Come è possibile che proprio negli anni in cui una nuova sensibilità evidente a chiunque abbia a che fare con le generazioni nate nel nuovo millennio sta facendo emergere una diversa consapevolezza riguardo alla sessualità, la psicoanalisi venga vista come una forza della conservazione? Che cosa ha da dire la psicoanalisi sulle nuove forme del godimento sessuale?
Pietro Bianchi
“Il regime della differenza sessuale che voi considerate come universale e quasi metafisico, su cui si basa e si articola tutta la teoria psicoanalitica, non è una realtà empirica, né un ordine simbolico fondatore dell'inconscio.” Sono le parole con cui nel novembre del 2019 a Parigi tuonava, di fronte a una platea di 3500 analisti dell’Ecole de la Cause freudienne, Paul B. Preciado e che poi sono state incluse nel suo pamphlet di accusa all’establishment psicoanalitico Je suis un monstre qui vous parle. Ma non sono parole troppo diverse da quelle usate recentemente anche da McKenzie Wark in una lettera intitolata “Dear Cis Analysts” inviata alla nuova rivista newyorkese di psicoanalisi Parapraxis, dove sostiene tra le altre cose che “quando si tratta di transessualità, anche il passato della psicoanalisi non è tanto migliore di quello di qualsiasi altra istituzione di controllo”. McKenzie Wark e Paul B. Preciado non parlano da un punto di vista qualunque, ma da quello di essere una donna e un uomo transessuali, che accusano la psicoanalisi di non aver visto la particolarità del loro desiderio. Preciado oltretutto nella sua arringa fa anche cenno alla categoria diagnostica che la psicoanalisi ha usato contro di lui in passato, quella di disforia di genere.
Le accuse di Preciado o di Wark alla psicoanalisi sono da tenere in grande considerazione non solo perché vengono da due intellettuali transessuali di grande notorietà, ma anche perché sono rappresentative di un sentore più generale, che ormai va avanti da diversi anni. È da parecchio tempo infatti che la cultura LGBTQIA – intesa nel senso più ampio possibile, sia come movimenti politici o della società civile, che come produzione di sapere universitario – ha preso di mira la psicoanalisi come corresponsabile di una storia di patologizzazione morale e marginalizzazione sociale non solo della transessualità ma in generale di tutte quelle pratiche e identificazioni sessuali non conformi alla norma del binarismo sessuale. In effetti già dai tempi di Anna Freud l’omosessualità veniva considerata come una patologia sessuale da curare, e la sua cancellazione dalla diagnostica del DSM è avvenuta solo in anni relativamente recenti. Così come capita ancora oggi di leggere nella letteratura clinica psicoanalitica, che la sua transessualità sia una forma di passaggio all’atto psicotico, con buona pace della singolarità dei sintomi.
Ma come è possibile che proprio negli anni in cui una nuova sensibilità evidente a chiunque abbia a che fare con le generazioni nate nel nuovo millennio sta facendo emergere una diversa consapevolezza riguardo alla sessualità, la psicoanalisi venga vista come una forza della conservazione? Che cosa ha da dire la psicoanalisi sulle nuove forme del godimento sessuale? Forse bisognerebbe partire da una vecchia accusa mossa alla psicoanalisi, e recentemente ripresa dai movimenti LGBTQIA: quella di fallocentrismo, di cui già parlò Jacques Derrida nel suo Il fattore della verità del 1975. Perché la psicoanalisi avrebbe bisogno della categoria di fallo?
La differenza sessuale in Lacan non risiede nell’anatomia o nella biologia, ma nel linguaggio. E le diverse posizioni – maschile o femminile – sarebbero la conseguenza soggettiva di un posizionamento rispetto a esso. Il versante maschile indicherebbe colui che del fallo se ne farebbe titolare dando luogo alla parata fallica maschile, mentre sul versante femminile si tratterebbe di identificarvisi in posizione di oggetto del desiderio, diventando esca per lo sguardo maschile e dando luogo alla mascherata femminile. Questo sarebbe l’adagio tradizionale psicoanalitico, dove in effetti ci sarebbe poco spazio per chi rispetto a questo aut-aut vorrebbe assumere una posizione terza. Tuttavia il fallo, quanto meno nella sua versione lacaniana, è anche un grande operatore di mediazione, che avrebbe il compito di coordinare il versante dell’identificazione simbolico-immaginaria (ovvero il versante dell’identità), con quello della pratica di godimento simbolico-reale (ovvero, la relazione d’oggetto). Identificazione e godimento sono in effetti i due lati a cui dovrebbe rispondere il processo di “posizionamento sessuale”: quello del “chi sono” sulla scena pubblica intersoggettiva; e quello del “come godo” nella camera da letto. Il fallo sarebbe quel modo – senz’altro precario, evanescente, o per meglio dire “sintomatico” – con cui questi due versanti riuscirebbero a trovare auspicabilmente una quadra più o meno stabile.
