L’autismo è un costrutto eterogeneo che è stato oggetto di accesi dibattiti; è attualmente un campo in cui la ricerca è in grande espansione. Proviamo a tessere alcuni fili del dibattito relativi alle conoscenze sul disturbo, ad alcuni passi falsi nella sua comprensione, facendo riferimento ai modelli di intervento, insieme al dottor Barale, professore di Psichiatria dell’Università di Pavia e psicoanalista didatta della Società Psicoanalitica Italiana.
"mare mare" di Laura Federici
Mi piacerebbe dialogare con Lei sul tema dell’autismo, conoscendo la sua lunga esperienza, particolarmente preziosa poiché tiene in dialogo da una parte una profonda conoscenza dell’autismo e dall’altra la sua formazione analitica. Da anni lavoro in un centro di riabilitazione convenzionato con la regione Lazio dove mi occupo soprattutto di bambini con Disturbo dello spettro dell’autismo, e ho la sensazione che tanto interesse in questo ambito non corrisponda ad altrettanta chiarezza, soprattutto rispetto agli interventi più appropriati, e che si finisca per trattare questo disturbo in modo ‘autistico’, separando funzioni e aspetti, invece che tener conto della complessità del funzionamento autistico (integrando una dimensione affettiva, relazionale, neurobiologica) e della rete intorno ad una persona con autismo (genitori, fratelli, compagni di scuola). Cosa ne pensa?
Mi sembra una interessante osservazione. Dopo l’abbandono della ipotesi kanneriana di un deficit innato nel “contatto affettivo”, uno dei principali modelli del funzionamento della “mente autistica” sviluppati negli scorsi decenni è stato (accanto, per limitarmi ai più noti, a quello cognitivista del “deficit di teoria della mente” e a quello neuropsicologico del difetto nelle “funzioni esecutive”) quello della difficoltà di “coerenza centrale”. Lasciando da parte tutte le complesse questioni cui questo costrutto storicamente rimanda in psicopatologia, non c’è dubbio che il modo attuale, spesso rudimentale e settario, di confrontarsi con l’esperienza delle persone con autismo difetti in molti casi clamorosamente proprio di “coerenza centrale”. Da questo punto di vista, come lei dice, è in un certo senso un modo “autistico”, che tratta la dimensione comportamentale, quella neurobiologica, quella assistenziale, quella della rete delle relazioni reali in cui il soggetto autistico è inserito, il suo mondo affettivo e il suo mondo “interno” (le persone con autismo avranno pure esse un loro mondo interno, o no?) come se fossero dimensioni irrelate. Dunque sono d’accordo con lei. Ma tutte questo è il triste riflesso di un problema generale che non è limitato solo alla questione dell’autismo, ma che investe globalmente la psichiatria: la divaricazione tra il crescere delle conoscenze di base e una certa regressione culturale, che da tempo sembra aver fatto smarrire alla psichiatria i rapporti con la sua antica vocazione antropologica, col suo rivolgersi innanzitutto alla persona ed alla soggettività di cui è portatrice, anche se “alterata”. Per essere autocritici, bisogna dire che anche la psicoanalisi ci ha messo del suo in questa deriva, smarrendo a sua volta il raccordo con lo sviluppo complessivo delle conoscenze scientifiche, scambiando i suoi preziosi strumenti di comprensione del senso dei fenomeni affettivo-mentali per spiegazioni etiologiche, attardandosi in concezioni “psicogenetiste” improponibili…
Ma partiamo da una definizione di questo disturbo: come descriverebbe sinteticamente l’autismo, facendo riferimento alle conoscenze che con il tempo si sono via via accumulate?
