Cultura, cinema e arte

Un sognatore ci ha lasciati: Bertolucci e la psicoanalisi - di Luisa Cerqua


Un sognatore ci ha lasciati: Bertolucci e la psicoanalisi - di Luisa Cerqua

Un grande dreamer del cinema italiano ha chiuso per sempre il set dei suoi “sogni collettivi”: Bernardo Bertolucci ci ha lasciati. Era un figlio della fruttifera campagna Parmense poeticamente cantata nel suo film Novecento. Nato (1941) e vissuto, fino ai dodici anni, in una grande casa di famiglia, luogo dell’anima e immagine interna di un infantile paradiso perduto, melanconicamente mai lasciato. « Da quando è morto mio padre – racconta egli stesso - non ho più avuto il coraggio di rivedere quella casa».

Il legame di questo artista con la sua infanzia è così intenso da portarlo ad auto definirsi «…totalmente figlio… I miei genitori hanno costruito un incantesimo, nel quale mi sento tuttora immerso. Anche per questo, forse, non sono mai diventato padre».

Alla domanda “Perché hai fatto cinema?” Bertolucci risponde: “Per non impazzire…per dare ordine al caos che sento dentro di me…”.

Il filo d’Arianna che lo conduce fuori dal caos, lo trova a 28 anni nell’esperienza psicoanalitica, che da quel momento lo accompagna, nell’arte e nella vita personale, fecondando la sua cultura e il suo pensiero. Non una mera conoscenza teorica ma una lunga e profonda esperienza vissuta. La psicoanalisi (insieme alla politica) diventa il pilastro portante della sua sperimentazione creativa, presente nel racconto filmico “attraverso l’uso del sogno, della libera associazione spontanea, della continua creazione di senso e significato”.  Per lui il cinema è sogno, è “sognare insieme” nel buio della sala.

In un’intervista con Doriano Fasoli (2007) Bertolucci definisce il suo incontro con la psicoanalisi (1969), uno: “… sturm und drang emozionale, creativo e politico”. Il dialogo analitico, che lo accompagna per quasi 50 anni, il “ fare un’analisi…”, era per lui “…segno di un intenso bisogno d’aiuto, nascosto”,  esperienza emotiva profonda, da non celare dietro il paravento di un “allargamento degli orizzonti culturali”. Una posizione contraria a quella del padre, il poeta Attilio Bertolucci, e dell’amico Pasolini, entrambi fautori della “sofferenza oscura” quale diritto alla “malattia”, substrato necessario dell’opera poetica; per entrambi la guarigione dell’ansia e dell’angoscia apriva al rischio di perdita della creatività.

E’ significativo che la Società Psicoanalitica Italiana, in occasione del XIII Congresso Nazionale dedicato al “Transfert”, abbia conferito a Bernardo Bertolucci il “Premio Cesare Musatti  2006 ”. E’ un riconoscimento riservato dalla SPI a figure di spicco della cultura e del giornalismo, italiane o straniere, significativamente presenti con le loro opere e ricerche in ambiti affini a quelli psicoanalitici. Nella motivazione del premio si evidenziava che: “… pochi registi hanno saputo, come lui, indagare sull’irriducibile lotta tra Eros e Thanatos, dentro il cuore dell’uomo e dentro la storia”.

La Brytish Psychoanalytical Society, organizzatrice dell’ European Psychoanalytic film festival “EPFF” (Londra 2013) conferisce a Bertolucci, Presidente Onorario del Festival, una “Honorary fellowship” che sottolinea la presenza nella sua filmografia di un “costante rifornimento ai serbatoi dell’ispirazione analitica”. Nell’intervista, curata da Barbara Massimilla per Eidos Cinema e Psicoanalisi (n.27), il regista si racconta così: “ Freud parla di analisi terminabile  e di analisi interminabile, io appartengo senza dubbio alla seconda categoria, con trentacinque anni di carriera analitica. Ho avuto diversi riconoscimenti dalle società psicoanalitiche: nel 2011 l’IPA organizzò un convegno in Messico … mi sembrava di ricevere una sorta di brevetto di pilota sull’aereo della Psicoanalisi …Con le mie infinite ore di lavoro analitico, se fossero ore di volo potrei ricevere il brevetto di pilota avendo circumnavigato diverse volte il pianeta”.

