Decostruire l’Io e l’Es

Nella «Premessa» al suo scritto, Freud sembra tracciare le coordinate per l’incontro con il lettore: descrivendo quali fossero le proprie intenzioni nel presentare le tesi che compongono il testo, sembra parlare anche a chi lo leggerà, invitandolo a una certa libertà di pensiero, a un’apertura della mente che è anche quella che si propone l’autore nel gesto di scrivere L’Io e l’Es.

Freud accenna a un atteggiamento di “benevola curiosità” verso i temi affrontati, alla rilevanza del loro essere radicati nell’osservazione analitica, al “carattere di sintesi” delle affermazioni riportate, che non vanno considerate come definitive, bensì come “enunciazioni molto approssimative”, accettando “senza riserve questa limitazione”. È come se chiedesse al lettore di provare a fare spazio per una riflessione sul tema, che non potrà che essere personale, quale limite e pregio.

Inoltre, Freud specifica in «Premessa» di avere tratto alcune delle sue idee da altri autori e di non sentirsi debitore nei loro confronti: la psicoanalisi ha un tempo e uno spazio di sviluppo e quando giunge a occuparsi di un certo tema, questo appare in una “luce diversa”.

Il paragrafo introduttivo de L’Io e l’Es, «Coscienza e Inconscio», inizia con l’affermazione: “Non ho niente di nuovo da dire”. Freud non introdurrà nuovi dati, ma quello che farà sarà riorganizzarli in modo diverso, guardarli sotto una “luce diversa". Questa è un’idea molto importante in Freud, la questione di come un’ulteriore ritrascrizione (Lettera 52 a Fliess) possa far emergere nuovi significati e affetti. È l’essenza dell’après-coup. In sintonia con questo, il gruppo si è proposto di decostruire il testo freudiano, ovvero di adottare un approccio critico, caratterizzato dal porre un’attenzione particolare alle strutture linguistiche, alle contraddizioni e alle ambiguità, mettendo in discussione le gerarchie e i significati tradizionali, sfidando l’idea di una lettura univoca a favore di una comprensione che si confronta con la psicoanalisi contemporanea. Lo scopo, quindi, non è quello di dire qualche cosa di nuovo, ma di provare a dirlo in modo “nuovo”, inteso come espressione del pensiero e del lavoro sull’esperienza psicoanalitica del gruppo che, unendosi nell’impresa, non può che fare lo sforzo di trovare un linguaggio comune.

 

SHIBBOLETH (1)

Molto presto lungo il testo l’autore presenta un termine oscuro e perturbante, la parola ebraica “shibboleth”, che il traduttore tenta di chiarire spiegando al lettore che si tratta di un “termine ebraico che indica una parola di riconoscimento, la quale serve a distinguere dai nemici coloro che sono dalla nostra parte”. Freud afferma che il riconoscimento dell’esistenza dell’inconscio rappresenta lo shibboleth della psicoanalisi: chi non fosse disposto ad accettarne l’esistenza, come chi ha formazione filosofica (chi non ha a che fare con la clinica), ne resti al di fuori e non prosegua oltre nella lettura del testo.

Il punto qui è non accontentarsi e spingersi oltre. Shibboleth, escludendo l’oscurità del significato, è un suono straniero che invita il lettore a fermarsi, a cambiare vertice di ascolto e provare a ricevere una possibile comunicazione inconscia da parte dell’autore. Mentre Freud introduce il tema dell’Inconscio, parla all’inconscio del lettore e trasmette così un’esperienza: come tale, essa non può essere istantanea, ha bisogno di tempo, di stendersi sul lettino-mente, e di svilupparsi. L’effetto che questa parola ha sul gruppo è quella di una perturbazione: l’inconscio non può essere dissociato e misconosciuto, e si presenta nella parola shibboleth, nella forma di una cesura.  

Pensando all’uso che Freud farà di quest’ultimo termine nel 1926 (“tra la vita intrauterina e la prima infanzia vi è più continuità di quel che ci lasci credere l’impressionante cesura della nascita”), egli sembra voler accompagnare il lettore nell’atto di nascita della psicoanalisi dentro di sé, la scoperta della funzione psicoanalitica della mente (Bion). Bion nel 1974 scrive «Indagate la cesura. Non l’analista, non l’analizzando; non l’inconscio, non il conscio […] Ma la cesura, il legame, la sinapsi», pensiamo occorra indagare la relazione, intersoggettiva, tra il termine, il testo e la mente del gruppo. Se non si può sostare nell’ascolto della comunicazione inconscia che qui può avere e farsi luogo, lo shibboleth ci ferma.

