“Una cura che apre alla vita”
Recensione di Marcella D'Abbiero
"Il lato notturno della vita", così Susan Sontag, nel suo celebre libro La malattia come metafora (1978), chiama il terribile evento del corpo che si ammala. L'evento è così sconvolgente, notava l'autrice, che è stato assai spesso, quasi per cancellarne l'orrore, "metaforizzato" come il risultato di qualche colpa, commessa da popoli o da singoli. La Sontag vuole appunto smontare la metaforizzazione della malattia e invita, giustamente, a guardare ad essa nella sua nudità, nudità sconvolgente, dato che il corpo nell'ammalarsi evidenzia i suoi aspetti estranianti, e porta in primo piano lo spettro della morte. Ma non possiamo allora non domandarci: che cosa possiamo fare di fronte a questi eventi estremi, esistenzialmente estremi? Di questo si occupa il libro di cui ci accingiamo a parlare.
Albert Camus, nel romanzo La Peste (1947), faceva comprendere che l'unica opzione valida nel flagello di una pandemia poteva essere quella del medico "che cura"; cura con onestà, anche con amore, ma tenendosi lontano dal groviglio dei vissuti psichici e delle angosce: un terreno minato per l'autore. Gli autori de Il lato notturno della vita, terapeuti dell'anima, danno anche loro molta importanza alla cura, ma ritengono che senza accostarsi a quel groviglio essa non è completa, e non è in grado di ripristinare le risorse con cui iniziare nuovi progetti: non sarebbe in grado di essere una cura che apre alla vita. Nella ricca introduzione ce lo illustra bene Tonia Cancrini.
Cancrini osserva quanto è stato importante riflettere con gli altri del gruppo su questi problemi, analizzando insieme i vari casi clinici: "la nostra riflessione si concentra sulla malattia somatica, sulla sofferenza e sull'angoscia che provoca e sul ruolo dell'analisi rispetto a questa esperienza" (p.9). La comprensione e la vicinanza, tipiche dell'approccio psicoanalitico, possono "aprire degli squarci inediti sul vissuto della malattia, sul terrore e lo spavento che essa attiva, ma anche sulla ricchezza delle nuove esperienze" (ibid.).
L'autrice si sofferma su alcuni aspetti salienti legati all’evento, riportando esempi illustri: c'è il dolore straziante legato alla ineluttabilità della malattia che si porta via un bambino, come racconta Thomas Mann nel Doctor Faustus; la prepotenza del corpo che con i suoi problemi prende il sopravvento, come dice ancora Mann nella Montagna Incantata; e poi c'è l'incontro ravvicinato con la morte, che tutto sembra congelare. Tonia Cancrini cita Tolstoj: il principe Andrea in Guerra e Pace, il quale, ferito gravemente, e pur confortato dalla presenza di Natascia appena ritrovata, quando si avvicina "qualcosa di non umano" come la morte, è invaso dall' indifferenza e dal gelo (p.13). Ma Tolstoj ci mostra anche altro, dice l'autrice: nel breve racconto La morte di Ivan Il'ic, in cui il gelo emotivo ha completamente invaso l'animo del morente, c'è qualcosa che sembra portare qualche germoglio: il rapporto di accudimento da parte del fedele servo Gerasim, che al di là delle parole comunica un legame profondo e primario e forse fa una breccia: "Ivan Il'ic stava bene soltanto con Gerasim", scrive il romanziere russo citato nel testo.
Nella morte si è sempre soli, e proprio per questo, sottolinea Cancrini avendo in mente Melanie Klein, è importante che, grazie a un rapporto di comunicazione profonda con la madre o di chi ne fa le veci, si installi dentro l'animo un "oggetto buono", che possa ispirare in tutte le occasioni della vita fiducia e speranza: come quello, ricorda l'autrice, che ispira le luminose parole di Rosa Luxemburg, la quale, pure immersa nel buio del carcere, prova gioia al pensiero di comunicare con chi ama. E non ci mostra forse Manzoni, aggiungerei, come Renzo e Lucia affrontano senza soccombere il flagello della peste guidati dal loro "oggetto buono" interno? Nella malattia si riattivano vissuti primari, e allora soltanto un rapporto profondo come quello che si instaura nella coppia analitica, può aiutarci ad attraversare tali esperienze sconvolgenti, rendendoci capaci di apertura a nuove emozioni, a "possibilità di nuove esperienze e nuove risorse" (p.19). Il percorso è difficile, come ci mostra l'autrice nel suo intervento La malattia nella stanza di analisi: lei stessa lo ha sperimentato in occasione di un grave incidente. Ma la difficoltà è poi compensata dall'esito: emozioni e rapporti intensificano il loro significato e la loro risonanza.
Quanto è importante, nell'evento estremo della malattia, la relazione con qualcuno capace di ascoltare e di contenere, ce lo mostrano i due interventi di Mirella Galeota. L'autrice ci racconta di una madre emotivamente congelata dalla morte del suo compagno, bruciato vivo, che trasmette il gelo al suo piccolo appena nato. Solo quando, aiutata dalla terapeuta, "rinnova" nella mente i terribili eventi, fino a riuscire a piangere, può "accogliere" il piccolo. Galeota insiste giustamente che una relazione così trasformativa può accadere solo se il/la terapeuta riesce a tollerare nel suo animo la "sospensione tra vita e morte"(p.29), tipica della condizione umana, che la malattia non fa che esacerbare.
