverati Fernando Nannetti, 1927-1994, incide sulle pareti del cortile del manicomio di Volterra incredibili graffiti con scrittura bustrofedica: graffiti in cui si racconta, certo, senza destinatari, senza alcuna finalità artistica o estetica eppure bellissimi.
Bellissimi, forse, proprio perché imbevuti dell’infelicità, del dolore e della miseria umana, ma portatori anche della scintilla creativa che li ha generati e che li rende belli, li rende arte.
Emarginati, pazzi, senza fissa dimora, visionari e profeti. L’artista brasiliano Profeta Gentileza, 1917-1996, decora 56 pilastri con la cura, la precisione e la pazienza di un monaco medioevale: parole dipinte, bellissime e perfette, su righe che hanno i colori della bandiera brasiliana; ma i pilastri della cattedrale, della sua cattedrale, sono quelli che sorreggono il grigio cemento di un viadotto di Rio de Janeiro. Viadotti, ponti…
Ci chiediamo dove sia il senso del bello e cosa sia un’opera d’arte. L’artista dell’Art Brut non sa di esserlo, forse non vuole esserlo, a volte rifiuta duramente l’incasellamento e l’etichettamento.
Perché sia arte serve un ponte: il ponte con l’altro, lo sguardo dell’altro che “rende arte” riconoscendo il bello, il senso estetico condiviso proprio dell’umano. Dobbiamo ad Aldo Trafeli, infermiere del manicomio in cui Nannetti è rinchiuso, se la sua opera non è andata persa. Storia incredibilmente simile a quella oltreoceano di Anibal Brizuela (Argentina, 1935-2019). Anibal disegna per ore con le penne biro rimediate all’interno del manicomio, disegna all’interno dei cartoni delle medicine, prima, ma le sue opere vengono viste, da qualcuno che si prende cura di lui; uno psichiatra vede l’artista e gli fornisce tante penne per continuare la sua opera. Lì è lo sguardo dell’Altro che vede, si stupisce e si innamora. E cerca di lasciare brut, senza definire, senza correggere, senza alcuna finalità, neppure quella della cura, perché l’art brut non è, e non può essere arte-terapia, e per essere arte deve svincolarsi dai confini che siamo umanamente portati a tracciare.
L’arte non dorme nei letti che sono stati preparati per lei,
fugge appena si pronuncia il suo nome, ama l’incognito.
I suoi momenti migliori sono quando si dimentica come si chiama.
Jean Dubuffet.