Una introduzione
L’Io e l’Es conclude il percorso di revisione della teoria del funzionamento psichico che da Introduzione al Narcisismo (1914) era transitato per Metapsicologia (1915), Al di là del principio di piacere (1920) e Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), e segna il passaggio dalla prima alla seconda topica.
Prenderò spunto non dalle acquisizioni per cui tutti conosciamo L’Io e l’Es, ma da alcune tensioni che esso introduce nei modi di concepire la vita psichica, destinate a sviluppi di lunga durata, fino a noi.
Non a caso L’Io e l’Es è un testo solo apparentemente facile. Malgrado le molte formule ‘didascaliche’ e la chiarezza della scrittura, è un testo tormentato, persino faticoso, pieno di ‘spazi bianchi’, come Isler (1987) chiamava gli interstizi tra le domande che un testo pone e le risposte che abbozza. Un testo che propone una fucina di problemi, in cui ogni approdo apre scenari di ulteriore complessità, come spesso sono i testi freudiani (che non andrebbero letti, quindi, come un messale che definisce la dottrina).
C’è una prima oscillazione, in questo tentativo di una visione unitaria del funzionamento psichico. Da un lato, l’esigenza di non cedere a quell’olismo spiritual-sostanzialistico che Freud aveva rimproverato a Groddeck (che pure aveva in gran simpatia e da cui aveva tratto lo stesso termine ‘Es’)[1] e l’esigenza di distinzioni, analisi, ‘costruzioni ausiliarie’ (i costrutti metapsicologici) per domare l’‘indocile materia, così difficile da afferrare’ (ibidem) di cui stava occupandosi.
Dall’altro la percezione che essa fosse difficilmente concepibile in termini di ‘entità’ differenziabili, rette tra loro da leggi come quelle delle scienze della natura; un magma di fenomeni che ampiamente precedono/eccedono le categorie della ragione che cerca di ordinarlo, che anzi è sempre ‘in ritardo’ rispetto a loro.
Di qui i richiami di Freud (che Musatti ricorda nella nota introduttiva) a non ‘sostanzializzare’ le istanze psichiche, e non concepirle come entità separate. Ogni distinzione ritagliata a fini pratici, dice Freud, mostra a uno sguardo più approfondito che i suoi confini con l’insieme non sono linee definite, semmai sono simili a ‘aree cromatiche sfumanti l’una nell’altra, come nella pittura moderna… Dopo aver distinto dobbiamo lasciar confluire di nuovo assieme quanto abbiamo separato’ (Freud, 1932, lezione XXXI).
Questa notazione inviterebbe a una riflessione sullo statuto dell’apparato metapsicologico, che tante volte Freud ci ha invitato a considerare come una grande ‘costruzione’ congetturale, indispensabile per una prima figurazione di quei processi inaccessibili, ma da abbandonare ‘come un ospite non invitato’ non appena l’imprevedibile incontro con l’inconscio ce ne mostri l’inadeguatezza.
Facciamo un po’ di filologia freudiana? Prendiamo il passo più noto sulla necessità della metapsicologia: quello celeberrimo della ‘Strega-metapsicologia’ (Analisi terminabile e interminabile). La ‘strega’ consente l’esorcismo di inoltrarci in processi inconsci altrimenti inafferrabili.
Ma cosa scrive esattamente Freud in quel passo? Nella traduzione italiana abbiamo: “e allora c’è la strega…la metapsicologia. Non si può avanzare di un passo se non speculando, teorizzando, stavo per dire fantasticando” (OSF 11, 508).
Vediamo l’originale tedesco (Studienausgabe, SA) “beinahe hätte ich gesagt: Phantasieren…” (SA 11, 366). Nell’edizione italiana (Opere Sigmund Freud, OSF) e inglese (Standard Edition, SE) è omesso un particolare. Lo riconoscete? Sono i ‘due punti’. Nel testo tedesco l’artificio retorico del “quasi” (beinahe, quasi stavo per dire) è ulteriormente rafforzato da quei ‘due punti’ che, marcano il Phantasieren (‘quasi quasi stavo per dire: fantasticando’), sottolineando la natura di fantasia congetturale di quel teorizzare.