Descrivere “sinteticamente” l’autismo è sinceramente impossibile. Si tratta di uno dei campi in cui la ricerca (a partire da quelle sulle basi biologiche) è in maggiore e più rapida espansione. Proprio questa straordinaria espansione, cui fa capo la convinzione della enorme eterogeneità del costrutto e dei suoi percorsi etiopatogenetici e patoplastici, rende sempre più difficile una definizione “semplice”. Tant’è che l’esistenza stessa del costrutto è stata messa in discussione e comunque si tende oramai almeno a parlare di “autismi” al plurale. Ma se, nonostante tutto ciò, continuiamo a usare questo termine, non è solo per inerzia: vuol dire che intuiamo che qualcosa pur c’ è, che accomuna condizioni anche assai diverse. Dunque non sfuggirò alla sua domanda. Userò, per rispondere, le definizioni che, assieme ad alcuni collaboratori (tra parentesi, tutti anche psicoanalisti o quasi-psicoanalisti o ex-psicoanalisti: D. Broglia, G. De Vidovich e S. Ucelli di Nemi) abbiamo messo all’inizio di un recente capitolo scritto per il The Oxford Handbook of Phenomenological Psychopathology: The Life-World of Persons with Autism (Oxford University Press, 2019).
“L’autismo è un disturbo generalizzato dello sviluppo che si presenta precocemente nel corso della vita, dovuto a una alterazione dei fondamenti neurobiologici dell’intercorporeità e dell’intersoggettività. Nell’autismo, il ruolo dei fattori biologici, da tempo dimostrato, è evidente già nei primi stadi dello sviluppo e ha un impatto diretto sulla costruzione dell’esperienza complessiva. Le relazioni interpersonali e l’apprendimento basale delle competenze sociali sono drammaticamente ostacolate fin dai loro precursori. Ciò nonostante, le persone con autismo sviluppano, fin dall’inizio, un loro modo di sperimentare e organizzare il mondo, con tratti peculiari financo dal punto di vista sensoriale e percettivo.
In generale, l’autismo può essere dunque definito come una forma di esistenza atipica che si sviluppa a partire da una difficoltà in quei pre-requisiti biologici che negli sviluppi “tipici” consentono invece uno spontaneo “attunement” col caregiver e in generale con l’ambiente umano, sostengono i processi di “simulazione incarnata”, lo sviluppo e l’assorbimento (inizialmente mimetico) di significati, codici impliciti, ruoli: una forma di esistenza che si dipana, invece, per usare un linguaggio fenomenologico, da una fragile o assente “evidenza naturale del sé, delle relazioni interumane e del mondo” . Malgrado tutte queste difficoltà (che la ricerca ha peraltro ampiamente descritto) un “mondo” sensoriale, affettivo, interpersonale, comunque si sviluppa, sebbene con particolarissime caratteristiche; un mondo spesso difficile da raggiungere, altrettanto quanto è difficile raggiungere il “nostro” mondo per questi “antropolologi su Marte” che sono le persone autistiche (la definizione, ripresa da Oliver Sacks, come è noto, è di Temple Grandin); ma che si tratta innanzi tutto di comprendere, se vogliamo entrare in relazione con loro e costruire contesti adeguati per la loro cura. Con una battuta: l’autismo non è una “fortezza vuota” (Bettelheim 1967), ma una “debolezza piena” (Barale e Ucelli 2006).”
