Se la cronaca, secondo alcuni solo più attenta oggi al fenomeno che in passato, ci restituisce implacabilmente, pressoché ogni giorno, gli eventi tragici dei femminicidi, si tratta naturalmente soltanto della punta dell'iceberg.
In generale si può affermare che, anche se probabilmente abbiamo più notizie, manca una consapevolezza diffusa della pervasività dei rapporti violenti tra i due sessi, della trasversale incidenza di tali eventi in tutte le fasce economiche culturali e generazionali della società. Ma ancora di più della dimensione spesso sottile e implicita di tale violenza sulle donne per la trasmissione inconsapevole e perciò tanto più potente di stereotipi. Per questo motivo la vicenda di Giulia Cecchettin, in contemporanea con il grande successo del film di Paola Cortellesi e a breve distanza dal 25 novembre, hanno prodotto un impatto per la prima volta fortemente emotivo sul grande pubblico. Per il tempo che dura, e soprattutto per la iconicità del caso. In quella vicenda ci fu un punto particolarmente importante, sottolineato dai discorsi molto lucidi della sorella di Giulia: la sottolineatura della “normalità” dell’accaduto, nel senso specifico che si voleva escludere ogni patologicità nel comportamento del giovane omicida, e ricondurre invece tutto ad una “sanità” inquietante, ma normale, nella quale ci muoviamo: non si tratta quindi di perdere la testa, di avere disturbi psichici o di essere sotto l’effetto di sostanze varie. No: "non è malato, è un figlio sano del patriarcato” ripetevano i cori nelle diverse manifestazioni e soprattutto in quella del 25 novembre. E la provocazione colpisce certamente nel profondo.
Se quindi, oltre alla punta, sta diventando visibile un pezzetto ulteriore del famoso iceberg lo si deve ad un lento cambiamento della coscienza collettiva, alle modifiche legislative e istituzionali dovute anche all’Europa, oltre al fondamentale lascito di decenni di movimenti femministi. E tale stessa problematica emersione di consapevolezza va inserita in un contesto di cambiamenti vari.
Il primo quadro che mi sembra più rilevante è quello di una mutazione rispetto ad un atteggiamento nei confronti dell’altro sesso che appariva ancora dominante nella generazione nata tra gli anni 20 e i primi anni 40 del secolo scorso, quella di mia madre. Nate e cresciute durante il fascismo, queste donne ricevevano messaggi molto contraddittori: invitate a studiare e ad uscire di casa insieme, valorizzate dallo stato in modo nuovo come patrimonio collettivo, erano tuttavia condannate ad una funzione riproduttiva, obbligatoria ed esasperata, e alla ubbidienza rigorosa in una struttura patriarcale e macista. Avevano pertanto imparato a costruirsi un potere materno e ad aggirare ogni scontro, usando semmai la manipolazione e l’inganno. Lo scontro si evitava ad ogni costo. Del resto ciò si può capire anche perché tutto accadeva in un quadro simbolico, ma anche legislativo, piuttosto diverso dal periodo successivo. Solo per toccare alcuni nodi cardinali di quella vita: la contraccezione era rudimentale ed affidata agli uomini, il divorzio non c’era, il diritto di famiglia era arcaico e fortemente patriarcale, esisteva lius corrigendi” del marito nei confronti del comportamento della moglie. Insomma l’autonomia delle donne era del tutto inesistente, anzi illegale.
La forza di questo immaginario ha prodotto perfino l’annacquamento del racconto sulle partigiane, trasformate spesso in agenti di conforto per i partigiani, accudenti al loro servizio, nella impossibilità di accettare la figura di una donna che si scontra e si oppone, fino a prendere le armi.
Rispetto a quella generazione è iniziato un processo nel quale è stato sempre più possibile, anche se mai facile, ma talora indispensabile, iniziare a dire di no, a deludere le aspettative e rifiutarsi di trovare un escamotage che dissimulasse la differenza o perfino il rifiuto. Dalle piccole cose del quotidiano alle grandi questioni. Un processo certo non uniforme né generalizzato, ma molto esteso, che si è andato a complicare ulteriormente nelle generazioni successive, producendo la situazione variegata e complessa cui assistiamo ora.