Il celebre ‘ovoide’ dell’apparato psichico riproduce bene tutto ciò, soprattutto nella sua versione del 1932. Eccolo nelle sue tre versioni principali (un’altra, simile, è in una lettera a Groddeck del 17 aprile 1921; altri schizzi, ma più delle funzioni che della ‘struttura’, sono presenti nel capitolo 7° de L’interpretazione dei sogni e in una lettera a Fliess del dicembre 1896):
Immagine 1. Rappresentazione dell’apparato psichico nello scritto L’Io e l’Es
Immagine 2. Rappresentazione dell’apparato psichico nella Lezione 31
Immagine 3. Rappresentazione dell’apparato psichico nella Lezione 31 (ovoide sdraiato)
Il primo schizzo è quello de L’Io e l’Es.
Il secondo, è la versione rivista in occasione della pubblicazione (dicembre 1932, Internationaler Psychoanalytischer Verlag) della lezione 31 della Nuova serie (in cui Freud riprende i temi de L’Io e l’Es) e poi tramandato da SE e SA (e in Italia da OSF): l’‘ovoide’ non è conchiuso in se stesso, il suo ‘fondo’ è aperto; il cambiamento grafico corrisponde ai cambiamenti concettuali già presenti ne L’Io e l’Es.
La terza versione, con l’ovoide ‘sdraiato’ e messo di traverso, è invece presente nella lezione XXXI che compare nell’edizione Gesammelte Schriften (GS) (poi ripresa in Gesammelte Werke, GW); versione che ha creato confusione e alcune fantasiose speculazioni su come mai il fondo dell’ovoide (stampato orizzontale invece che verticale) si aprisse misteriosamente verso sinistra. SA ha chiarito che questa strana posizione (che non corrisponde alla versione originaria della Lezione 31) era stata semplicemente una necessità grafica di GS per mancanza di spazio: erano tempi duri per l’editoria psicoanalitica. In sostanza: buona la seconda!
Il rimosso (Verdrangt) è solo una piccola parte dell’Es. L’Es inconscio è ‘incomparabilmente’ più esteso dell’Io e del preconscio ed è multistratificato: pesca nel corpo, è alimentato dal transgenerazionale, attraversato dal filogenetico.
L’Io non è che una piccola parte dell’Es, modificatasi per l’azione diretta del mondo esterno e del sistema Percezione/Coscienza. Ampiamente inconscio esso stesso, l’Io mantiene dentro di sé le molte alterità attraverso le quali si è costituito: i sedimenti identificatori della storia oggettuale. Sedimenti che non sono essi stessi delle ‘cose’, ma tracce plurali, fatte di molteplici e successive re-iscrizioni e tra-duzioni; palinsesto dinamico di ciò che è stato, ma anche di ciò che si è espresso solo in parte di quel passato, che magari iscrizioni/traduzioni successive potranno portare alla luce.
Anche il Super-io, ulteriore differenziazione, affonda nell’Es le sue radici, che si espandono ben al di là della singola storia oggettuale, affondando nella storia transgenerazionale e in quella evolutiva della specie (tutti conosciamo le convinzioni haeckeliane di Freud sulla ‘ricapitolazione’ della filogenesi nell’ontogenesi e comunque sul depositarsi nella storia evolutiva individuale di tracce collettive, al di là della questione dei modi della loro trasmissione).
Persino il dualismo pulsionale, così importante per Freud, è mantenuto nella recente formulazione di Al di là del principio di piacere, ma in qualche modo stemperato nella descrizione del frequente impasto e trascolorare l’una nell’altra delle due polarità pulsionali, dell’intreccio interminabile tra Eros e tendenze a ripristinare la quiete turbata dal rumore della vita.
Nella filigrana di questo scritto si staglia questo fondo impersonale della vita psichica, dalle molteplici stratificazioni, irriducibile al rimosso, largamente pre-rappresentativo; su di esso il soggetto umano si ingegna a tessere il suo incerto tentativo di traduzione-costruzione-narrazione, bonifica dello Zuiderzee.
Se pensato in questi termini, questo magistrale scritto centenario vi potrà apparire, al di là delle formule, di inquietante modernità.
Consentitemi ora di mettere da parte la metapsicologia freudiana. Gli spunti accennati saranno infatti solo il pretesto per riflettere, attraverso una situazione clinica, sulle ‘molteplici alterità’ della vita inconscia e su come zone di “pre-istoria” possano avviarsi alla pensabilità; ma anche su quali possano essere le nuove configurazioni della ‘strega’, di fronte a questo compito.
