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Génie la matta (Génie la folle, Denoêl 1976), Inés Cagnati, Adelphi 2022 Recensione di Riccardo Cocchi

"La storia di un amore, lancinante e assoluto, di una figlia, Marie, nata da uno stupro, per la madre, Eugénie detta Génie, che, ripudiata dalla famiglia e respinta dalla comunità dopo che ha generato una bastarda, si è murata nel silenzio e nella lontananza. Una madre che sa dirle soltanto: <<Non starmi sempre tra i piedi>> [...] Ma l'amore di Marie è impavido, indefettibile - va oltre il tempo. Con una scrittura di assoluto nitore, laconica e bruciante, a tratti intensamente lirica, Cagnati ci racconta una vicenda in cui, sullo sfondo di una terra aspra e inclemente, si intrecciano brutalità e tenerezza, strazio e rancore, lutto e incantamento, riuscendo a raggiungere un'essenzialità trasognata che sembra dissolvere la tragicità degli eventi."


Génie la matta (Génie la folle, Denoêl 1976), Inés Cagnati, Adelphi 2022     Recensione di Riccardo Cocchi

«Quando le davano indumenti della mia misura e in buono stato li portavo così com’erano. Sapevo chi li aveva messi. Mi sembrava di diventare gli altri. In quei giorni, a scuola, non aprivo bocca.».

Forse è a partire da questo pensiero di Marie la bastarda che si può entrare nelle geometrie affettive di Génie la matta (Génie la folle), di Inès Cagnati.

Non i Rougon-Maquart di Zola. Non Cosette e Fantine de I Miserabili. Non Annie Ernaux.

C’è la paura di un perdersi come tratto destinale, il terrore senza nome dell’abbandono. In tutto questo, l’orrore della miseria dei diseredati, dei persi al mondo sociale.

Con la sensazione che nulla può essere modificato. Anzi. Che ogni speranza riposta in un cambiamento è inane, che ogni accadimento non sarà altro che un evento fatale teso a riattualizzare ogni volta – ed ogni volta sempre peggio – quanto già presente fin dal principio.

“La continua paura di essere abbandonata dalla madre, che perseguita Marie la bastarda, l’amore immenso e straziante che si scontra con la muraglia della crudeltà o dell’indifferenza: è questo il destino del bambino in una società di adulti?” si chiede, e chiede la poetessa e scrittrice Laurence Paton all’Autrice nell’intervista che segue la storia di Génie e Marie.

Il bambino. Soggetto assurto a dignità personale e sociale dell’umano soltanto come invenzione recente, per lungo tempo mera espressione dell’esistere (di zoe, mai di bios) tra la nascita e l’età adulta.

There is no such thing as a baby, there is a baby and someone” – così per Donald Winnicott.

Il bambino. Ecco. Se non c’è quel “a baby and someone”, il rischio è di essere nessuno. Un nessuno intercambiabile, facilmente confondibile con  i vestiti smessi di un qualunque altro, a rischio di non esserCi. E, anche, l’urgenza feroce e camaleontica di poter finalmente essere qualcun altro. Un qualunque altro, purché qualcuno, pur di sfuggire a tanta violenza, all’orrore di tanta miseria.

La Rochelle estrema. Purché ci si possa salvare.

La trama si dipana lungo un’algebra delle corresponsioni mancate, in cui le incognite del maschile e del femminile, con le loro assenze ed i loro ritorni, si fanno di volta in volta feritoie, ferite e cicatrici.

Di fondo, una domanda d’amore infinita, che mai trova risposta, se non in altri tempi, in altri luoghi, incorniciata dalle spine di una follia crocifissa prima dal sociale e poi nell’interrelazionale.

L’intrapsichico soccombe al lutto, alla perdita senza nome adombrata in quel vino – già fato – che si insinua, con quegli altri liquidi dell’ambiente umano (lacrime, sudore, acqua), fino allo strapiombo cieco di un pozzo senza vera.

“Non si deve riassumere Génie la matta”

Non si può, soprattutto. L’architrave è prosa ridotta all’osso di quei frammenti di un discorso amoroso senza sincrono, fuori fuoco, sovraesposto ai colori post-impressionistici di una certa Francia (rurale, e senza tempo) che bruciano in fretta, lasciando grigio e vizzo l’intergenerazionale per il troppo transgenerazionale da cui guardarsi.

Il bambino. La bambina.

Marie, che insegue la madre, in perenne ricerca di risposte alla sua eterna domanda di amore e di attenzione. È una corresponsione mancata che si accontenta degli spigoli, degli spiragli, della penuria. Gli imperativi sussurrati, reiterati, esausti sono un soffio lieve e reciso, la carezza ruvida di un soggiuntivo in cui il tu è eluso proprio perché sempre implicitamente presente.

«Ahimè», sembra dire Génie.

«Hai me», le risponde la figlia.

Aimée, potrebbe essere la password, se ci si fermasse ai grafemi delle vocali.

Ruah del femminile a confronto con sfaccettature di un maschile che o si dà incompleto e mutilo, o violento e mutilante. Capace di cose insopportabili, perimetrato da coordinate sociali che assoggettano il femminino a quel “sorvegliare e punire”, in attesa di quel “quando tutte le donne del mondo” che ancora non è dato.

Il maschile è un fuoriscena che irrompe all’improvviso. Ed all’improvviso sparisce nel nulla. Senza vigne che sfiorano il cielo, senza dolci isole profumate di azzurro, senza dolci terre in riva all’oceano errante, senza pieno di sole.

Alla ricerca di ciclamini selvatici che crescono in riva ai ruscelli nei boschi di acacie, e noi li cerchiamo, e ci perdiamo, e li troviamo.



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