Approfondendo il senso di shibboleth ne scopriamo le origini e quanto esso rappresenti un simbolo di identificazione e distinzione culturale. Si tratta infatti di una parola che pone l’accento sul riconoscimento delle differenze linguistiche, di provenienza e di pensiero attraverso la musica delle parole, e che si associa all’inconsapevolezza dello “straniero” della propria diversa pronuncia e dell’effetto che questa può produrre sull’ascolto dei suoi interlocutori. Questo “effetto” pensiamo si riprodurrà anche nella lettura del testo di Freud che il gruppo presenterà qui, anche usando alcune vignette cliniche.

 

IL MODO DIRETTO E LA SUPERFICIE PERCIPIENTE

Fatto spazio per l’inconscio con lo shibboleth, Freud introduce la necessità di utilizzare una critica alla filosofia della coscienza e una riflessione sul significato di “esser cosciente” come termine che non può essere “puramente descrittivo” né richiamarsi semplicemente “alla percezione più immediata e più certa”. Qui l’autore accompagna il lettore nello sforzo di trasformare un luogo comune, quello di una coscienza sempre vigile e omnicomprensiva, in una più dinamica, come “capacità (dell’esperienza) di farsi cosciente”. Troviamo che in questa sua riformulazione, che serve a Freud anche per ricordare la presenza di un preconscio (Prec) collocato tra inconscio e coscienza dinamici, l’autore invita il lettore a un ascolto attento a più livelli di comunicazione, livelli che possono apparire del tutto scissi tra loro, separati dalla rimozione e dalle resistenze. In questo punto del testo sembra preannunciare la formulazione di “visione binoculare” e dello splitting che propone Bion in Trasformazioni. I pazienti modificano la loro prospettiva su un oggetto attraverso cambiamenti di punto di vista, simili ai cambiamenti di posizione di un rilevatore astronomico. Questa procedura implica una scissione nel tempo e nello spazio e può contribuire o ostacolare la soluzione di un problema. La rilevanza immediata sta nell’utilizzo della scissione come metodo per ottenere la correlazione, con il meccanismo che richiede successivamente la riunione delle parti scisse, diventando un ostacolo per personalità con scissione motivata da impulsi distruttivi quando si richiede una riunione creativa di due oggetti (2) .

 

Creativamente Freud pare aiutare il lettore ad abituarsi a più livelli di ascolto, apparentemente scissi, e, fornendo una sorta di mappa geografica del mondo interno, a riconoscere l’estensione della psiche e dei suoi processi.

Nel secondo capitolo, intitolato «L’Io e l’Es», Freud individua elementi sensoriali inconsci, che restano tali finché non divengono consci per via diretta, ovvero non passando per il preconscio. Inizialmente abbiamo pensato che questa definizione potesse essere l’antenata dell’identificazione proiettiva di Melanie Klein e di funzione alfa di Bion. Elementi sensoriali indigeriti vengono proiettati nell’oggetto che li sente come propri e tale processo prevede la percezione di una relazione; questa si fa contenitore dei contenuti inconsci del soggetto.

Qui però le parole di Freud possono fare pensare a qualche cosa di ancor più primitivo, quando la relazione ancora non viene percepita perché in via di formazione. Sembra trattare di elementi non integrabili (né pensabili) e depositati nel corpo, percetti ancora non percepiti dal soggetto, ancora ignoti e vuoti di senso, che non possono venire rimossi, ma depositati nel corpo e ripercepiti.

In après-coup, sembra esser disegnata qui l’ipotesi dell’esistenza di uno stato della mente in cui prevale la sensorialità e la sua elaborazione nel corpo, uno stato che non conosce la distinzione tra soggetto e oggetto e che necessita quindi di un modo diretto per esprimersi. Freud afferma in questo punto che “l’inconscio non coincide con il rimosso[…] non ogni inconscio è rimosso [… siamo] Quindi costretti a istituire una terza specie di inconscio non rimosso”.

