Brevi note sul genere

La psicoanalisi nel corso della sua storia ha utilizzato il termine genere in diversi modi. Riflettere sulle identificazioni può fornirci degli strumenti utili a riconsiderare la posizione dell’analista nell’ascolto delle pluralità che albergano nella singolarità dei corpi.

Manuela Fraire

 

Un po’ di storia del termine ‘genere’ può essere utile per orientarsi tra i diversi usi che anche la psicoanalisi ne fa. Il termine non esiste nel linguaggio di Freud, poiché ‘genere’ e ‘sesso’ non sono sempre distinti nella lingua tedesca e il loro significato dipende dal contesto nel quale sono utilizzati (Geschlecht, per esempio, è anche usato per ‘genere umano’). L’uso del termine gender è stato inaugurato nel 1955 da un sessuologo e successivamente ripreso dallo psichiatra e psicoanalista statunitense Robert Stoller (1978), che l’ha introdotto nel discorso psicoanalitico. Il significante genere diventa sinonimo dell’appartenenza ad uno dei due gruppi sociali, maschile e femminile e l’attenzione è focalizzata sui possibili errori compiuti nell’assegnazione sempre in riferimento all’anatomia e ai suoi possibili dismorfismi.

La categoria dell’assegnazione è nei tardi anni ’60 divenuta il modo in cui altre branche del sapere in primis psicoanalisi e sociologia, si sono servite per mettere all’ordine del giorno la violenza implicita nell’atto di una assegnazione basata sull’evidenza anatomica. Alcune teoriche d femminismo- la più nota è la filosofa Judith Butler - hanno introdotto il decostruzionismo del genere intendendo con   un’azione a livello delle pratiche discorsive che attraverso l’automatismo confermano gli assunti dell’assegnazione come indiscutibili in quanto naturalmente parte dell’umano. Si nasce maschi o femmine e la nominazione è solo l’indice di una realtà incontrovertibile.

I limiti della teoria decostruzionista stanno nel trascurare- forse contestare- la sessualità come caratteristica dell’umano e non del genere.

Il discorso di Piera Aulagnier a proposito del Contratto narcisistico (2005) imposta la questione non sulle assegnazioni ma sulle identificazioni che possono essere ma anche non essere dalla parte delle assegnazioni: un insieme può concordare su una forma di binarismo- ma non significa che le assegnazioni su cui si fonda   non verranno messe al lavoro dal sessuale.

Un sessuale che eccede il genere, all’incessante ricerca di pause identitarie – alcune lunghe secoli come quella maschio-femmina – ma che in verità è l’abitante dei non luoghi che ormai formano la topografia della postmodernità. La famiglia nucleare è uno di questi non luoghi infatti invece che convincere i suoi abitanti alla quiete è la inconsapevole promotrice di una viandanza identitaria – di cui il movimento transgender è il soggetto alla ribalta in questo momento.  

La non eccezionalità della proposta transgender sta nel prima che divenisse fenomeno collettivo, nella in-sofferenza dei corpi tagliati in due – i generi appunto – dal linguaggio. Non sono né maschio né femmina – affermano alcuni pazienti trans – sono un voi, una pluralità.

L’ipotesi che lo psicoanalista debba superare il due senza collassare nell’uno, che debba lavorare con la pluralità che alberga nella singolarità dei corpi fornisce l’occasione   per ripensare l’altra pluralità nascosta dentro il dispositivo analitico a cominciare dal transfert che non rispetta il binarismo maschile-femminile-  

L’analista ha a disposizione una posizione – che non è un osservatorio –  il controtransfert che lo mette da sempre a contatto con le assegnazioni che hanno sostanziato la sua formazione.  

 

Bibliografia

Aulagnier, P. (2005). La violenza dell’interpretazione. Roma: Borla

Stoller, R.J. (1978). Perversione. La forma erotica dell’odio. Milano: Feltrinelli

 

 

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