Ad oggi sembrerebbe che ai giovani siano passati dalla nostra società, in tutto l’Occidente ma in particolare in Italia, dei messaggi fortemente contraddittori. Per quanto riguarda le ragazze possiamo dire schematicamente che il modello implicito sia quello di percepirsi come oggetto sessuale da curare ossessivamente e coltivare per aumentarne l’attrattività e il valore, ma allo stesso tempo come preda inerme, in continuo stato di pericolo, bisognosa di protezione. Inoltre il modello di libertà a cui conformarsi è quello maschile che preveda la carriera, ma soprattutto l’autonomia economica. D’altra parte un messaggio profondissimo che arriva da lontano è quello della importanza di essere innanzitutto studiosa, affidabile, responsabile. Tutto nello stesso faticosissimo insieme.
Ai ragazzi sembra giungere soprattutto il senso di una necessità della forza, in competizione con gli altri maschi e attraverso lo sviluppo di una sessualità attiva, la coltivazione di una sempre più misteriosa mascolinità, spesso perciò ricondotta a radici rudimentali e la ricerca inderogabile di una carriera e di un successo che si fanno di frequente più nebulosi e non si costruiscono sull’impegno nello studio e nella preparazione.
È in un quadro di questo genere che ormai si va constatando come tra i giovani e le ragazze ci sia una distanza crescente, o almeno forti differenze. Una profonda incertezza sulla relazione, su cosa veramente ci si aspetti o si desideri, cui ha forse contribuito anche la crescente confusione sulla tematica della appartenenza di genere e comunque il trovarsi ad ereditare dei modelli di coppia interiorizzati, ma non consapevoli né tanto meno elaborati. Che forse non funzionano più, anche per i crescenti timori sulla prestazione sessuale: pur se il discorso pubblico sulla sessualità è stato totalmente liberato dalla censura che ancora lo nascondeva all’inizio della mia giovinezza, la conoscenza della sessualità, e in particolare di quella femminile, non sembra aver fatto molti progressi. L’educazione sessuale è infatti ancora basata prevalentemente sulla offerta di poche informazioni solo preventive, di sicurezza essenziale, ed è quasi universalmente affidata ai video porno. Che naturalmente confermano e consolidano gli stereotipi più vieti sulla sessualità, il desiderio, il piacere.
Una inchiesta recente sui giovani e i loro rapporti ha provato a mettere a confronto dati rilevati sul piano globale ed è stata recensita e raccontata pochi mesi fa sull’Economist (Why young men and women are drifting apart. Diverging worldviews could affect politics, families and more, Mar 13th 2024): dipinge un quadro differenziato ma nel quale le tendenze sono omogenee. Intanto si osserva un divaricarsi di posture esistenziali: da un lato le giovani donne che si spostano verso una direzione progressista, impazienti di andare avanti nella direzione di un cambiamento sociale che temono si sia bloccato; mentre al contrario è molto presente, tra i giovani maschi, la convinzione che il femminismo abbia esagerato, spingendo verso una situazione pericolosa per la posizione dei maschi, che minaccia le opportunità di uomini e di ragazzi. Se già da tempo erano gli uomini più avanti con l’età a manifestarsi più aperti dei giovani, l’uso dei social ha peggiorato la situazione polarizzandola, spingendo i ragazzi a rassicurarsi, nella loro paura ed aggressività crescente, nell’incontro con altri giovani maschi frustrati.
Se inoltre in generale le ragazze vanno avanti negli studi in numeri superiori del 10% ai ragazzi, ciò comporta per loro una carenza notevole di interlocutori che condividano stili di vita e orientamento culturale e politico e ha generato una crescente solitudine e sfiducia reciproca oltre ad una tendenza già presente a coinvolgersi più tardi nelle relazioni sessuali di quanto non capitasse alle generazioni precedenti. È in qualche modo connesso a questi fenomeni il fatto che le ragazze della generazione (Z) nata tra gli anni 1990 e i 2000 abbiano una tendenza a costruire rapporti di coppia con altre donne in numeri doppi rispetto alle generazioni precedenti? D’altro canto, molti giovani maschi sembrano percepire le donne come una potenziale minaccia ai loro spazi e alla loro carriera, si incontrano sui social e condividono una amara misoginia.
Certo questi sono i giovani, che ormai sono pochi, in Italia in modo particolare. Ma sono anche i nostri figli e perciò dicono qualcosa anche di noi, se li abbiamo cresciuti in rapporti d’odio o d’amore…
Cosa abbiamo pensato quando abbiamo letto di Giulia Cecchettin, bravissima laureanda, dolce e carina che continuava a vedere il suo ex perché pensava che lui non ce la facesse…o di tutti quegli ‘ultimi incontri’ finiti in tragedia a cui le donne non si sono sottratte? Si sentono troppo forti o in colpa? Non sono in grado di percepire il pericolo? Non riescono a dire di no fino in fondo? Sono in realtà dipendenti e incapaci di pensarsi in modo autonomo?