Da allora in poi, nella storia della psicoanalisi, diversi autori hanno sviluppato il concetto di inconscio non rimosso. Non è nostra intenzione fornire una revisione della letteratura di questo processo. Considerando invece il solo testo de L’Io e l’Es, colpisce come in questo punto della sua trattazione, Freud sembri creare le condizioni perché il lettore possa farsi “superficie percipiente” e vivere così l’esperienza della nascita della psicoanalisi: le parole che Freud sceglie di usare, come suoni a tratti oscuri, che compongono abbozzi di concetti (di inconscio non rimosso, di corpo, di modo diretto) ancora tutti da sviluppare, vengono emesse nello spazio della lettura. Esse, come lo shibboleth generano un’atmosfera perturbante data dal non intendere subito, dal non sapere, ma la speranza naturalmente implicita nel discorso, è quella di incontrare nel lettore una superficie intersoggettiva sulla quale depositarsi e prendere forma. Ciò che infiltra lo spazio della lettura, che viene escorporato dal testo, è quel che Bion (1967) definì “indice di verità”, la verità affettiva del testo, la psicoanalisi non solo letta, ma anche sperimentata, imparata. Se questo processo non avviene, lo shibboleth ci ferma: la psicoanalisi si presenta allora solo come un enorme costrutto teorico, come una gigantesca madre, sublime quanto incombente e ingombrante il pensiero.

 

Un ragazzo di 18 anni racconta (in una delle prime sedute successive all’interruzione estiva) un episodio avvenuto il giorno precedente: si trovava a una delle sue gare di sci, dopo una serie di fallimenti (si era ribellato alle indicazioni del proprio allenatore e, facendo di testa propria, era anche caduto durante la discesa, rischiando di farsi molto male), e l’allenatore lo rimproverava e sollecitava con sarcasmo. Il paziente si sente frustrato e irritato e, seppure normalmente tenda a mandar giù rospi tacendo i propri pensieri, questa volta decide di comunicare al coach che non vuole essere trattato in quel modo. Quest’ultimo allora trova le parole per comunicargli il proprio dispiacere e un nervosismo che l’ha spinto a essere antipatico con lui. Il paziente si allontana di qualche metro, verso il panorama, per prendere fiato, da solo, ed esplode in un pianto irrefrenabile. Un compagno di squadra e amico gli si avvicina e gli chiede cosa sia successo: lui non gli risponde, ma il compagno gli resta vicino. Poco dopo arriva anche l’allenatore, il quale resta al suo fianco finché non si calma.

In seduta il paziente arriva pieno di sgomento e vergogna per essersi così lasciato andare al pianto in mezzo a tutti. Afferma che dopo essersi calmato ha però sciato molto meglio, sentendosi più veloce e leggero.

P.: è come se mi fossi svuotato. Fatto il vuoto e sentendomi più leggero, sono stato meglio

A.: mi sembra che questa volta svuotandosi, lei abbia potuto trovare un appoggio nel suo compagno e nel suo allenatore

P.: Sì, non ero solo, questa volta, non ero disperso nell’ambiente

 

Sempre nel secondo capitolo, Freud afferma che la coscienza costituisce la “superficie dell’apparato psichico”: “l’abbiamo cioè attribuita, in quanto funzione, a un sistema spazialmente collocato al primo posto, se si procede dal mondo esterno. […] Anche la presente indagine deve partire da questa superficie percipiente” (corsivo mio).

 

Questa “superficie percipiente” per quanto occupi “il primo posto”, tanto nella relazione tra soggetto e ambiente, quanto nella percezione che il soggetto ha di sé stesso, riconoscendosi in un Io, costituisce di fatto una minima parte del sistema psichico.

La portata rivoluzionaria del testo freudiano consiste anche nel sottolineare quanto l’Io, che comprende la coscienza, sconfini ampiamente nell’Es, ignorando gran parte dei contenuti che lo abitano, animandolo. Questa acquisizione, derivante dalla pratica clinica, ricade sull’esercizio dell’ascolto analitico, che dovrà tener presente di essere rivolto per lo più all’ignoto, a partire dal racconto manifesto che il paziente fa di sé in seduta, presentando la porzione conscia del proprio Io. Non si tratta più solamente di rendere conscio quanto dell’inconscio è possibile acquisire alla coscienza, ma di ampliare la prospettiva della conoscenza di sé, favorendo l’apertura all’ignoto e la sospensione del giudizio conscio immediato, chiamato a organizzare in tempo reale le esperienze vissute.

