L'urbanistica di genere, come proposta da Azzurra Muzzonigro e Florencia Andreola, si concentra sull'analisi e la progettazione degli spazi urbani che possano tener conto delle diverse esigenze ed esperienze di genere. Questo approccio analizza i limiti e le differenze presenti nell’utilizzo degli spazi pubblici, cercando di promuovere la ricerca per la pianificazione di città più inclusive e accessibili, favorenti il benessere di tutti i cittadini. Luoghi in cui ciascuno possa sentirsi rappresentato e al sicuro. All’interno delle riflessioni sulla necessità di promuovere e recuperare spazi di pensiero e di cura delle dinamiche relazionali sofferenti e patogene, ci è sembrato interessante confrontarci con chi si occupa di indagare quali rappresentazioni socio-culturali e quali limiti urbanistici siano presenti intorno alla accessibilità degli spazi e dei servizi di una comunità. Fare ricerca e mantenere vivo il dialogo su questo può contribuire a ridurre l’isolamento, psichico e abitativo, in situazioni dolorose.
Nel lavoro di ricerca e riflessione sulle componenti qualitative degli spazi urbani, e di vita in genere, viene proposta un’ottica di urbanistica di genere. Un piano di indagine scarsamente rappresentato?
L’urbanistica di genere è ancora un approccio poco rappresentato nella progettazione e nella ricerca urbana, nonostante esista da decenni un corpus di studi e pratiche che dimostrano come gli spazi urbani non siano neutri, ma modellati su un modello maschile di utilizzo. Storicamente, l’urbanistica si è concentrata sulle esigenze del lavoro produttivo, trascurando le attività di cura, il tempo libero e i percorsi quotidiani delle donne e delle minoranze di genere.
Oggi c’è una crescente consapevolezza dell'importanza di integrare una prospettiva di genere nella pianificazione urbana, ma rimane un approccio spesso marginale, relegato a progetti sperimentali o a iniziative locali piuttosto che a politiche strutturali e normative. L’assenza di dati disaggregati per genere, il pregiudizio di neutralità degli spazi e la resistenza culturale a riconoscere il legame tra urbanistica e disuguaglianze di genere sono alcuni degli ostacoli principali.
Attraverso la ricerca e la mappatura, cerchiamo di rendere visibili queste criticità e di proporre strumenti concreti affinché le amministrazioni possano progettare città più accoglienti e sicure, in grado di rispondere alle esigenze di chi le abita davvero, senza esclusioni.
Sex & the City, associazione di promozione sociale fondata nel 2022, promuove una riflessione e una ricerca continua sulle possibilità di integrare il genere nelle politiche di amministrazione e pianificazione urbana. nel vostro percorso professionale e personale quali sono state le spinte culturali che hanno portato poi alla fondazione di S&tC?
La spinta a fondare Sex & the City è nata dall’esigenza di colmare un vuoto nella riflessione sulla città e sull'urbanistica in Italia. Da anni ci occupiamo di ricerca urbana e abbiamo riscontrato come il genere fosse spesso trascurato nei processi di pianificazione, nonostante abbia un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone.
Un'importante influenza è arrivata dagli studi femministi e di urbanistica di genere, in particolare dalle esperienze di città come Vienna, che hanno dimostrato come politiche urbane attente alle esigenze di donne e minoranze di genere possano migliorare la qualità della vita per tuttə. Allo stesso tempo, il nostro percorso è stato segnato dall’incontro con realtà di ricerca e attivismo che si occupano di questi temi a livello internazionale, così come dalle storie quotidiane di chi vive la città in modo precario, insicuro o limitato.
La volontà di trasformare questa consapevolezza in azione ci ha portate a fondare Sex & the City: un progetto che unisce ricerca, divulgazione e azione concreta per portare il genere al centro delle politiche urbane e offrire strumenti alle amministrazioni per progettare spazi più equi, sicuri e accessibili.