In occasione del genetliaco di Freud nel 1997, la Società Freudiana Viennese invita Bertolucci a parlare di Cinema e Psicoanalisi all’Università di Vienna. “Era la mia prima Lectio Magistralis e la cosa mi intimidiva non poco - racconta il regista – perciò portai con me il mio amico psicoanalista Andrea Sabbadini come protezione e mediazione…ma invece di una Lectio fu un dialogo, un duetto…  “Dividerei la mia prima analisi in due atti. Il primo dura sette anni, da La strategia del ragno (’69) fino a Novecento (’76). Dopo Novecento col mio analista decidemmo di terminare l’analisi, ma non ci riuscimmo… La psicoanalisi era diventata un “obiettivo” in più da aggiungere alla mia macchina da presa, come gli zeiss o i kodak… Sceneggiavo i miei film in gran parte durante le sedute…Elaboravo i miei film in analisi… Il cinema ci attrae dentro uno stato di rêverie, un sogno ad occhi aperti che fai in collettività…tutti partecipano al tuo sogno…” Infine, a proposito del presente: “Ora tutto è finito. Siamo nella fase del Post Theater. Esiste una grande possibilità di formati multipli diversi, quelli della rete, quindi anche il cinema è sensibile alle mutazioni tecnologiche.”

La cinepresa è considerata da Bertolucci non un semplice mezzo meccanico, ma uno dei personaggi della storia narrata: “Ho sempre sognato di fare l’operatore con la macchina in mano…di spostare il fuoco su qualcosa di nuovo che non era previsto e che improvvisamente mi attraeva…l’inatteso. L’imprevisto, io chiamo così la porta aperta di Jean Renoir, e sono lì per catturarlo”. Il lavoro dell’inconscio per lui regista, si dipana poi anche nel confronto con gli attori che sceglie, con i quali si stabilisce un rapporto quasi di coppia analitica, tanto da definirli: “ Una miniera di segreti”. Ecco che l’inconscio, per definizione sconosciuto, segreto e inatteso, che è sempre imprevedibile nel suo disvelarsi, per lui regista, diventa il classico coup de théâtre, la rivelazione improvvisa di una verità sconosciuta e nascosta”. In The dreamers i sognatori…. Impatta col misterioso mondo dei giovani, giovani attori nella fattispecie. L’adolescente è di per sé imprevedibile e in divenire anche davanti alla macchina da presa.

In occasione della retrospettiva della sua opera organizzata dalla Cineteca Nazionale Italiana, nella Sala Trevi (Roma 2012), Bertolucci ricorda al suo pubblico che L’interpretazione dei sogni (Freud 1899) è coeva alla nascita del cinema, arte del sogno, strumento per dare voce a sentimenti e desideri reconditi. Le realtà proiettate sullo schermo sono sovente messe in scena di desideri inconsci inconfessabili, impossibili o terribili: «Non so quante volte - afferma - ho ucciso nei miei film le figure paterne; infatti mio padre scherzava dicendomi, furbo tu! Mi hai ucciso tante volte senza andare in galera!»

Nella personale, rigorosa, messa in scena simbolica di Bertolucci, soggettività e oggettività,  costanti della sua narrazione, sono spesso in relazione con i temi della perdita e del lutto. Nell’universo emotivo di questo artista “figlio per sempre”, la separazione è una dimensione carica di una sofferenza pressoché invivibile: «Fin da giovane ho avuto difficoltà a separarmi - egli dice in un. intervista - perfino da un paio di scarpe, da un libro, per non parlare dell’amore». Il movimento d’inversione di marcia di un treno su cui stava viaggiando, lo porta a collegare l’ambivalenza del suo vissuto separativo ai suoi movimenti di macchina: «…quando rivedo le sequenze dei miei film, mi diverto a guardare i movimenti di macchina. Ci sono molti più carrelli avanti, in avvicinamento, che indietro, in allontanamento…».

