Esistono ancora, nel mondo attuale che valorizza molto le soggettività marginalizzate, degli spazi sociali invisibili? Credo di sì: le comunità che accolgono ragazzine e ragazzini in difficoltà sono sicuramente tra questi.
Giovanni Lindo Ferretti definisce così il suo Appennino: un contesto “economico fallimentare, politicamente irrilevante, socialmente perdente”.
Le case famiglia sono l’Appennino.
Se non si parte da qui non si capisce nulla.
Nel mondo nel quale viviamo i contesti marginali, le lingue minori, gli outsider hanno preso parola. Hanno compreso bene che parlare, far sentire la propria lingua non conforme e stravolgere le regole della lingua maggiore è un gesto politico, conflittuale. L’equivalente di un’occupazione dei mezzi di produzione.
Il politically correct, identity politics, woke, cancel culture, diversity management, sono croce e delizia di chi si occupa di comunicazione. Oggi differenza, marginalità e specificità identitaria costituiscono i nodi primari delle battaglie culturali e tutto ciò si esprime all’interno del discorso politico.
Se una volta occupare una fabbrica poteva valere come progetto rivoluzionario, oggi si occupano i discorsi. Si forzano le regole della grammatica, perché il linguaggio è un grosso dispositivo di controllo e di potere. Così relegare i corpi non conformi a diagnosi psichiatriche non è altro che un tentativo reazionario di bloccare questo movimento.
Ma noi neanche in questa fase molto vivace del conflitto politico riusciamo a farci sentire.
Qui il Noi, l’uso del plurale, il mio posizionamento se vogliamo, deriva dalla mia appartenenza ad una comunità, una piccola casa famiglia per ragazzine e ragazzini perduti. Come quelli di Peter Pan, che qualche adulto distratto aveva fatto cadere dalla culla, dal passeggino. È un’identità sociale, politica ma soprattutto economica, che diventa spesso identità psichiatrica. Quella di chi è nato ai margini ed è subito caduto fuori.
Ho fatto i turni in casa famiglia per circa venti anni… qualcosa di più. Ero in casa famiglia nel Luglio del 2001, quando Carlo Giuliani, un mio coetaneo, veniva ucciso da un poliziotto. La retta del comune di Roma in quegli anni era di 56,81 Euro. Non ho mai capito la matematica ma questi quattro numeri sono difficili da dimenticare. Se qualcuno, leggendo questo articolo, si ricordasse questi numeri vorrebbe dire che come me è in prima linea da un paio di decenni. Ma è molto difficile che sia così. In quanto quel sistema, portato avanti in sostanza da giovani neolaureati, non permette a questi di investire sul loro lavoro. Di più. Li affama. E poi li espelle.
Io sono stato decisamente un bug in questo sistema. Provateci voi a lavorare per due spicci.
Oggi la situazione è leggermente migliorata. Ma rimane una questione di fondo che vorrei condividere in questo spazio. Se come diceva Freud, lo psicoanalista, il politico e l’educatore sono mestieri impossibili, di sicuro quello che non ci diventa ricco è l’educatore. Non solo non ci diventa ricco, ché poi a nessun educatore interessa molto di queste cose. Ma non ci vive. Per cui mi sento di dire con una certa sicurezza che in verità l’unico mestiere impossibile, a conti fatti e nel senso letterale, è l’educatore.
Io ho cominciato che ero un ragazzino tra ragazzini. Ad un certo punto ho iniziato a vedere il divano dell’analista come un grande aiuto rispetto al divano sgangherato che avevamo in casa famiglia. Nella mia esperienza la psicoanalisi è stata soprattutto un metodo, molto concreto, per alleviare la sofferenza di chi per un po' viveva nella comunità.
