Attualità e nuove sofferenze

Eroina! “Così si costruisce il drogato” - intervista a Vanessa Roghi – di C. Buocristiani e T. Romani

L’autrice di “Eroina” racconta la dimensione politica di quelle che chiamiamo dipendenze


Eroina! “Così si costruisce il drogato” - intervista a Vanessa Roghi – di C. Buocristiani e T. Romani

Proprio quando pensavamo di aver liberato il “matto”, senza accorgercene, probabilmente senza volerlo, abbiamo cominciato a creare un nuovo luogo di proiezione per il “reietto”. Questo luogo si chiama “drogato”.

“Nel 1978, con la legge Basaglia chiudono i manicomi. Ma negli stessi anni, ironia della sorte, aprono le comunità terapeutiche, magari con l’intenzione del nascente Sistema sanitario nazionale di tutelare il diritto alla salute di chi, il tossicodipendente, viene riconosciuto dalla legge come malato. Certo c’è una politica di riduzione del danno e di parziale depenalizzazione del consumo. Ma poi, negli anni, per come sono andate le cose e con l’avvento dell’Aids, le comunità terapeutiche sono diventate nuovi luoghi di reclusione”. Così Vanessa Roghi, storica, documentarista e autrice di programmi culturali ci risponde sul suo ultimo testo, Eroina (Mondadori, 2023).

Eroina è un libro che mette al centro il lavoro di costante costruzione di uno sfondo invisibile, niente affatto neutro ma tessuto da dinamiche politiche e sociali, svolto per attribuire senso ai fenomeni. In questo caso alla droga e alla figura del tossico in Italia. Importante la sua citazione di Emile Durkheim, padre delle discipline sociali: “Non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un reato. Ma è un reato perché lo biasimiamo”.

Un destino, quello delle persone che finiscono per abusare di droga, messo in forma da interessi il più delle volte estranei rispetto del diritto alla tutela della salute dei singoli.

C’è un esempio eclatante (ma è solo uno di tanti) che troviamo nel libro: a stabilire le condizioni per le modalità di “lotta alla droga” in Italia è il bisogno degli Usa di raffigurare l’Italia come il principale snodo internazionale per lo smercio degli oppiacei, così da confermare la narrativa secondo cui il nemico l’America ce l’ho sempre all’esterno. Qui sono addirittura gli equilibri internazionali ad aver influenzato l’impianto normativo, le misure sanitarie e detentive, le collusioni e le lotte alla criminalità organizzata del nostro Paese.

In Eroina si trovano storie scritte nei corpi ed esistenze, come quella di Valentina, che sembrano cicatrici di una società incapace di prestare ascolto e fornire supporto. Si possono anche leggere testimonianze preziose, come quella di Ernesto De Bernardinis responsabile del Sert di Lentini e farmacologo, che con semplicità osserva: “Diventa dipendente chi trova nella sostanza una risposta stabile a una domanda che già esiste”. E poi specifica che si sta trattando di domande che sono correnti affettive vorticose e impensabili e non cognitivamente definite. Ma che le questioni a cui rispondono emotivamente le droghe sono: “Come sto?” (Eroina), “Io chi sono?” (Cocaina) e “Cosa c’è qui?” (Psichedelici). Una sintesi che da sola basta per rimandare a tutta l’Archeologia della mente e alle neuroscienze affettive di Jaak Paksepp.

Vanessa Roghi ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande.

Le Leggi dello Stato, ma anche le classificazioni nosografiche della psichiatria, sono “affetti” e in certo senso “effetti” della costruzione sociale e politica della droga. Ad esempio, decidere di considerare reato qualunque uso di sostanze…

“Il problema sta nella parola reato, ma anche nella parola diagnosi. Nel senso che in un contesto non proibizionista ci sono persone che soffrono e persone che hanno diritto alla tutela della loro salute; ma ci sono anche persone che scelgono liberamente di usare una sostanza. Il nostro sistema negli anni Settanta era molto più civile di quello tedesco, ma poi è mancato tutto lo step successivo, cioè cambiare la cultura degli addetti alla cura. Non ci si è curati di chi lavora a contatto con la tossicodipendenza. Negli anni Ottanta il gruppo di operatori che si formava si prese carico della questione culturale. Poi però la maggior parte degli operatori hanno cominciato a subire la riforma…”

Viene fatto pagare ai “pazienti” il prezzo di quella che è avvertita come una passivizzazione da parte del sistema?

Non vieni a prendere il metadone, te lo meriti di morire. In Italia si voleva fare una grande riforma, cambiare la formazione del personale medico e infermieristico, ma non ci si è riusciti. Dal Novanta, inoltre, il “nuovo proibizionismo” è tornato paradigma delle leggi dello Stato. Qui un passo indietro ulteriore di tutto lo Stato sociale”. 

