Recensione de "Il primo Re" regia di Matteo Rovere ( Italia Belgio 2019).
Andrea F. Auletta
“Un Dio che può essere compreso non è un Dio”.
L’esergo al film, una citazione di William Somerset Maugham, potrebbe trarre in inganno lo spettatore disattento. “Il Primo Re” di Matteo Rovere, una produzione italo-belga del 2019, è tutto fuorché esaltazione di uno spirito divino ultraterreno. È, al contrario, messa in scena di quanto di più feroce sia nella natura dell’uomo.
Un uomo inerme, vittima delle forze naturali, la cui Hilflosigkeit è ben resa dalla scena iniziale del film: un paesaggio bucolico viene travolto da una potente esondazione, un’onda d’acqua che trascina con sé anche i due fratelli protagonisti del film, Romolo e Remo. L’uno invoca il nome dell’altro, nel disperato tentativo di non perdersi, prima di finire spiaggiati sul luogo da cui inizia la storia.
È proprio il timore sperimentato di fronte alla potenza dell’elemento naturale a proiettarci nel sovrannaturale, chiamandolo divino.
Nel film non vediamo mai veri indizi della presenza degli dèi, ma solo credenze confuse, spaventate e dogmatiche dei personaggi. La lingua protolatina nella quale si esprimono i personaggi (ricostruita dagli sceneggiatori mescolando scienza e creatività), suona insieme familiare e incomprensibile, avvolge la trama di una potente aura di perturbante. Se potessi comprenderlo, appunto, non sarebbe Dio.
Grazie anche a un’efficace colonna sonora, il potere oscuro degli dèi è intuibile in ogni fotogramma, in ogni momento di attesa tra un combattimento e l’altro. Lo si può percepire nell’acqua, nel vento, nel buio della notte e nelle scintille del fuoco. La paura, citando T.S. Eliot, può essere presente anche in una manciata di polvere.
Con la sua opera Matteo Rovere sembra voler creare una “antiepica” del mito. Il legame fraterno e il successivo scontro mortale tra Romolo e Remo, da cui nasce l’impero di Roma, vengono riletti alla luce delle teorie storiche moderne, che raccontano di scontri tra tribù pastorali, di comunità fatte di pochi uomini, di vite dominate da precarietà, violenza e potenti legami famigliari.
Il film, come da tradizione, è costruito su scontri violenti tra personaggi maschili; ma è la figura femminile a scolpire, in modo decisivo, i passaggi chiave di questa storia.
Dapprima segnando un destino di unione e aiuto reciproco (“Proteggi tuo fratello, proteggilo sempre”, dirà Rea Silvia a Remo); quindi, gettando luce sullo scontro fraterno da cui solo uno potrà trarre la gloria del futuro impero (“Di due ne resterà uno, la foglia si staccherà dal suo dorso, su una splenderà la luce, l’altra scivolerà nel buio eterno”, sarà questa la profezia della vestale).
Sarà, infine, proprio una seduzione femminile a scatenare la trasformazione di Remo, la sua identificazione onnipotente con il dio stesso, fino all’atto finale di distruzione.
E quando Romolo, dapprima devoto al mos maiorum, pronuncerà il veemente discorso alla sua gente, quasi trasfigurando il proprio volto e la propria voce, lo spettatore sarà indotto a chiedersi chi egli sia realmente.
Forse, proprio in quel momento, apparirà chiaro che Romolo e Remo non sono altro che lo stesso personaggio, l’incarnazione di una coniunctio oppositorum. Quella tra sacralità e carnalità, tra devozione e combattimento, tra pulsione di vita e pulsione di morte, che in fondo rappresentano l’essenza della storia dell’impero di Roma.