Nel frattempo si sono susseguite storie molto difficili, degli adolescenti certamente… ma anche degli operatori. Ho archiviato nella mia memoria, in modo confuso, disordinato, talmente tanti ricordi di come questa sistemica mancanza di denaro ha influenzato il mio lavoro che raccontarle tutte mi sarebbe molto difficile e mi farebbe solo arrabbiare. Mi farebbe sentire come il replicante Roy Batty in Blade Runner… ho visto cose che voi umani…
E in un certo senso stare molti anni in quel contesto è un po' come andare al largo dei bastioni di Orione, qualcosa che ha a che fare con i limiti e l’indicibile. L’endemica mancanza di denaro ha creato situazioni molto divertenti, come quando con la mia amica Betta avevamo portato i ragazzi in campeggio. Non avevamo più i soldi per fare la spesa e la mattina presto, dalle parti di Tarquinia, avevamo l’abitudine di fare “la spesa proletaria” (ancora in quegli anni la chiamavamo così) nei campi dei contadini li intorno. Mai mangiato cose così buone nella mia vita. Veramente a chilometro zero. Oppure quella volta alla festa dell’Unità di Oriolo, quando il sindaco Italo per farci fare qualche euro ci aveva permesso di gestire lo stand della pesca, le ultime sere della manifestazione. Avendo paura che di notte ci rubassero tutto, a turno dormivamo li dentro. La mattina ci lavavamo nella fontana davanti Palazzo Altieri.
Ma anche quando dopo la prima fattura inviata al Comune di Roma chiamammo per sapere i tempi di pagamento. Un impiegato si mise a ridere perché chiedevamo di essere pagati dopo soli due mesi. Quella risata ci è rimasta addosso per tutti questi anni. Un mancato riconoscimento.
Una sera, a cena con delle amiche assistenti sociali, ci leggemmo quella decina di pagine del capitolo intitolato Contratto narcisistico di Piera Aulagnier, contenuto in Violenza dell’interpretazione. Abbiamo a lungo riflettuto su come sia importante che la nostra realtà sia riconosciuta e che possa riconoscersi nel discorso dell’Altro. Il contratto narcisistico, una sorta di accordo tra noi e chi ci ha preceduto, avviene tra bambino e gruppo ed è mediato dai genitori. È importante in quanto riguarda lo spazio in cui l’io può a-venire, facendo suoi una serie di enunciati sociali: un sociale che oltrepassa la sua famiglia ma che la riconosce e nella quale questa si riconosce.
La Aulagnier, pensando a bambine e bambini molto sofferenti, scrive “ pertanto nel momento in cui l’io scopre il fuori famiglia, nel momento in cui il suo sguardo vi cerca un segno che gli dia il diritto di cittadinanza tra i suoi simili, non può che incontrare un verdetto che gli nega questo diritto, che gli propone soltanto un contratto inaccettabile, poiché il suo rispetto comporterebbe la rinuncia, nella realtà del suo divenire, ad essere altro che un ingranaggio senza valore al servizio di una macchina, che non nasconde la sua decisione di sfruttarlo o escluderlo”.
Il destino delle case famiglia è tutto in queste righe. Così come la condanna a rimanere legati a gruppi anti sociali. Capite quanto sono importanti in questa logica i soldi?
Ognuno di noi verso i cinquanta ha dei ricordi. Io ho un rapporto ambivalente con i miei. Mi sono cari come i ricordi della mia giovinezza. Ma vorrei non averli.
Soprattutto ciò che proprio non riesco a digerire dopo tutto questo tempo sono le persone che ho visto provare a lavorare in comunità. E non riuscirci.
Sicuramente quel lavoro ti espone ad alte temperature. All’epoca parlavamo di transfert concreto per esprimere qualcosa che in casa famiglia fa difetto. Ovvero la metafora. Il lavoro in comunità lo capisci come le ontologie cannibali di cui parla Eduardo Viveiros de Castro. Oppure come piano di consistenza, abolizione di ogni metafora, direbbe Deleuze. Una danza muta.
È inevitabile che qualcuno si bruci. Ma qualcun altro si brucia anche perché vivere sempre in perdita è molto difficile. Sembra come se queste piccole comunità siano la prova vivente della nozione di dépense di Bataille. Un’economia sempre a perdere.
Personalmente dopo i primi anni ho smesso di tenere il conto dei soldi persi per mantenere in piedi quel progetto. Ho smesso di tenere il conto di quante piccole comunità ho visto chiudere. Mi faceva arrabbiare la mia amica suor Lucia che non percepiva nulla di tutto questo o quelle grosse cooperative che avevano tanti progetti. Noi siamo sempre rimasti un piccolo gruppo.
Questo però ci ha permesso di fare delle esperienze che hanno veramente anticipato molto i tempi.