Eppure lo stesso Lacan – che elabora questa versione attorno alla fine degli anni Cinquanta, con il Seminario V del 1957-1958 e lo scritto La significazione del fallo del 1958 – si troverà lungo gli anni a essere sempre più insoddisfatto di questa formula. Il Seminario XX del 1972-1973 scompagina le carte e prova, rovesciando la logica aristotelica, a mettere a punto un’anti-logica profondamente dissimmetrica e che cammina sul filo del paradosso. Il fallo non è più la “buona misura” a cui tutti si dovrebbero auspicabilmente rifare, e il linguaggio che marchia il godimento dell’essere parlante non riesce più a essere dialettizzato con lo strumento dell’interpretazione. Il godimento che prima doveva girare attorno al fallo, si apre ora a continente oscuro e sconosciuto, che non è solo il femminile freudiano, ma una dimensione dell’altrove che però non approda mai nei territori di un indicibile oltre il linguaggio.
Naturalmente le espressioni lacaniane sul filo del paradosso possono anche risultare insoddisfacenti, ma il punto che vogliono sottolineare è tuttavia pregnante: se prima il linguaggio del fallo nominava e circoscriveva (Preciado direbbe, “disciplinava”) il godimento sessuale, ora c’è qualcosa che non è più possibile dire, ma che forse può solo essere soltanto scritto. In una scrittura che non può che andare oltre alla verticalità del senso e dell’interpretazione, e che forse non è altro che una pratica del corpo non più protetta dalle ali della norma dell’Altro.
È una prospettiva diversa, probabilmente più sfuggevole e molteplice di quella fallocentrica e centrata sul linguaggio, ma che la psicoanalisi farebbe bene senz’altro a tornare ad ascoltare. Mi piace pensare che negli stessi anni in cui Lacan si metteva a ragionare sui limiti dell’economia fallica, allo Stonewall Inn del Greenwhich Village la questione della molteplicità delle pratiche di godimento veniva portata sulla scena pubblica, nel modo spesso avvengono gli atti di rottura: cioè con i riot per le strade. Eppure l’annodamento tra quell’irruzione sulla scena pubblica immaginaria e le pratiche di godimento singolari è una questione aperta e ancora tutta da scrivere. In questo senso i movimenti LGBTQIA avranno la grande opportunità (ma anche responsabilità) di porre non soltanto il problema del riconoscimento di cittadinanza nel campo dei diritti, ma anche quello delle pratiche di godimento e delle relazioni d’oggetto, dove il linguaggio dello spazio pubblico si apre a una dimensione più oscura e perturbante dove in luogo della parola inter-soggettiva è necessario provare a scrivere la singolarità della propria pratica di godimento.
È quello che si vede in una scena del documentario Felice chi è diverso di Gianni Amelio dove vediamo la trans Lucy Salani raccontare in lacrime come dopo l’operazione che l’ha fatta diventare la donna che ha sempre desiderato essere (e che non rimpiange di essere diventata), confessa che “nel sesso [però] non si prova più niente, il sesso semplicemente non si sente più”. Si tratta di un momento in cui Amelio ci fa vedere come il problema del godimento e della sessualità non sia mai quello di un’identità pacificata una volta per tutte – anche qualora ci si trovasse all’indomani di un trattamento chirurgico o di una terapia ormonale – ma quello di un confronto incessante e sempre inquieto con un corpo che gode in un modo strutturalmente enigmatico.
Bibliografia
Derrida, J. (1978). Il fattore della verità. Milano: Adelphi.
Lacan, J. (1995). La significazione del fallo. In Lacan, J. Scritti. Torino: Einaudi.
Lacan, J. (2004). Il seminario. Libro V. Le formazioni dell'inconscio. 1957-1958. Torino: Einaudi.
Lacan, J. (2011). Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973, Torino: Einaudi.
Preciado, P. B. (2020). Je suis un monstre qui vous parle. Parigi: Grasset.
Wark, M. (2022). Dear Cis Analysts. A call for reparations. Parapraxis Magazine, https://www.parapraxismagazine.com/articles/dear-cis-analysts
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