Fuor di metafora: l’‘estensione’ della psicoanalisi contemporanea in queste aree procede ancora a tentoni. Sebbene questo sia inevitabile, abbiamo bisogno di ampliare sia descrizioni cliniche, che costrutti teorici. Sappiamo da tempo che psicoanalisi e inconscio proprio non ci stanno dentro a un paradigma nomologico ‘covering law’ (se non forzando la loro natura e la natura di ciò che in psicoanalisi accade), ciò non di meno di quei costrutti abbiamo bisogno, se vogliamo arrischiare affermazioni generali, confrontarci e parlare agli altri: della strega non ci possiamo proprio liberare.
Ricercare
Ho intitolato “ricercare” questi frammenti clinici della storia di Brunella perché questa parola condensa diverse dimensioni:
1. Nel mondo interno di Brunella e tra di noi, il ricercare le tracce vitali di un oggetto che rianimasse un funzionamento psichico: un oggetto non ‘da’ simbolizzare, ma ‘per’ simbolizzare (Roussillon).
2. Nel reale, il ricercare, da parte di Brunella, dei frammenti della madre, dei pochi resti e ricordi che di lei rimanevano.
3. Il mio ricercare, ancora, un senso di questa vicenda: questo tentativo di analisi si è interrotto molti anni fa, ma ha continuato a tornarmi in mente (complice forse il fatto che Brunella è venuta poi ad abitare a poche decine di metri da casa mia e spesso mi capita di incrociarla). Di esso conservo gli appunti clinici e mi è sembrato emblematico di condizioni per le quali possediamo forse ancora un insufficiente apparato concettuale.
Nel ‘500, infine, ricercare indicava una ‘pre-forma' musicale: l’esplorazione (ancora erratica, improvvisata, non ancora ‘intavolata’) delle possibilità timbrico-foniche di uno strumento e di come da esse potessero svilupparsi accordi, ‘punti di imitazione’, che preludevano a un canto successivo (ad esempio nelle funzioni liturgiche).
Brunella è un avvocato di mezza età; appartiene ad una estesa famiglia cosmopolita dagli impressionanti intrecci internazionali: tra genitori, nonni, zii, cugini, cognati e acquisiti vari in casa venivano parlate 6+3 lingue diverse; abitualmente francese, inglese, arabo, tedesco, greco, italiano; abbastanza frequentemente l’ebraico e il portoghese, successivamente lo spagnolo. Brunella le ha imparate tutte, molte le parla perfettamente. Alla quantità di lingue e culture si intrecciava una quantità ancora più impressionante di traumi: incidenti, suicidi, violenze, follie, senza contare la Shoà.
Brunella nasce negli anni 50, del tutto casualmente in Francia. La famiglia risiedeva in Egitto, dove il padre dirigeva il Canale di Suez. La madre, maltese anglo/francese, era fuggita incinta di Brunella in Europa per sottrarsi alla guerra.
Dopo la nascita, Brunella girovaga per un anno o due per diversi paesi europei assieme alla madre, spostandosi tra parenti. La famiglia si ricompone poi per un brevissimo periodo (circa 1 anno e mezzo) in Ecuador, dove il padre si era spostato, in una cittadina semi-desertica sul Pacifico, per costruire un porto.
Quando Brunella ha circa 4 anni la madre “sparisce” in un incidente aereo sulle Ande; di lei furono trovati solo minuscoli frammenti di alcuni oggetti. Sono di questo periodo i pochissimi ricordi che Brunella ne ha (anch’essi piccoli frammenti; reali? immaginari?), che Brunella conserva assieme ad alcune fotografie (che mi mostra).
Poco dopo l’incidente il padre torna in Europa; si sposta per alcuni mesi tra diversi paesi; infine abbandona in Italia i figli (la paziente e una sorellina di pochi mesi), presso una nonna greco/austriaca mai conosciuta prima e descritta come personaggio tirannico e dissintono. Brunella diventa ufficialmente italiana. Il padre riparte per l’Africa a costruire porti, dighe ed infrastrutture; morirà alcoolista a Kartum, qualche anno dopo, non prima di aver quasi totalmente dissipato l’importante fortuna famigliare.