Dopo aver delineato in quel capitolo le caratteristiche generali di quei particolari “mondi”, così concludevamo: “In ogni caso, il mondo autistico, pur nella straordinaria eterogeneità delle sue forme, non è mai comunque concepibile semplicemente in termini di ‘deficit’. Nessuna delle caratteristiche descritte si presta a una definizione “tutto o nulla”, “presenza o assenza” di questa o di quella “funzione”, sia essa cognitiva, linguistica o affettiva (Lord e McGee 2001). Anche lo sviluppo delle capacità imitative, per fare un esempio di un filone importante di studio, non è mai totalmente assente; piuttosto è “atipico”. Ma una simile considerazione può essere fatta per innumerevoli altri aspetti: la comunicazione delle emozioni, ad esempio; o la “socialità”, che è tutt’altro che semplicemente ‘assente’ (l’ipotesi kanneriana dell’innato deficit di ‘legame affettivo’…): sono stati infatti messi in evidenza infiniti segni di una atipica socialità e della presenza di un “bisogno di socialità” che, nei suoi goffi tentativi, è per questi “antropologi su Marte” spesso fonte di grande sofferenza (per la radicale frustrazione che comporta) e relativo evitamento difensivo…. Ma persino il riconoscimento del “perché” delle sequenze intenzionali (altro tema importante, su cui tanta letteratura scientifica recentemente si è spesa), la difficoltà a formulare “forward models” (modelli anticipatori) dell’esperienza, non sono mai staticamente e definitivamente assenti; anche questi aspetti sono sensibili a una intensa pratica di condivisione (Boria, Rizzolatti e al 2009); soprattutto se condotta in contesti, come si diceva all’inizio, che non si arrendono alla mancanza di “coerenza centrale” e continuano a cercare di non separare, ma appunto di integrare, comportamento, cognizione, mondo affettivo, mondo relazionale…
Insieme alla conoscenza del disturbo e della sua ampia variabilità, sono cambiati nel tempo anche i modelli di intervento. C’è un ampio dibattito sul confronto tra modelli diversi (cosa che disorienta molto i genitori). Cosa può dirci sulla base della sua esperienza rispetto al trattamento o meglio ai diversi trattamenti possibili?
E quali informazioni abbiamo rispetto agli studi di efficacia? Spesso passa l’idea che ci sia un unico intervento riconosciuto come efficace. Mentre la situazione credo sia più articolata, e sarebbe importante pensare a interventi specifici in relazione a ciascuna situazione e alla particolare fase evolutiva, uscendo da irrigidimenti di ‘scuola’.
Purtroppo il dibattito sui “modelli” di intervento, una volta smarrita appunto un’ottica “complessiva”, si è inoltrato sul terreno di una triste povertà concettuale; rischia di diventare una vera batracomiomachia, accanitamente combattuta peraltro su basi di “evidenze” fragilissime. A tutt’oggi, malgrado quanto ripetutamente (e infondatamente) viene affermato, non esiste alcun intervento particolare e specifico che possa vantare di essere “l’intervento” principe “efficace” per l’autismo “in generale” (in tutti i casi e in tutti i contesti). Certo, la “cassetta degli attrezzi” di chi si occupa di queste situazioni così complesse e spesso così drammatiche dovrebbe essere la più larga possibile e sarebbe assai buona cosa che il clinico che si cimenta con queste situazioni riuscisse a integrare le conoscenze che provengono da diverse tradizioni culturali, in un’ottica appunto “complessiva” e di “ecologia della mente umana”. Ma ci sono molte cose che ostacolano quel buon senso e quella flessibilità clinici a cui lei nelle sue domande fa riferimento: gli irrigidimenti di scuola, certo, ma anche ragioni di business, che fanno ampiamente leva sulla disperazione delle famiglie, alla ricerca angosciata di soluzioni, certezze, “spiegazioni” semplici, protocolli…
Ci può raccontare qualcosa dell’esperienza di Cascina Rossago? Penso che questa esperienza possa offrire spunti molto interessanti che potrebbero essere esportati anche in altri servizi. In particolare penso all’importanza del principio ecologico e del fare assieme (aspetti tanto trascurati in molti interventi proposti poco attenti a sostenere l’uso delle competenze nei contesti di vita del bambino) e più in generale penso al contributo che la psicoanalisi può dare nel pensare al lavoro con persone con autismo.