Se il lavoro analitico si volge allora a ciò che non sappiamo, il compito non semplice dell’analista consiste innanzitutto nel mantenere un ascolto che non si lasci troppo imbrigliare nelle maglie del racconto manifesto, tramite il quale il paziente si presenta in seduta. L’uso dell’attenzione fluttuante o uniformemente distribuita, che Freud pone tra i cardini del metodo, potremmo oggi intenderla nel senso rinnovato di “un’attenzione all’ambiente” (campo, sensi, silenzi), che si realizza in seduta. Per riprendere le parole del paziente sopra ricordato: un esercizio a “disperdersi, perdersi nell’ambiente” non da soli, favorendo così l’emergere di ciò che dell’esperienza resta ignoto, privo di forma. Questa indicazione tecnica delle origini del metodo pare dunque ampliarsi nello sviluppo della teoria che Freud propone ne L’Io e l’Es.

Possiamo evocarne l’utilità, ad esempio, nell’ambito della cura di pazienti (non nevrotici o nevrotici gravi) che si presentano all’analista adesi al racconto per lo più fattuale del proprio vissuto. Si tratta di soggetti che occupano la seduta per lo più parlando ininterrottamente. La coppia analitica si trova così travolta da fiumi di parole difficilmente arrestabili, spesso senza pause (senza respiri). L’Io presentato in questi casi all’analista risulta atrofizzato nel discorso parlato, apparentemente logico, in cui non esistono vuoti o spazi ignoti (tutto apparentemente si spiega (3). Se queste circostanze di incontro possono evocare alternativamente stati di angoscia profondi, incontenibili, che l’incontro con l’altro-analista rievoca, o condizioni depressive profonde, coperte da un’apparente vivacità verbale operatoria (Kristeva, 1987), potremmo tuttavia anche intenderle (riprendendo ciò che Freud propone nell’Io e l’Es) come traccia di una matrice originaria di costituzione dell’Io, fondata sull’identificazione – incorporazione, tramite parola, con i fatti del mondo esterno con i quali il soggetto entra progressivamente in contatto.

Freud ci ricorda come l’Io sembrerebbe strutturarsi a partire dall’assunzione in sé, dall’immedesimazione con l’esterno. Questo corpo a corpo originario, comune nello sviluppo psichico e indicato da Freud come prima forma di relazione del soggetto con l’altro, sembra in questi casi non aver conosciuto ulteriori sviluppi, anche in virtù del fatto che l’investimento adesivo e massiccio della parola, come collante posticcio dell’Io, sembra bloccare il potenziale evolutivo della simbolizzazione verbale nel rapporto con l’altro.

In questi casi l’analista si ritrova allora bombardato dal discorso del paziente e nella situazione paradossale di dover abbandonarne la parola (strumento cardine del lavoro psicoanalitico) per poter mantenere un ascolto analitico e quindi guardare altrove, verso ciò che manca al discorso totalizzante.

L’attenzione dell’analista potrebbe allora rivolgersi alternativamente alle lacune del discorso del paziente (4) e all’ambiente condiviso in seduta, che comprende il corpo e la sensorialità non verbale da esso messa in campo. Lo sguardo analitico riesce così ad ampliarsi verso quel che la “simbiosi verbale” esclude, rilanciando l’evoluzione dell’Io e rendendo più flessibile il suo rapporto con i contenuti inconsci che lo abitano.

Potremmo così pensare a una traiettoria teoria-tecnica nel pensiero psicoanalitico, che da L’Io e l’Es conduce al sogno dell’ultimo Bion (1975) di una psicoanalisi come fenomeno “che evidenzia forze sulla cui superficie la razza umana guizza, fiammeggia e svanisce in risposta ad una realtà gigantesca ma non riconosciuta.”

 

ESPERIENZA ESTETICA/ ESTESICA

«Human kind

Cannot bear very much reality»

(T.S. Eliot, Burnt Norton, in Four Quartets,1936-1942)

 