Brunella studia in parte in Italia, molto all’estero, girando tra parenti e conoscenti vari. Le molte esperienze sono l’altra faccia della difficoltà a stabilire relazioni intime durature; esse risultano praticamente assenti, come le relazioni sessuali. Scontrosa, goffa e diffidente nei rapporti interpersonali, ma dotata di grande intelligenza e di stupefacente rapidità di apprendimento, si laurea in giurisprudenza giovanissima, quasi contemporaneamente sia in Italia che negli Stati Uniti; poi prende altre 2 lauree, in Filosofia e in Teologia.
Data la perfetta conoscenza di molte lingue e di diversi sistemi giuridici, ancora giovane ha fortuna come avvocato internazionalista; abbastanza, almeno, da lasciare, dopo pochi anni, l’attività diretta di studio ai collaboratori per dedicarsi alle attività predilette: è una divoratrice competente di filosofia, letteratura, arte, studiosa della mistica ebraica, sufi e occidentale (da Meister Eckhart a Juan de la Cruz ad Edith Stein).
Ricordo bene il primo colloquio. Per arrivare alla sua poltrona era passata, apparentemente senza guardar nulla, accanto a una mia libreria; esordendo: ‘Vedo che si interessa a Edith Stein. Se permette, le sconsiglio quella traduzione. Ė pessima. Se non è in grado di leggere la lingua originale, la traduzione di xxx è molto meglio. Le traduzioni sono importanti, sa…’
Di quell’episodio ricordo 2 cose: lo stupore rispetto a come Brunella avesse individuato ‘al volo’ quel libretto tra centinaia di altri, con sguardo ‘laterale’; ma anche la mia reazione a questo esordio all’apparenza arrogante: non vi avevo sentito sfida o cose simili. C’era nella sua voce uno strano mix di angoscia, timidezza, incertezza, forse anche speranza. Tant’è che mi ero trovato a rispondere solo: ‘Grazie, ne terrò conto. Sì, le traduzioni sono importanti’.
Anche la storia analitica di Brunella è traumatica e singolare. Fragilissima, inquieta, fa un primo tentativo di analisi a New York (con un giovane analista suggeritogli nell’ambiente intellettuale americano-ebraico che allora frequentava); poi, a distanza di qualche anno, fa un secondo tentativo in Europa (con un anziano sacerdote, che si presentava come analista lacaniano); quindi un terzo in Italia (con un analista junghiano). Poi un quarto, con un nostro vecchio collega.
Il secondo tentativo (con l’anziano sacerdote lacaniano) finisce dopo poche sedute (‘dormiva regolarmente tutto il tempo, credo non avesse registrato neppure come mi chiamavo’). Il primo e il terzo tentativo finiscono invece dopo pochi mesi nello stesso modo: i due ‘analisti’ si portano entrambi la paziente, terrorizzata, a letto. Il quarto tentativo, ha un esito diverso, ma non meno drammatico: l’analista, dopo 3 mesi, muore. Brunella racconta: ‘Avevo l’impressione che spesso non mi stesse a sentire, forse anche lui qualche volta dormiva, forse era anche un po’ rincoglionito. Ma mi pareva almeno una brava persona, un uomo gentile e dabbene; o almeno non un pazzo, con cui corressi pericoli’.
Sia negli intermezzi tra questi tentativi che dopo di essi, Brunella, tormentata da una inquietudine incessante, sperimenta ripetute ‘psicoterapie’ con colleghi che la sollecitano ‘a smetterla con questa storia dell’analisi: di tutto ha bisogno, avvocato, fuorché di una analisi! deve solo tenere bene i piedi per terra’.
Da queste psicoterapie usciva inquieta e insoddisfatta: ‘dove avrei potuto collocare, allora, l’urgenza delle angosce, delle fantasie ad occhi aperti, dei sogni che invadevano le mie giornate, se questi dottori tutte le volte che cercavo di parlarne mi dicevano: ‘avvvocatooo, basta! non ci pensi! Stia coi piedi per terra! per terra!!’).
Quella terra su cui Brunella doveva piantare i piedi era in effetti per lei una nebulosa continuamente evanescente e inafferrabile.
Mi ero ovviamente chiesto come mai ben due ‘colleghi’ avessero combinato, a poca distanza di tempo, quel pasticcio. Brunella non è seduttiva, anzi, è sospettosa, schiva, respingente e ha per giunta un tratto di indefinizione sessuale. Non ha mai avuto alcuna relazione sentimentale e rarissimi rapporti sessuali. Solo in poche circostanze in cui era stata appunto letteralmente ‘trascinata a letto’, piuttosto spaventata, da conoscenti o colleghi, con effetti tutt’altro che piacevoli. Mi ha accennato, vergognosa e reticente, anche di rari incontri omosessuali, anche in questo caso ‘sedotta’ e con gli stessi esiti catastrofici. L’angoscia di invasione ‘omosessuale’ ha già fatto irruzione nelle prime settimane e sembra essere il risvolto di qualsiasi avvicinamento, di quel radicale bisogno di contatto ‘inerme’ che, sotto un fragile schermo di arroganza, trasmette.