Nel testo Libere, non coraggiose. Le donne e la paura nello spazio pubblico (Andreola & Muzzonigro, 2024) vengono presentati, accanto a progetti Internazionali, gli esiti della ricerca che Sex & the City ha condotto su commissione del Comune di Milano, indagando il tema della paura e della sicurezza percepita nello spazio pubblico da parte delle donne. prendendo in prestito la definizione della Butler di donne come "coalizione aperta" (Butler, 1999) utilizzata anche nel vostro lavoro, quali sono perciò i soggetti delle vostre ricerche?
Nel nostro lavoro adottiamo una prospettiva intersezionale, riconoscendo che il genere non è un’identità fissa e universale, ma una categoria che si intreccia con altri fattori come età, provenienza, classe sociale, abilità e orientamento sessuale. Proprio in questo senso ci ispiriamo alla definizione di coalizione aperta di Judith Butler: non esiste un’unica esperienza di essere donna, così come non esiste un’unica esperienza di attraversare la città.
Nei nostri progetti di ricerca, come quello sulla paura nello spazio pubblico condotto per il Comune di Milano e pubblicato in Libere, non coraggiose, abbiamo cercato di restituire le esperienze di soggetti diversi: donne di età e background differenti, persone non binarie, caregiver, lavoratrici notturne, giovani e anziane. L'obiettivo è far emergere una pluralità di vissuti, comprendendo come la percezione di sicurezza e la possibilità di muoversi liberamente nello spazio urbano cambino in base alle condizioni di ciascunə.
Questo approccio ci permette di costruire strumenti di analisi e progettazione urbana che non si limitano a un modello standardizzato di donna, ma che tengano conto delle molteplici esperienze e necessità di chi vive la città.
Paura e sicurezza nello spazio pubblico sono due macro-dimensioni sociali con importanti e profonde ricadute nell’intimità della vita di ognuno, nella vita sociale e individuale, definendo l’accessibilità implicita ai luoghi urbani, reali e cittadini ma credo anche a territori interni della vita psichica di ognuno di noi, iscritti nella storia generazionale e culturale di ciascuno. Credete sia possibile parlare di stratificazione di significati e derivati culturali che compongono quella che avete definito una “geografia della paura”? Quali dimensioni, anche paradossali, avete potuto osservare?
Sì, la paura nello spazio pubblico è un fenomeno stratificato, che intreccia dimensioni sociali, culturali, generazionali e psicologiche. Quando parliamo di geografia della paura - concetto introdotto da Gill Valentine nel 1989 - ci riferiamo a un sistema complesso di significati, pratiche e narrazioni che influenzano il modo in cui le persone abitano e attraversano la città.
Uno degli aspetti più evidenti è che la paura non è distribuita in modo uniforme: alcuni luoghi vengono percepiti come insicuri indipendentemente dai dati reali sulla criminalità, mentre altri, magari oggettivamente più pericolosi, non generano la stessa ansia collettiva. Questo ci dice che la paura non è solo una reazione individuale, ma una costruzione sociale, alimentata da discorsi mediatici, esperienze personali e memorie collettive.
Abbiamo anche osservato molte dimensioni paradossali. Ad esempio, la strategia di protezione attraverso la sorveglianza e l'iper-controllo può produrre l'effetto opposto, facendo sentire chi attraversa certi spazi ancora più vulnerabile. Oppure, luoghi progettati per essere sicuri – come sottopassi illuminati o piazze aperte – possono risultare percepiti come isolati e quindi evitati. Un altro paradosso è il carico della prevenzione individuale: alle donne viene insegnato a proteggersi con strategie personali (percorsi alternativi, chiavi in mano, chiamate finte al telefono) invece di interrogare il disegno stesso della città.
Questa stratificazione di significati e contraddizioni rende evidente che la sicurezza non può essere affrontata solo come un problema di ordine pubblico, ma deve diventare una questione di giustizia spaziale e progettazione urbana attenta ai corpi, ai tempi e ai bisogni delle persone.