Forse un po’ di tutto questo.
Se si parla con chi lavora nei centri anti-violenza emerge chiarissima la difficoltà che le donne hanno ad identificare la violenza come tale, a prenderne le distanze, in particolare a concepire il proprio diritto/dovere a sottrarsi, anche in assenza di figli e a maggior ragione con loro. Non parliamo della assoluta incapacità degli uomini a riconoscersi violenti.
Ed è enorme il lavoro che si sta facendo anche con il personale medico e con polizia e magistratura perché la violenza sia identificata in tutte le sue diverse forme, riconosciuta e allontanata (è appena uscito il Libro bianco per la formazione, a cura del Comitato tecnico scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica). Eppure il senso di impotenza ci assale all’ennesima cronaca nera e tendiamo a pensare che le scaturigini siano così profonde che poco si riesce a fare, per quanto si tenti. E i cambiamenti da apportare sono sistemici, di lungo periodo, ci vorranno delle generazioni.
Tali considerazioni mi spingono a pensare che, nel tempo di vita che ognuno di noi ha, sia importante imparare ad accettare che il conflitto tra i sessi è inevitabile, direi persino necessario. Mi riferisco naturalmente ad un conflitto verbale e dialettico, comportamentale e non violento, per quanto mi renda conto che, non a caso, le giovani donne sono sempre più interessate alle tecniche di autodifesa, magari per i risvolti che essa può avere sul piano psicologico…
Penso soprattutto all’importanza, messa a fuoco dal femminismo, innanzitutto di identificare il proprio punto di vista e “tenere il proprio terreno”, e poi manifestare una posizione chiara e, se necessario, il proprio dissenso, senza cercare lo scontro ma anche senza il timore che ciò porti ad una rottura emotiva irreparabile. Non sto riferendomi esclusivamente ad un terreno familiare o di coppia, per quanto è lì che si impara generalmente a misurare le proprie forze o a lasciar perdere in anticipo. Penso a relazioni sociali più ampie, anche in ambito lavorativo, dove è importante decifrare e comprendere il messaggio implicito che ci viene da ogni parte: è un mondo costruito sulla misura di un unico sesso dove le donne non sono previste e dovrebbero perciò adattarsi (e magari essere grate per la concessione). Nulla è o sarà regalato e quindi è necessario accettare il conflitto, e metterlo in conto.
Ma non si può evitare di tornare al nodo dei rapporti d’odio o d’amore e ai dati impressionanti della incidenza della violenza fisica, ma anche di quella psicologica, nei rapporti familiari e di coppia.
Naturalmente si parte dal dato di fatto che tali rapporti nascono e hanno luogo all’interno di una antichissima tradizione culturale che è geneticamente violenta nella imposizione di due modelli stereotipati sia ai maschi che alle femmine, ma con l’aggravante di una netta subordinazione dell’uomo sulla donna, per quanto essa sia complicata, ma anche motivata, dalla profonda e ambivalente potenza del materno.
Sullo sfondo quindi di una violenza strutturale e sistemica, sembra si stia manifestando una violenza ulteriore, legata alla nuova soggettività femminile e alla messa in discussione della assoluta naturalità del dominio maschile. Ciò che ha messo in crisi profonda innanzitutto gli uomini, rivelando la loro fragilità e la loro dipendenza dalla posizione di dominio e controllo.
Tale novità, che si esprime con diversi livelli di consapevolezza, ma in genere nella aumentata possibilità di una libera scelta, attraversa in realtà tutte le generazioni di donne anche nel nostro paese. Ma certo non è una passeggiata, perché scuote equilibri profondi e spesso del tutto o in parte inconsapevoli, perché non ci è stato insegnato a maneggiare il conflitto di posizioni, ad esprimerci e riconoscerci reciprocamente nelle nostre differenze. Ai due estremi c’è da un lato il progressivo allontanamento, e la solitudine di cui accennavo prima per i giovani, ma sicuramente non una esclusiva dei giovani, e dall’altro il manifestarsi di forme diverse di violenza inaccettabile e distruttiva. Al centro c’è l’inevitabilità del conflitto, che non è alternativo all’amore, alla fiducia, allo scambio reciproco. Un conflitto che confronti vissuti diversi e prenda atto delle differenze, che possa essere una via di accresciuta consapevolezza piuttosto che una spaventata e confusa difesa di sé? Forse. Del resto non vedo altra strada.
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