Seguendo questa traiettoria ci muoviamo ora in direzione dello strutturarsi dell’Io, inteso da Freud a un tempo come superficie psichica e come proiezione della superficie corporea. Costituto come Io-corpo, il soggetto sorge da canali sensoriali plurimi, tra cui quelli di prossimità come il tatto, di cui Freud ricorda il dato fenomenologico dell’auto-affezione (intuizione che trova il suo sviluppo filosofico anni dopo con Merleau-Ponty, 1945).  Il rapporto diretto tra Io-Es si basa su quei feelings (Empfindungen und Gefühle – “sensazioni” e “sentimenti”) che mettono in tensione la teoria topografica preludendo una bioniana teoria del protomentale «come qualcosa in cui il fisico e lo psicologico o mentale si trovano in uno stato indifferenziato» (Bion, 1961, 111). Tuttavia, ricorda Freud, l’Io non è solo «la parte dell’Es modificata attraverso l’influenza del sistema percettivo, ovverosia il rappresentante del mondo esterno reale nella vita psichica»; la funzione mentale degli organi di senso si intreccia con l’investimento dell’Io che si autoimpone all’Es assumendo i tratti dell’oggetto amato e perduto. Perché questo passaggio avvenga occorre che nell’incontro del neonato con la madre questi possa vedere se stesso e non sia saturato dalla percezione dall’altro, altrimenti la “troppa realtà” del poeta – riletta alla luce della bioniana “favola dei bugiardi (Bion, 1970, pp. 74-75) – prende il posto di ciò che avrebbe potuto essere significato. Come ricorda Bollas (1987), è attraverso il para-eccitatorio che diviene possibile la funzione trasformativa dell’oggetto materno, tramite un’esperienza estesica (5)/estetica nonché estatica (Fachinelli, 1989) contenente la memoria della relazione primitiva, un conosciuto non pensato attraverso cui entrare in contatto con sé stessi.

 

Una giovane donna da qualche tempo si trova a percepire con angoscia il battito del proprio cuore. A nulla sono valsi gli esami clinici negativi e le sbrigative parole dei medici, che hanno liquidato il problema come “ansia”; ed è la stessa paziente ad evacuare nei primi incontri le proprie emozioni nominando tutta una serie di eventi mai elaborati: la fine di un rapporto sentimentale, le difficoltà della famiglia per la morte improvvisa della madre, che l’hanno resa il sostegno di un padre in lutto. Nella sua cronica depressione essenziale, sembrano mancare esperienza evocative e sognanti, di qui la scarsità di parole, l’attesa di una sparizione del sintomo, la sensazione di vuoto e noia che lascia il suo eloquio scialbo e incolore in cui si stenta a rimanere vivi. Manca lo sguardo dell’altro, come erratico è lo sguardo che la paziente rivolge al terapeuta. Solo il tentativo metaforizzante di dar voce a un cuore che non vuol smettere di battere, permetteranno di cominciare a costruire frammenti insaturi di significato emotivo con i quali potrà cominciare a sentirsi viva.

 

La continuità tra corpo e mente mediata dai gesti e dallo sguardo materno si embrica in quell’ombelico estetico/estesico che rende possibile l’esperienza del sognare: «Con chiarezza inaspettata abbiamo visto che il sogno e il vivere reale sono dello stesso ordine. Il sogno penetra nel mondo reale nel rapporto con gli oggetti, e il vivere nel mondo reale penetra nel mondo dei sogni» (Winnicott, 1971). Sullo spazio psichico del legame onirico comune si sovrappone quindi il secondo ombelico, quello gruppale (Kaës, 2002), in cui riposizionare la costruzione freudiana del Super-io come presenza costitutiva degli altri nel soggetto: eredità nel corpo delle tracce degli antenati, depositi transgenerazionali di vita e di morte in lotta con incerto destino come nella battaglia di Châlons raffigurata da Kaulbach (Hunnenschlacht,  1834-37).

 

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Un uomo non più giovane vive con profonda vergogna il desiderio di staccarsi dalla famiglia per intraprendere una convivenza con la donna che ha cominciato a frequentare da qualche tempo e verso la quale nutre sentimenti e affetti ormai evidenti. Ogni tentativo di progettare una vita a due suscita però in lui una critica feroce, con cui si tormenta e che lo lascia esausto, vanificando ogni spinta al cambiamento. Col tempo le autoaccuse si alternano a manifestazioni di rabbia verso il terapeuta quando questi lo sostiene nel suo progetto di vita. Un po’ per volta, diradandosi l’ombra dell’oggetto, il paziente comincia a rivolgere la rabbia verso il padre che non gli ha mai permesso davvero di emanciparsi, in nome di un malcelato disprezzo per il mondo femminile. In tale periodo il paziente sogna: «Mi trovavo dentro una grande casa che avevo ereditato, era una casa molto grande e mi sembrava strano che fosse tutta per me… io andavo un po’ in giro, forse c’era anche mio padre e a un certo punto mi accorgevo che negli armadi c’erano i suoi vestiti, trovavo anche una giacca dai colori sgargianti, una specie di divisa militare, che sentivo di dover indossare… poi però non lo facevo, vedevo invece una piantina piccola, malata, con delle foglie grandi e opache, bisognosa di cure». Possiamo così cominciare a riconoscere nel paziente la presenza di un mandato familiare che gli impone di proseguire una guerra senza fine contro le donne, anziché potersi occupare del suo desiderio rimasto troppo a lungo nell’ombra.