Io sono persuaso che chi in questi anni è rimasto, dilapidando le sue economie, interne ed esterne, talvolta ammalandosi, ha fatto un’esperienza eccezionale. Sa che i legami che si creano nella piccola comunità, le alleanze, sono forti tanto e più delle parentele, che il contesto comunitario ti mostra chiaramente come le parole siano spesso molto sopravvalutate, e che l’essere tra le cose e mai se stessi è l’unico modo di conoscere. In una parola ha fatto esperienza dell’altro nell’unico modo in cui ciò è possibile, ovvero in una contaminazione infinita.
Spesso dolorosa.
Capite bene che come diceva la pubblicità di una nota carta di credito, tutto ciò non ha prezzo. È come quando entri in quella gioielleria di via Condotti e chiedi alla signorina quanto costa l’anello che vorresti regalare alla tua fidanzata. E lei scocciata ti corregge dicendo “non quanto costa, quanto vale”.
La casa famiglia vale tantissimo, ma senza il costo purtroppo quel valore si traduce nell’impossibilità di molti a poterci lavorare. Non si invecchia lavorando in casa famiglia e questo fa molto arrabbiare.
A questo punto sarà però chiaro che nell’esperienza di quel contesto riluce una vitalità eccezionale. Per molto tempo anche noi abbiamo pensato che fosse molto importante mostrarla al pubblico. Farci vedere. So che molte realtà impegnate nel sociale sono passate attraverso il tentativo pregevole di farsi raccontare da registi talentuosi, che hanno cercato di mettere in scena quanto il contesto di cui stiamo parlando sia appassionante. È molto bello. Lo abbiamo fatto anche noi. È uscita negli ultimi giorni una serie molto bella su Rai Play.
Con amarezza dopo tanti anni credo siano operazioni che non spostano nulla, se a queste non fa seguito un impegno collettivo rispetto a quelle difficoltà endemiche affrontate quotidianamente da chi ama il lavoro in comunità.
Forse non hanno un valore trasformativo anche perché, alla luce di quanto detto all’inizio di questa riflessione, non riusciamo a produrre conflitto. Ma è la mia opinione… poca cosa a conti fatti.
Ogni tanto quando sono seduto nel mio studio di analista, nelle pause, apro la mail come molti di voi. L’altro giorno gli amici che lavorano in casa famiglia mandano una mail che chiama tutti gli operatori ad una manifestazione che si terrà in questi giorni. Per protestare rispetto alle rette che sono un po' meno di 100 euro al giorno per ospite. Gli amici delle case famiglia hanno sapientemente calcolato che per rispettare gli obblighi contrattuali, le tasse e tutto quanto viene richiesto per lavorare, la retta necessaria sarebbe di 261,62 euro al giorno per ospite.
Non c’è, credo, una realtà così esclusa dal contesto sociale, così invisibile e silenziosa, come le case famiglia. Ciclicamente siamo additati dei peggiori mali di questo paese. O al contrario siamo raccontati con sentimenti di cuore.
Io credo che nulla si possa dire del nostro contesto se prima non si prende la responsabilità diretta di protestare con rabbia rispetto a questa ingiustizia che non permette a giovani appassionati di aiutare ragazzine e ragazzini in difficoltà e rende ogni cosa difficile.
La prima ragazzina trans l’abbiamo ospitata nel 2014. Martina due estati dopo portava mia figlia Rebecca di due mesi in braccio in un campeggio di Cesenatico. Quando Rebecca è cresciuta ha passato molto tempo a giocare “ai gelati” con Valeria, altra ragazzina trans che mia figlia ancora chiama “cinque euro e cinquanta”… perché le metteva i gelati a quel prezzo (probabilmente da grande venderà gioielli a via Condotti…). Ha inseguito col mestolo in piscina ragazzini che erano appena usciti dal carcere, perché avevano spinto per gioco la mamma in piscina… ha giocato a nascondino con Samantha (rigorosamente col TH), ragazzina psicotica in uscita da una clinica psichiatrica… voleva sempre essere spinta sull’altalena da Giovannone, un ragazzone obeso, bipolare, che prendeva più farmaci di qualunque Schreber post moderno. Considera Stella, cresciuta in casa famiglia, la cosa più vicina ad una sorella.
Mia figlia ha otto anni e ormai è grande. Ha ricordi al largo dei bastioni di Orione. Ha visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
Ma sono inutili senza ricordare a tutti che ogni sindaco, assessore, dirigente del Comune di Roma e della Regione Lazio è responsabile personalmente di questa situazione indecente.