Cultura, cinema e arte

Cinemente: “Il primo Re” di Matteo Rovere. Il mito di Marte.

Report sesta serata di Benedetta Bigelli.


Cinemente: “Il primo Re”  di Matteo Rovere.  Il mito di Marte.

Report sesta serata di Cinemente – di Benedetta Bigelli

Giovedì 6 giugno si è svolta presso il Palazzo delle Esposizioni la sesta serata della Rassegna di Cinema e Psicoanalisi Cinemente. In sala è stato proiettato film “Il primo Re”, pellicola potente e coraggiosa del regista Matteo Rovere. Ospiti della serata il regista insieme a Gianfranca Privitera e Daniela Zanarini, latiniste. Questi hanno intrecciato un interessante dialogo con Fabrizio Rocchetto e Andrea Auletta, condotto e moderato da Fabio Castriota.
La serata è dedicata al mito di Marte. Fabio Castriota introduce la figura del mito indicando come il dio assuma nuovi significati nel passaggio dalla cultura greca a quella romana: Ares è il dio della distruttività, crudele e condannato alla sconfitta, Marte è il dio del coraggio in battaglia, protettore dei guerrieri. È anche il custode dei lavori agricoli, ponendosi, così a effigie delle due caratteristiche fondamentali dei Romani: agricoltori e guerrieri allo stesso tempo.
Il film racconta, attraverso un linguaggio ritrovato, il protolatino, la leggenda di Romolo e Remo, il fratricidio dalle cui ceneri si fonda Roma e prende avvio la storia dell’Occidente. Si tratta di un film toccante e complesso, a partire dalla scelta di utilizzare un linguaggio arcaico, che conduce in un mondo solo apparentemente distante, ma che sembra invece rimandare a tematiche universali, proposte e approfondite dagli ospiti della serata. Fabrizio Rocchetto evoca la carnalità del film, il suo travalicare l’immagine e porsi come esperienza sensoriale. Ricorda il pensiero sulla guerra di Franco Fornari (Psicoanalisi della guerra, Rivista di Psicoanalisi 1964) per il quale la guerra è il risultato di un’elaborazione paranoica del lutto da parte dell’uomo, un lutto che non riesce ad accettare e che lo spinge a cercare un nemico esterno per liberarsene. Si tratta dell’angoscia della propria morte, a cui l’uomo è esposto ogni giorno.
Rievoca anche l’elemento vitale presente nel film e che ravvisa nella Rea Silvia che chiede a Remo di prendersi cura di suo fratello e nel neonato, la nuova vita, che compare nella scena finale. Così, nel film filogenesi e ontogenesi sembrano intrecciarsi: la nascita di Roma intimamente legata alla storia personale di due fratelli.  Andrea Auletta, in dialogo con il regista, propone un interessante parallelismo tra il lavoro del regista e quello dello psicoanalista nell’accostarsi alla storia e nel dare importanza al racconto. Su questo punto Matteo Rovere generosamente ci lascia entrare nel percorso creativo che lo ha portato alla scelta di raccontare questa storia al cinema: il desiderio
andare a fondo nella storia di questi due fratelli e nella loro contrapposizione. Remo, solo, il primus inter pares, e Romolo, l’aggregatore, alla continua ricerca del favore degli dei. Alla fine del film nella morte di Remo per mano di Romolo è come se essi stessi diventassero un unicum e questa fusione incarnerà un nuovo mondo. Gianfranca Privitera e Daniela Zanarini, infine, ci conducono all’interno del loro appassionato ed appassionante lavoro, lo studio della lingua e delle sue origini per arrivare a costruire/ricostruire il protolatino, la lingua di Romolo e Remo. A partire dall’indoeuropeo, attraverso una stratificazione di senso, la lingua e i suoi significati si complessivizzano e arricchiscono, generando contraddizioni e ambivalenze. E allora Marte, da dio del ciclo annuale e del raccolto, diventa espressione del confine, del limen che va protetto e difeso ad ogni costo, anche attaccando. Non solo attacco e difesa, ma anche amore e odio: è questa l’altra grande contraddizione che viene messa in scena nel film: l’amore fraterno e il fratricidio. E’ a partire da questa ambivalenza che si gioca la storia di Romolo e Remo, ma anche le storie personali di ognuno e con cui la psicoanalisi spesso si confronta. Il film mette in luce anche un’altra importante contraddizione: mito e libero arbitrio. La leggenda di Romolo e Remo è intrisa di un destino a cui non ci si può sottrarre, è il dio che decide, che delinea un disegno imperscrutabile. Remo sembra sottrarsi al destino, diventa baluardo del libero arbitrio, ma scopre che anche egli non può scappare dal disegno di dio. 

Tornando all’inizio, all’esergo di Maugham: “Un dio che può essere compreso non è un dio”: nel mito all’uomo non è dato conoscere il suo destino. Quanto pesa il destino nelle storie personali di ognuno? Quanto l’uomo è veramente faber fortunae suae? Sono domande complesse che spesso compaiono nella stanza d’analisi. In fondo non è la psicoanalisi che si propone di scandagliare le maglie del destino e di costruire e ricostruire ogni volta ciò che è dato per assoluto? 

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