 

Dicendo che «l’Io si comporta come il medico durante una cura analitica, giacché, tenendo conto del mondo reale, si raccomanda all’Es come oggetto libidico e mira a che la libido dell’Es venga rivolta su di sé». Freud pare infine suggerire che in tali casi compito dell’analista è muovere il soggetto al di qua dell’inconscio rimosso, evocando l’esperienza estetica originaria dell’inconscio non rimosso. Abbiamo qui le tracce di una futura analisi ontologica, dove alla logica rappresentazionale paterna, si interpone, come ricorda tra gli altri Bollas (2013) la logica presentazionale materna?

 

RICOSTRUIRE L’IO E L’ES NEL LAVORO ANALITICO
CON I PAZIENTI GRAVI: SEQUENZE CLINICHE

 

Le sequenze cliniche che seguono possono essere prese a rappresentare la compresenza dei diversi livelli di funzionamento e rappresentazione, che si sperimentano in analisi e in particolare nell’analisi dei pazienti gravi. A livello della traslazione troviamo che il legame con l’oggetto su di un piano più primitivo viene esperito in un registro distruttivo e predatorio, mentre ad un altro livello è possibile una rimodulazione degli affetti, una operazione di legame con componenti creative che li rendono, a loro modo, vitali. A questa esperienza di legame (6) corrisponde un versante verticale, intrapsichico (Kohut, 1973) esitante nella disposizione a contattare le proprie vicende interiori, accedendo alla possibilità di secondarizzarle, e un versante rivolto all’oggetto, che emerge fenomenologicamente nella partecipazione emotivamente vivida del paziente alla seduta e nell’appello all’altro, nella sua funzione di testimone, se non di vero e proprio Io ausiliario.

Un giorno arrivando in seduta il paziente sorprende l’analista parlando di un documentario sul processo ad Angelo Izzo, uno dei killer del Circeo. M. racconta di essere rimasto colpito dalla freddezza con cui Izzo illustrava ai giudici i dettagli dell’omicidio che aveva commesso non appena uscito di galera: lui voleva uccidere la madre, ma visto che a casa c’era anche la figlia, aveva dovuto ammazzare tutt’e due.

Di tenore diverso appaiono i racconti riferiti ai film che, pur incentrati su contenuti inquietanti, consentono una elaborazione grazie alla qualità artistica delle produzioni o della colonna sonora, elementi rispetto ai quali il paziente si mostra sensibile e competente e che spesso vengono commentati in seduta. Una occasione significativa si presenta un giorno in cui, per errore, M. arriva allo studio fuori orario e viene comunque ricevuto in seduta. Il paziente si scusa per il suo errore - ha scambiato l’orario del lunedì con quello del mercoledì - poi inizia subito a parlare di un film di Lars von Trier, La casa di Jack.

P.: Il regista è uno che ha un sacco di fobie, praticamente ha paura di tutto! Dice che è a causa di un esperimento che hanno fatto i suoi genitori, ossia di farlo crescere senza regole, assolutamente senza regole. E lui adesso di ritrova così. Bell’esperimento! Jack invece è un serial killer. Uno psicopatico. Da bambino voleva fare l’architetto. Era fissato che voleva costruirsi una casa, solo che non ci riusciva. Ogni volta iniziava e poi la distruggeva. E ad un certo punto aveva iniziato ad uccidere. Nel film lui racconta tutti i suoi omicidi ad uno che lo sta ad ascoltare. Li descrive come se fossero opere d’arte. Accumulava i resti in una cella frigorifera. E alla fine decide di usare le ossa e i resti per costruirsi la casa...

A.: E come finisce?

P: Finisce che lui porta quello che lo ascolta a vedere la casa...