Cascina Rossago non è una esperienza descrivibile in poche righe. Ricordo che, a grandi linee, è una fattoria sociale pensata per ex bambini autistici, cioè per adulti con autismo (i bambini autistici diventano, da grandi, adulti autistici) che ha cominciato a funzionare nel 2002. Il modello inizialmente trasse ispirazione dalle “farm community” per persone con autismo, che nacquero e ebbero una certa diffusione, a partire dagli anni ’80 in diversi paesi. Esperienze spesso (non sempre) con una forte impronta “anti-istituzionale”, che studiammo e, in alcuni casi, visitammo (Of Meyerwiede in Germania, Bittersweet Farm in Ohio, Carolina living and learning Center in North Carolina). In quel modello convergevano almeno due istanze: quella “anti-istituzionale”, appunto (creare non “istituti” o luoghi di “intrattenimento”, ma, all’opposto, luoghi di vita vera, dove fosse possibile l’espressione della propria umanità), e quella, con una forte impronta di “ecologia della mente”, di individuare contesti che avessero il più possibile quelle caratteristiche che tutta una letteratura in quegli anni stava indicando come “buoni contesti” per la vita di persone con autismo (sulla base di quanto si veniva intanto a conoscere sulle caratteristiche generali di funzionamento della mente autistica): contesti dunque ricchi di esperienze significative, ma contemporaneamente stabili, ordinati, relativamente prevedibili (la questione dei “forward models” ); i contesti rurali si prestavano bene a realizzare “contesti” simili: non luoghi chiusi bensì aperti al territorio per una fitta serie di scambi, ma contemporaneamente ordinati, coerenti, governati dal ritmo delle stagioni. Contesti nei quali era possibile offrire un arco esteso di attività significative adatte sia a persone con alto che con basso funzionamento; attività tutte comunque pensate non esercizi abilitativi “astratti”, ma come attività reali, con un senso riconoscibile, che avevano a che fare con la vita vera della comunità. Non “pet therapy”, dunque, ma allevamento di animali (a Cascina Rossago esiste un allevamento di alpaca, la cui lana alimenta a sua volta un laboratorio di tessitura). Non orto-terapia, ma coltivazione di campi e frutteti. Ricordo sempre, a proposito, di questa impostazione “ecologica” la celebre battuta di E. Schopler a un giornalista in visita. Giornalista: “ah prof. Schopler, vedo che avete anche cavalli! Quindi qui fate anche ippoterapia?”. Prof. Schopler: “ippoterapia? Ma no, e perché mai?! I nostri cavalli stanno benissimo”.
Per la riflessione teorico-clinica che è stata al fondamento di Cascina Rossago (che credo abbia un qualche valore generale al di là dello specifico target di età), ma anche per il suo funzionamento pratico e per la vita quotidiana che vi si svolge, rimando, se qualcuno fosse interessato, alle pagine ad essa dedicate nel nostro (Barale e Ucelli) capitolo ‘La debolezza piena’ nel libro a più voci (S. Mistura, F. Barale, S, Ucelli, V. Gallese e A. Ballerini) ‘Autismo. L’umanità nascosta’ (Einaudi, 2006). La sfida era proprio quella di coniugare una sensibilità e una attenzione, di matrice psicoanalitica al mondo degli affetti, delle relazioni, dell’esperienza soggettiva (del resto che “vita vera” ci sarebbe, senza una attenzione a tutto questo?) facendo nello stesso tempo tesoro delle conoscenze recenti sull’ autismo (comprese quelle sugli aspetti neuropsicologici, cognitivi, comportamentali…). Lei ha ricordato due dei “principi” di funzionamento del contesto abilitativo che abbiamo cercato di realizzare: il “principio ecologico” (ogni intervento, come già detto, deve essere coerente con l’insieme della “vita” della persona e della comunità) e il “fare assieme”, che a sua volta ha alle sue spalle tutta una riflessione sullo sviluppo dell’intersoggettività e dell’intenzionalità che qui certo non posso riassumere, ma che mira proprio allo sviluppo di una esperienza condivisa (riassumibile, con il motto “from shared actions to shared minds”, che abbiamo ripreso da un importante studioso dell’intersoggettività primaria e dei fenomeni di imitazione precoce, Andrew Meltzoff).
