Attualità e nuove sofferenze

Il Papa influencer e la realtà migratoria da non misconoscere.

Quando chi accoglie incontra chi chiede aiuto, la paura può vincere. Ma sui migranti si può cambiare "cornice".


Il Papa influencer e la realtà migratoria da non misconoscere.

di Chiara Buoncristiani e Luisa Cerqua

Il bravo influencer sa come guadagnarsi l’attenzione delle nostre menti sempre più distratte e occupate a giocare su più tavoli. Siamo multi-tasking e quindi costantemente dissociati, ma i veri professionisti possono gestire i temi potenzialmente “caldi” per illuminarli con quella certa inquadratura, quella e non un’altra, che ci porterà a discuterne, a focalizzarci, a investire un po’ del nostro tempo su un tema centrale e sempre troppo rimosso: quello dei migranti.

Come dimostra la sua intervista da Fabio Fazio, tra i fuori classe della comunicazione c'e Papa Francesco. Lo stesso uomo che durante il primo lockdown per il Covid ci ha offerto sceneggiature memorabili e degne di Sorrentino, come durante la preghiera solitaria, da una piazza San Pietro deserta e struggente sotto la pioggia.

Ora Papa Francesco ha battuto un altro colpo, parlando del vero spauracchio di questa nostra epoca: il fenomeno migratorio. Una realtà già ben descritta in Lettere dal Sahara (De Seta 2006) ma tutt’ora misconosciuta.

Presenti come ‘ombre’, esseri umani di carne e ossa chiedono di essere visti da altri umani e due realtà umane si fronteggiano in una sorta di Mezzogiorno di fuoco quando chi accoglie incontra chi chiede accoglienza. Quell’incontro avviene su un’invisibile linea di confine tracciata da bisogni e funzionamenti emotivi profondi, timori reciproci e attese diverse; possiamo sentire e vivere con un senso di profonda estraneità tutto ciò che il migrante porta con sé: in primis quell’abisso di vissuti emotivi oscuri, traumatici e silenti che comunque ci interroga e ci ‘inquieta’. Chiama in causa il nostro stesso mondo emotivo, tutto quanto ci dà sicurezze. Possiamo sentirci attratti e insieme respinti da qualcosa di ignoto, come ben sa chi si è impegnato nel mondo dell’accoglienza al migrante.  

Bergoglio ha sostenuto che grazie al Covid abbiamo messo a fuoco l’essenziale nelle nostre vite.

Dice che non dobbiamo aver paura di offrire il nostro aiuto, di prenderci cura, di accogliere.

Eppure, la paura può vincere. Noi possiamo aver paura, possiamo sentirci esposti ‘all’invivibile e all’indicibile’, proprio perché siamo esposti ai non detti connessi ai vissuti catastrofici e traumatici, individuali e gruppali, di cui il migrante è portatore. Sono i vissuti silenziati quelli che si riversano in tanti modi, diretti e indiretti, proprio nelle strutture d’accoglienza e su chi d’accoglienza si occupa. Possiamo incontrare tutto questo e riconoscerlo dal vivo nello svolgere un progetto d’accoglienza come quello realizzato con i mediatori culturali in ambito sanitario all’INMP, breve sigla che contiene un mondo: Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e il contrasto delle malattie della Povertà (Cerqua/Giannini).

In che modo allora questa consapevolezza potrà aiutarci a proteggere noi stessi e di conseguenza le risorse della terra?

Parlare di migranti e povertà nei termini che proponiamo significa cambiare inquadratura. Dare un nuovo “frame” alla paura di ciò che ci è insieme familiare ed estraneo, ‘perturbante’. Occorre essere consapevoli di essere chiamati a mediare tra paura e coraggio, il coraggio di ‘vedere’ in un’area cieca per poter fare poi ciò che occorre; in primis barcamenarci tra affetti, angosce e vissuti emotivi informi, scritti nel corpo, nella carne del migrante, ma difficili da guardare.

L’idea onnipotente di un’accelerazione senza fine ha guidato fin troppo i leader mondiali. Nella loro angoscia di rallentamento dell’economia era implicito il concetto “chi si ferma ad assistere il prossimo è perduto”. Tutti per anni hanno provato a rincorrere la crescita a due cifre del Pil della Cina. Non potevamo non crescere.

La psicoanalisi avrebbe parlato dell’impossibilità di elaborare il limite e la finitezza. Non è una novità, dall’Imperatore Costantino in poi, la Chiesa conia le migliori campagne di comunicazione.  Ha cominciato qualche millennio prima che i guru del marketing politico ci spiegassero che vince chi intuisce prima degli altri come incorniciare i problemi. Bergoglio ha preso il nome del santo più pauperista della storia, ma senza cadere nell’ideologia della penitenza. Al fondo, questa sua nuova impostazione pone al centro il gusto della vita, mentre sposta l’inquadratura dalla corsa sfrenata al sostare creativo che apre all’estetica (e quindi ai sensi) oltre che all’etica.

Cornici, finestre, inquadrature, perché parlare di interdipendenza tra noi e i popoli dall’altra parte del Mediterraneo, tra ambiente umano e non umano ha molto a che fare con la constatazione che il “setting”, l’assetto di ciò che ci circonda determina il significato delle nostre esistenze, la qualità dei nostri desideri e la trama delle nostre paure. Ciò che teniamo fuori e ciò che vogliamo dentro fonda la nostra identità, ma come possiamo distinguere? “Il nostro” e “l’altrui” sono determinati dal tipo di limite che incontriamo, anche emotivamente. Tra noi e loro c’è una montagna o una parete? C’è un muro o una finestra? O un abisso emotivo che ci turba e sconvolge?

Se vi chiedo quante dita avete probabilmente rispondete cinque - diceva il geniale psicologo Gregory Bateson - aggiungendo che per lui questa risposta era sbagliata. La giusta risposta sarebbe stata: “Gregory, stai facendo una domanda sbagliata, la domanda corretta è quante relazioni tra coppie di dita avete? La risposta è quattro”. Bateson invitava a spostare l’inquadratura. Consigliava di cogliere la differenza tra vedere una mano come base per cinque parti (cinque dita) e vederla costituita da un groviglio di relazioni. La nostra inquadratura si centra perciò sulla relazione emotiva profonda tra noi e il migrante. Una configurazione di legami di dipendenza reciproca tra fibre che sono determinanti per lo sviluppo dell’insieme.

A sorprenderci ancora oggi è la conclusione: se riusciremo a vedere la mano/fenomeno migratorio in questo modo, forse all’improvviso  ci apparirà diversa, forse molto più bella. Non è un caso che nell’ultima Enciclica si parli proprio del diritto di tutti alla bellezza.

 



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