Tra gli strumenti e le metodologie di ricerca utilizzate, sono state impiegate passeggiate esplorative, mappature della città ed esperienze gruppali. colpisce la similitudine con movimenti evolutivi che accompagnano gradualmente la crescita dei viventi. il movimento sembra essere un filo centrale di queste metodologie e in particolare il corpo che si muove e sperimenta. È possibile immaginare che nell’attivazione del corpo si possa sperimentare una riappropriazione, o forse incarnazione, di una sicurezza altrimenti limitata da barriere architettoniche e culturali? e che questo abbia un potente valore trasformativo?
Assolutamente sì. Il movimento e l’esperienza diretta del corpo nello spazio urbano sono centrali nelle nostre metodologie di ricerca, e crediamo fermamente nel loro valore trasformativo. Strumenti come le passeggiate esplorative e le mappature collettive non sono solo tecniche di analisi, ma veri e propri dispositivi di riappropriazione dello spazio.
Quando camminiamo insieme, osserviamo e condividiamo percezioni, il corpo diventa un archivio vivente di sensazioni, memorie e abitudini, ma anche di resistenze e possibilità. Attraverso queste esperienze, emergono barriere materiali – come l’illuminazione scarsa o la mancanza di percorsi accessibili – ma anche barriere culturali e interiorizzate, come l’abitudine a evitare certi luoghi o la paura automatica in determinate situazioni.
Attivare il corpo nello spazio pubblico, in modo consapevole e collettivo, significa anche mettere in discussione queste limitazioni, trasformando la percezione di vulnerabilità in una pratica di riappropriazione. In questo senso, camminare diventa un atto politico, un modo per ridefinire il rapporto con la città, sottraendolo a logiche di paura e controllo.
Questa dimensione esperienziale ha un impatto non solo individuale, ma anche collettivo: vedere altre persone muoversi in uno spazio considerato insicuro può modificare la percezione di quel luogo, contribuendo a riscriverne l’uso e il significato. È un processo graduale, ma potente, che mostra come la sicurezza non sia solo un dato oggettivo, ma anche una costruzione sociale che possiamo trasformare insieme.
La gruppalità e il riconoscimento reciproco mi sembrano dimensioni che accompagnano le ricerche nazionali e internazionali presentate. disegnando una mappatura del sostegno, accesso e della fruibilità dei servizi e spazi nelle città in cui viviamo, possiamo pensare che le costruzioni di legami e reti facciano un po’ da piano regolatore, esagerando!
Sì, è un’esagerazione solo in parte, perché le reti sociali e i legami di supporto hanno un ruolo fondamentale nella costruzione di città più vivibili e accessibili. Se pensiamo alla pianificazione urbana non solo come un insieme di infrastrutture fisiche, ma come un ecosistema di relazioni, allora le reti di solidarietà possono effettivamente diventare un piano regolatore informale che sostiene la vita quotidiana.
Le nostre ricerche mostrano come la presenza di comunità attive, gruppi di mutuo aiuto e spazi condivisi possa migliorare significativamente la percezione di sicurezza e la qualità dell’abitare. La fruibilità dei servizi urbani, infatti, non dipende solo dalla loro esistenza, ma anche dalla possibilità concreta di accedervi, che spesso è mediata da reti informali di supporto. Ad esempio, una panchina in una piazza può essere solo un elemento di arredo urbano, ma può anche diventare un punto di incontro e di cura collettiva, un presidio di socialità che trasforma la percezione dello spazio.
In un certo senso, costruire città più giuste significa proprio lavorare su questa doppia dimensione: da un lato, garantire infrastrutture e servizi accessibili, dall’altro, riconoscere e valorizzare le reti di relazione che permettono alle persone di abitare lo spazio urbano in modo più libero, sicuro e solidale.
Bibliografia
Andreola, F., Muzzunigro, A. (2024). Libere, non coraggiose. Le donne e la paura nello spazio pubblico. LetteraVentidue.
Andreola, F., Muzzunigro, A. (2021). Milan Gender Atlas/Milano Atlante. LetteraVentidue.
Butler, J. (1999). Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell'identità. Roma: Laterza, 1999.
Valentine, G. (1989). The Geography of Women’s Fear. Area, 21 (4), pp. 385-390.
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