Per fare un esempio (spero non troppo provocatorio o “scandaloso” per degli psicoanalisti) di come in quell’ottica complessiva si cercasse di integrare tutto ciò che di buono si poteva ricavare da apporti e tradizioni diverse, anche tutta una serie di “tecniche” comportamentistiche venivano utilizzate, come ad esempio “l’analisi funzionale dei comportamenti problema”; ma essa, nell’ottica in cui ci muovevamo, smarriva il suo mero aspetto “protocollare e correttivo” per diventare il punto di una riflessione collettiva attraverso la quale si sviluppava un pensiero di gruppo e prendeva forma un contenitore gruppale innanzi tutto affettivo (che consentiva, a sua volta, anche un continuo aggiustamento di tiro e, se vogliamo, anche una correzione degli aspetti disfunzionali di interventi, dinamiche di comunità ecc.)
In sostanza, credo che l’esperienza di Cascina Rossago abbia dimostrato nei fatti, almeno per alcuni anni, che quell’integrazione è possibile e può essere fruttuosa.
Ma tornerei un attimo indietro: quella integrazione diventa possibile se ci si rende innanzi tutto davvero conto che pensare i mondi autistici come un semplice insieme di deficit o comportamenti da correggere, secreti da cervelli disfunzionali, è un errore simmetrico e altrettanto pernicioso di quello tante volte rimproverato alla psicoanalisi (spesso a torto, talvolta con qualche ragione…) di rimanere aggrappati a una idea “psicogenetista” dell’autismo (francamente anacronistica, di fronte a tutto quanto ora sappiamo, non solo nella sua antica versione dei “genitori frigorifero” ma anche in versioni successive solo apparentemente più “aggiornate”, dei cui residui ci si augura che la psicoanalisi si sbarazzi finalmente il più presto possibile).
Infine, un aspetto interessante messo in luce dall’esperienza di Cascina Rossago è la discrepanza tra i modelli di comprensione dell’autismo elaborati astrattamente “in laboratorio” o in situazioni standardizzate e quanto si osserva nella vita reale, vivendo in contesti “ecologici” con persone autistiche. In molti oramai sottolineano la necessità di estendere osservazioni e interventi a contesti sempre più naturalistici. Ad esempio, le strategie artificiali adottate in laboratorio per aumentare le capacità sociali degli high- functioniong raramente sono efficaci poi in contesti “naturali”. Ma, a proposito di contesti naturalistici, c’ è una cosa ancora più interessante sulla quale vorrei concludere: in contesti naturali e contemporaneamente “autistic friendly” -che cioè considerano e rispettano i bisogni e le specifiche modalità di funzionamento della mente autistica- si possono osservare non solo quegli “isolotti di capacità” descritti fin dai tempi di Kanner, ma anche “sorprendenti” oscillazioni nelle stesse disabilità, talvolta con la comparsa di inaspettate abilità. Come ebbe a rimarcare oramai tanti anni fa una celebre studiosa dell’autismo, Uta Frith (1989), nell’autismo non c’è nulla di statico né di globale. L’autismo, come si è detto, non è mai un “puro deficit”, ma uno sviluppo atipico, nella quale tutti gli ingredienti dell’umano sono a modo loro presenti, sia pure in combinazioni spesso anche gravemente disfunzionali per la vita cosiddetta “normale”. In questa peculiare forma di esistenza, nella quale nulla appunto è totalmente difettuale (ma in parte anche lo è: guai ad esempio a commettere ingenuità come quella di pensare che il complesso disturbo del linguaggio presente nell’autismo sia qualcosa di “psicogeno” o “difensivo”), anche la difficoltà nell’intersoggettività e nel percepire e sperimentare “l’altro” non è mai totale e definitiva. E ciò ha importanti implicazioni.
Ballerini, A, Barale, F, Gallese, V, Ucelli, S (2006) ‘Autismo. L’umanità nascosta’. Einaudi.
Broglia, G. De Vidovich e S. Ucelli di Nemi (2019) ‘The Oxford Handbook of Phenomenological Psychopathology: The Life-World of Persons with Autism’. Oxford University Press.