Insieme agli spunti onirici e autobiografici, i peculiari movimenti di macchina (l’inquadratura in campo lungo che stringe sul dettaglio è anche evocativa del procedere analitico) rappresentano una costante stilistica distintiva della narrazione filmica di Bertolucci, decisamente diversa da quella pasoliniana basata sulla macchina fissa. Dell’amico Pasolini racconta: “Quando avevo diciassette anni Pier Paolo mi chiede: ‘Vuoi fare il mio aiuto regista in Accattone?’ Io ribatto: “Ma non lo so fare”, e lui a me: “Nemmeno io…”. In quel periodo, ho assistito all'invenzione del cinema, giorno per giorno, una scuola unica».

La prima regia di Bertolucci, appena ventenne, sarà La commare secca (‘62) sceneggiata in coppia con Pasolini. Prima della rivoluzione (‘64), con Adriana Asti, è una rivisitazione in chiave marxista della Certosa di Parma. Agonia, del 1969 è seguìto da Amore e rabbia, un episodio su tema evangelico. Partner (‘68) è ispirato al Sosia di Dostoevskij, mentre Il conformista (‘70), tratto dal romanzo di Moravia, è un affresco che ritrae persone e ambienti della borghesia fascista, una rappresentazione metaforica della cecità umana, che vede le ombre della realtà e non la realtà,  come gli schiavi della caverna platonica. Il controverso Ultimo tango a Parigi (’72), condannato per offesa al pubblico pudore, trae spunto dalla fantasia sessuale dello stesso regista: fare l’amore con una donna bellissima, senza neppure conoscerne il nome.

Opera imponente è Novecento (‘76), saga familiare e scontro tra generazioni determinate a rompere lo storico e opprimente mandato trans generazionale. Il film mette in scena la nascita di una nuova illusione/sogno epocale, il comunismo. La luna (‘79), avvicina il tema dell’incesto, dell’incertezza identitaria e del conflitto edipico con il padre “assente”. E’ un lavoro carico di simbologie oniriche e allusioni autobiografiche. Nella scena d’apertura, mitologica, appare al nostro sguardo un bimbo che soffre edipicamente l’esclusione affettiva dalla coppia genitoriale felice. La luna compare sempre come dettaglio e assume diverse funzioni, essendo  “simbolo di ciò che è “Natura” in opposizione  a “Cultura”.

Nella La tragedia di un uomo ridicolo (‘81) magistralmente interpretato da Tognazzi, viene steso un melanconico sguardo sulla violenza distruttiva e autodistruttiva degli anni di piombo, mentre Io ballo da sola ( 96) e The Dreamers (2003) raccontano l’amore giovane, la realtà in trasformazione e i vissuti interiori di protagonisti adolescenti che vanno incontro alla vita cercando di staccarsi dalle origini nonostante il disorientamento, che tentano di diventare se stessi, diversi e lontani dal portato familiare. L’ultimo imperatore (‘ 87) premiato con ben nove Oscar, è seguito dal più oleografico Piccolo Buddha (‘93). «I buddhisti mi hanno fatto capire i mali dell’ego ipertrofico che affligge la nostra società» afferma, suggerendo una sorta di consonanza fra psicoanalisi e buddhismo.  «Freud - prosegue il regista - ci insegna che tutti i bambini sono imperatori nell’ ambito domestico e credono di potere uccidere e resuscitare con il pensiero».

Forse in L’ultimo imperatore, “Sua maestà il bambino” è il regista stesso.

Freud paragona l’arte al gioco, entrambi espressione di desideri profondi. Così come il bambino, l’artista crea un mondo di fantasie fortemente investite di libido. Dal desiderio ambivalente di esteriorizzare/celare quei vissuti emotivi profondi possono nascere le fantasie poetiche e quelle artistiche “in cui l’eroe dominante è sempre l’io, ‘sua maestà l’io’[1]".

Luisa Cerqua

 

[1] Dinamismi estetici e psicologia del profondo, Angiola, Massucco, Costa, 2015



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