Galeota ci parla anche di una bambina malata di aplasia midollare che ha l'animo invaso dalla noia: il suo gioco preferito è quello di buttare i pupazzetti in una fossa comune. L'analista comprende il terribile deserto che opprime il suo vivere, e le propone di "fare un funerale" ai pupazzetti, stimolando così la piccola a sperimentare le risorse di cui la mente dispone per "umanizzare" l'impensabile della morte.
Anche Maria Pia Corbò ci fa vedere come il risorgere della emotività, stravolta dalla presenza della malattia mortale, possa portare ad una accettazione della morte serena e quasi creativa...così accade ad Agata, che passa i suoi ultimi giorni a ricamare (Tessere pensieri ed emozioni, ricamare fiordalisi e papaveri, è il suggestivo titolo del saggio). Elaborazione e resilienza sono però sempre sul filo della depressione, nota Corbò, raccontandoci il caso di un ragazzo sopravvissuto alla leucemia, che non ce la fa a riaffrontare la vita: deve fare i conti con il suo corpo fragile, reso brutto dalle chemioterapie che lo hanno reso quasi calvo. In questa situazione anche i genitori non riescono ad aiutarlo, invischiati a loro volta in tali angosce. Riceve un aiuto dalla terapeuta, attrezzata ad attraversare questi vissuti estremi, che lo accompagna nel difficile percorso.
Quanto sia difficile attraversare questi vissuti così pesanti ce lo illustra Luisa Cerqua, alle prese con una donna nata prematura la cui madre, credendo di aver partorito una creatura morta, si suicida. Il "segreto di famiglia" non fa che esacerbare la ferita; ma la donna vuole guardare in faccia il suo "non-diritto all'esistenza" (p.75), che rischia di uccidere tutte le sue iniziative vitali, e cerca nella terapeuta qualcuno che le dia attenzione, capace di guardarla, che sappia vivere in sé la difficile condizione umana, restituendogliela umanizzata.
Il "diritto a esistere" del singolo è infatti complesso, è vivo e morto insieme; è vivo solo se affronta l'angoscia della separazione e della morte; il singolo è sempre "in bilico", sottolinea Cerqua, ed è fondamentale, a suo parere, "abitare" questa incertezza, accettando questa impotenza (p.91); solo in questa cornice si possono ritagliare momenti vitali. Il pensiero della morte non va negato, sottolinea ancora Cerqua, ma "tenuto sullo sfondo" (p.92); e può essere utile anche un po' di "illusione funzionale" per rimanere vivi nonostante la morte (pp.92-93). Una costellazione fluttuante colta molto bene dai poeti: l'autrice ricorda come Bion abbia teorizzato la "capacità negativa", ispirandosi a Keats (p.95). Anche l'analista che si ammala e non può nasconderlo, nota Cerqua, può diventare una utile spinta per affrontare le idealizzazioni eccessive. Una costellazione, aggiungerei, molto congrua per affrontare l'esistenza, che rende possibile "sentire" in modo vivo ma senza attaccamenti ciechi.
Adelia Lucattini riflette molto sul crollo delle proprie risorse e delle proprie progettualità legate alla malattia; un corollario sconvolgente, tanto che a volte il dolore fisico viene enfatizzato quasi per nascondere il dolore mentale (p.105); perché la malattia ci rivela come non mai che nella nostra esistenza abbiamo sempre a che fare con l'"intruso" (p.107). Solo una comprensione condivisa di questo "terrore senza nome" può permettere di collocarlo nell' esperienza, tramutando il gelo in sentire vivo.
Il saggio di Daniele Biondo quasi ci fa toccare con mano questi incubi, esitati poi in gravi disturbi psicosomatici, raccontandoci la storia di un nato prematuro rimasto due mesi e mezzo nell'incubatrice. Le angosce del bambino si esprimono nei suoi sogni, nei suoi disegni, nei suoi comportamenti eccessivi: la situazione si sblocca solo quando queste comunicazioni non verbali vengono riconosciute, affrontate e condivise, e collegate con i pesantissimi stazionamenti nell'incubatrice: il gelo inizia a sciogliersi facendo germogliare qualche sprazzo di vita.
Il libro si conclude con il pregevole saggio di Daniele Biondo che ricostruisce le riflessioni di Freud sulla morte e sui vissuti legati alla terribile malattia che lo ha colpito (cancro alla bocca). L'autore ci mostra quanti spunti vitali ci provengono dall'epistolario tra Freud e Lou Salomè, nel quale la ricchezza delle emozioni viene da entrambi valutata come il miglior farmaco per controbilanciare l'inevitabile angoscia prodotta dalla malattia e dalla morte, la quale, lasciata a se stessa, spesso si trasforma in odio e violenza.
Prestare attenzione ai vissuti psichici profondi, osserverei, è anche questo un modo per migliorare il mondo, forse il più autentico: non a caso l'attenzione ai vissuti dei bambini, che sono il futuro della Terra, ha uno spazio rilevante nel volume.
"Il lato notturno della vita. Corpo malato e relazione analitica"
a cura di
Tonia Cancrini e Daniele Biondo
Milano, Angeli 2020