Silenzio

A.: Mi pare interessante questo accostamento di cose vive e cose morte. Insomma usare le parti del corpo come se fossero dei pezzi per costruire la casa. C’è questo passaggio, questo scambio, un accostamento tra cose vive e cose morte. Un tenere insieme. Una casa per tenere insieme cose vive e cose morte?

 

L’analista si chiede se M. stia rivolgendosi nel transfert a qualcuno che possa ascoltare le parti vive come le parti morte che abitano la sua interiorità. Commenta che forse anche l’orario solitamente condiviso è quello ‘morto’, mentre l’orario ‘vivo’ è quello scelto dal paziente in modo spontaneo. Il tempo del lapsus è un tempo proprio; forse è questo il tempo che, paradossalmente, il paziente ha portato in seduta?

Giorni dopo il paziente parla di un docu-film: una ragazza aveva ucciso la madre, che soffriva della sindrome di Munchausen per procura. Il paziente parla lungamente del “tabù” della violenza dei genitori sui figli, una violenza insopportabile nella nostra società. Spiega di essersi accorto che la visione di questi documentari ‘crime’ la disturba quando si vedono quei pochi fotogrammi che non sono ricostruiti, che sono veri.

P: Alla fine ho smesso - dice - non ce l’ho fatta a vedere. Ho visto solo venti minuti, poi basta. Non è bello vedere un cadavere vero: la mano della signora, voglio dire, la mano della signora che era morta davvero. Credo che non lo vedrò più, ma ho detto a mia madre di vederlo.

Ad un certo punto, mentre si interroga sulla domanda che il paziente rivolge alla madre-analista, come da uno sfondo indistinto, emergono alla mente del terapeuta una serie di immagini, la nebbia, lui con Virgilio - così si chiama l’uomo che ascolta - in una specie di foresta, la casa di resti umani del film di Von Trier. Il tutto però è come visivamente sfumato, ammorbidito e privo di morbosità, in forte opposizione alla immaginazione/sensazione di crudezza mortifera contenuta nell’azione di uccidere: una immagine mentale depurata ed ‘artistica’, in cui ci si avvicina alla realtà rinunciando all’impulso a possederla, e anzi, lasciandosi abitare da essa.

Per evidenziare la dimensione maturativa resa possibile dall’analisi dei diversi livelli di funzionamento nel paziente grave, può essere utile concludere la presentazione del materiale clinico relativo all’analisi di M. riportando un breve stralcio di una seduta raccolta in una fase molto precoce del percorso.

Il paziente lamenta dolore al collo e alle spalle, ha la sensazione di avere una pietra al centro della testa e una bolla dietro l’occhio destro. Dice: “Pensavo di aver risolto e invece ho ancora tanto da risolvere…”  Resta in silenzio per un po’ e poi dice che avrebbe bisogno di fare qualche cosa di diverso nel finesettimana, vorrebbe andare al fiume, magari con gli amici…  Ma quali amici? Il suo amico ha trovato una fidanzata ed è sparito. “Lei piange?” chiede l’analista. “Non piango – risponde il paziente - certe volte mi escono le lacrime”.

 

Nell’analisi dei pazienti gravi siamo dunque convocati nei processi di graduale consolidamento del funzionamento egoico in relazione al percorso di oggettualizzazione dell’iniziale investimento narcisistico nel corpo (7). Appoggiandoci sulle recenti concettualizzazioni a proposito dell’eccesso di sensorialità nel funzionamento del paziente psicotico proposte da Antonello Correale, potremmo supporre che ciò avvenga attraverso la complessificazione del registro del pensiero. Un registro che in questi pazienti sembra muovere da un livello cinestetico, originario e pre-visuale oltre che preverbale, della cui esistenza attestano altri spunti dell’intuizione analitica, quali il concetto di Orpha di Ferenczi o quello dei Somiti immaginati da Bion nell’ultimo volume della sua Trilogia Fantastica. La rinnovata attenzione al corpo e alla sensorialità potrebbe pure aiutarci a pensare diversamente l’aggressività scissa del paziente grave, ad esempio come una violenza connessa al rilascio di energia non legata alle rappresentazioni.

 

 

BIBLIOGRAFIA

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Bion W.R. (1975), Memorie del futuro, Il sogno, Raffaello Cortina Editore, Milano 1993.

Bollas C. (1987), L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato, Borla, Roma, 2007.

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Bollas, C. (2013), La mente orientale, Raffaello Cortina Editore, Milano.