Come si affronta la tossicodipendenza?

“In un solo modo, con il diritto alla salute per tutti. Quindi con la consapevolezza che il tossicodipendente è un soggetto di diritto e queste persone per prime devono pretendere una qualità di cura. Poi ci sono interventi che funzionano ma non sono sistematici, sono sporadici. In alcune regioni ci sono situazioni aberranti di gestione della tossicodipendenza patologica, questo ha molto a che fare con la privatizzazione della sanità pubblica.

La società ha bisogno di depositare sempre dentro qualcuno tutto il negativo. I drogati con la siringa sono gli zombie che le mamme usavano per i bambini anni Ottanta. Oggi c’è qualcosa di simile?

“Mi sembra di no. Anche se con dieci anni di governo di destra non è detto che non si ricrei un “uomo nero”. Ma per ora no. Per due motivi. I ragazzi di oggi sono meno infinocchiabili, hanno più contatti con il mondo. Il loro sguardo ha più contatti con il mondo. Non gli puoi più dire che se ti droghi sei un mostro, se sei frocio sei un mostro, se sei diverso sei un mostro. Perché frequentano la diversità la vivono. Esempio: quando una persona vicina alla mia famiglia mi ha detto che voleva fare una transizione di genere ci ho messo un po’ di tempo a capire cosa volesse dire. I miei figli hanno capito subito di cosa si trattasse”.

C’è una molteplicità che frequentano di più e non c’è una politica di guerra a qualcuno. Un’adolescenza ai margini, che incrociasse la “devianza” e l’uso di sostanze negli anni Ottanta causava un forte stigma, oggi come è cambiato?

“Oggi il problema non è più lo stigma, quanto la consapevolezza di avere dei diritti. Come per le donne, il diritto alla salute, la tutela del proprio corpo, l’aborto… oggi le persone non sanno di essere soggetti di diritto. I ragazzini non sanno che ci sono cose che non possono essere loro fatte. Ad esempio che se si sentono male perché hanno assunto droghe vengono buttati fuori dai locali, magari dove si spaccia. E non sanno di avere il diritto che si presti loro assistenza”.

In “Piccola Città” e in “Eroina” racconti che l’interesse per questo tipo di studi nasce dalla tua storia, da un padre tossicodipendente. In questi casi il trauma, per un figlio, può avere effetti disorganizzanti. Molti adolescenti in queste stesse situazioni poi sono entrati nella droga. Non sono riusciti a farne un libro. Viene da chiedersi invece cosa, nel tuo caso, ti abbia salvato…

“Il contatto con la quotidianità normale di mia nonna, che si è sempre occupata di me. Facendomi il letto, chiedendomi cosa volessi per pranzo e per cena. E poi mia madre e mio padre, che mi hanno protetto dal vivere la sua esperienza in modo diretto. L’ho visto, ma ero già grande. E poi il grande sparti acque è stata la scuola a tempo pieno. Entravi ed eri salvo, qualunque fosse la tua posizione di provenienza eri salvo. Perché mi ha dato tanti strumenti intellettuali e affettivi. Tempo che ci passavo dentro. Forse sembra una risposta banale…”

Ma per niente. Stiamo dicendo che è l’Altro come sistema sociale che può fare la differenza e il modo in cui ci sta vicino e si relaziona a noi…

“Non è un caso che mi occupi di storia dell’educazione e di storia della tossicodipendenza. Faccio un esempio. Quando ho scritto Piccola città andai a presentarlo nelle scuole. Un ragazzo era stato distratto tutto il tempo che parlavo scrivendo al cellulare. A un certo punto dico: la differenza la fa se pensi di doverti prendere cura dei tuoi genitori o viceversa. Da ragazzina passavo tutto il tempo prima di addormentarmi pensando a cosa avrei potuto fare per i miei genitori se avessi vinto un sacco di soldi. Il ragazzo distratto si è svegliato e ha commentato: “Non lo dire a me! È quello che mi succede con mia madre da quando sono nato”.

La differenza la fa una persona che sa parlarti e sa ascoltarti…il ragazzino avrà pensato “questa mi capisce e mi riconosce”.

“Di questi temi a scuola difficilmente si parla, un po’ per vergogna, un po’ per pudore. Io penso che serva uno spazio di condivisione di queste cose. Non esistono contesti in cui ci si può mettere insieme e parlare di questo tipo di questione. Non è parlarne con uno specialista, che sarebbe già istituzionalizzare. Ma condividere e rendere la questione politica”.

Manca il gruppo e la comunità.

“Sì, ma non la comunità terapeutica! La comunità politica e di ascolto".



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