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Kohut H. (1973), Trasformazioni terapeutiche nelle analisi delle personalità narcisistiche. In Carusi, A. (a cura di), Introspezione ed empatia. Raccolta di scritti (1959-1981), Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

Kristeva J. (1987), Soleil noir. Dépression et mélancolie, Gallimard, Paris.

Merleau-Ponty M. (1945), Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003.

Semi A.A. (2011), Il Metodo delle libere associazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011.

Winnicott D.W. (1971), Gioco e realtà, Armando, Roma 1974.

 


(1) Nella traduzione italiana del testo freudiano a cura di Boringhieri, il termine è trascritto seguendo una diversa ortografia, che evoca la pronuncia del termine, ovvero: Scibbolet. Si è deciso qui di mantenere invece l’ortografia comunemente in uso nella lingua italiana che riprende quella dell’originale ebraico.

(2) «Si può osservare che i pazienti cambiano atteggiamento verso un oggetto per mezzo di cambiamenti del punto di vista che possono essere contrari o analoghi ai cambiamenti di posizione che un rilevatore, terrestre o astronomico, usa per valutare le dimensioni di un oggetto remoto. La procedura implica una scissione (splitting) in termini di tempo e spazio e, a seconda della natura dell’intenzione, può contribuire alla soluzione di un problema (fornendo un sostituto della visione binoculare quando la ‘visione binoculare’ non è possibile o ostacolare una soluzione distruggendo la ‘visione binoculare’ quando essa è possibile). L’immediata rilevanza di questo sta nell’uso della scissione (splitting) come metodo per ottenere la correlazione. Il meccanismo implica la riunione delle parti scisse. L’ostacolo alla correlazione, per una personalità la cui scissione (splitting) è motivata da impulsi distruttivi, è la necessità che due oggetti siano riuniti in maniera creativa» (Bion, 1965, pp. 96, 97).

(3) La psicoanalisi francese ha evocato questi pazienti con l’espressione: “machines à paroles” (cfr. B.Chervet, comunicazione personale, 83e Congrès des Psychanalystes de Langue Française, Affect, théorie…, Lausanna, 18-21 maggio 2023).

(4) Discorso che si propone omnicomprensivo, spesso fino all’ultimo dettaglio, ma che inesorabilmente, in virtù della presenza dell’Inconscio nell’Io sarà portatore di “lacune” (Semi, 2011).

(5) Concetto di area semiotica, ma con ampia attinenza al campo dei fenomeni clinici, uno per tutti, l’an-estesia.

(6) Il lavoro di re-impasto dei residui pulsionali dell’Es per come descritto da Freud nel quarto capitolo del testo alla nostra attenzione può essere messo in relazione allo sviluppo delle funzioni dell’Io, che Anzieu, in piena continuità col punto di vista freudiano che stiamo analizzando, magistralmente così riassume: «L’Io è una istanza psichica in duplice continuità, rispettivamente con l’Es e il Super-Io; è l’attore dei processi psichici secondari (generalmente consci) e dei meccanismi di difesa (generalmente inconsci). Questo attore costituisce il nocciolo duro dell’Io, che è il risultato dell’introiezione dell’oggetto primordiale; l’Io ha, complementarmente, una configurazione di involucro, che separa e collega il mondo esterno e il mondo interno: si tratta del sistema percezione-coscienza. L’involucro assolve funzioni di cui ho provvisoriamente completato la lista fermandomi a otto: conservazione, contenimento, para-eccitazione, individuazione, inter-sensorialità, sostegno sessuale, ricarica della libido, iscrizione delle tracce» (Anzieu, 1995, pp. 241-242).

(7) Questi processi di oggettualizzazione di un investimento originariamente centrato sul corpo potrebbero essere pensati come complementari ed in un certo senso inversi a quella sublimazione nel corpo che Freud nel testo alla nostra attenzione aveva descritto in questi termini: «quando l’Io assume i tratti dell’oggetto si autoimpone per così dire all’Es come oggetto d’amore» e «cerca di risarcirlo della perdita subita dicendogli: “Vedi, puoi amare anche me che sono così simile all’oggetto. La trasformazione che qui ha luogo da libido oggettuale in libido narcisistica implica ovviamente una rinuncia alle mete sessuali, una desessualizzazione, e quindi una specie di sublimazione» (OSF, 9, pp. 492-493).

 

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