Brunella è inoltre brutta, impacciata; racconta di essersi sempre sentita inadeguata rispetto all’immagine femminile della madre, ricordata nelle frequentazioni dorate e cosmopolite degli anni 50 (sia il padre che la madre erano bellissimi). Brunella in seconda seduta mi porta una foto antecedente la sua nascita dove la giovane coppia sembra quella di due attori hollywoodiani: luminosa e sorridente, in abiti da sera al tavolo di un posto esotico elegante. Brunella sembra invece ‘Edward Mani di Forbice’: una patologia muscolare agli arti superiori la rende quasi incapace di afferrare le cose e perfino di stringere le mani: al posto di stringere la mano cerca di avvolgerla con un movimento, tutto storto, avviticchiante e roteante, che supplisce una presa impossibile.
Mi viene in mente a un certo punto che forse le disastrose violazioni dei ‘confini’ da parte dei due analisti potevano essere state innescate da un fraintendimento della ‘pressione’ che Brunella fa avvertire nel controtransfert: una pressione ‘globale' e potente, in cui bisogni di diverso ordine si confondono e sconfinano…
Lo stato d’animo con cui all’inizio accoglievo Brunella era infatti ben diverso da quello consueto di rilassata curiosità degli esordi di una nuova analisi. Ogni elemento sensoriale della seduta, i rumori, i colori delle cose, le pause e le dinamiche delle parole, la loro intonazione, i pochi silenzi, i respiri, gli odori: tutto sembrava arrivargli in una amplificazione estetica potentissima. Brunella era un enorme apparato ricettivo, un radar alla ricerca di qualcosa che continuamente sfuggiva.
Non c’era né rilassamento, né divertita curiosità. Come se tutte le volte fosse in gioco qualcosa di fondamentale.
Da subito la paziente rovescia in seduta un turbine di sogni, associazioni, immagini, sensazioni: un ‘troppo pieno’ ininterrotto e inelaborabile che, di nuovo, non ho affatto l’impressione sia primariamente ‘difensivo’. C’è piuttosto una intensità che straripa rispetto a qualsiasi genere di rappresentazione cerchi di contenerla.
L’enorme apparato recettivo che è la mente di Brunella, posizionato alla ricerca di un’esperienza che non riesce a fissare, funziona come una sorta di prisma rotante che genera una turbolenza continua in cui si alternano (anzi piuttosto si mescolano!) emozioni e tonalità affettive anche contrastanti: desiderio e paura di contatto, vuoto, persecuzione, bisogni fusionali, erotici, angosce di invasione e dissoluzione.
A un certo punto, dopo forse qualche settimana, cominciano a comparire momenti in cui il vortice rallenta; o meglio, dentro di esso compaiono delle pause ‘elencatorie-classificatorie’: minuziose elencazioni, classificazioni, descrizioni, di tutti i particolari più irrilevanti, di qualcosa: ad esempio un luogo (la casa in Ecuador), o oggetti (la collezione di fucili o i trofei del padre, gran cacciatore), sterminate bibliografie filosofiche. Catalogazioni che sembrano un altro tentativo di fissare nessi e continuità impossibili…
Durante una di queste sedute mi viene in mente la pagina emozionante che J. B. Pontalis scrisse nella NRP in occasione della morte di Georges Perec (di cui era stato analista) sulla sua ossessione classificatoria, sui suoi infiniti cataloghi, sulle sue raccolte di frammenti di esperienza o di lacerti di memorie che non riescono mai a comporre alcuna storia, se non quella del doloroso fallimento di ogni ricordare. In quella pagina Pontalis accennava delicatamente al vuoto sullo sfondo della ossessione elencativa di questo bizzarro e geniale ‘gnomo cabalista’ (Calvino) della letteratura del ‘900: la sparizione della madre a Birkenau quando lui, orfano del padre, aveva pochi anni. Uno dei più celebri scritti di Perec (che si chiamava Peretz ed era ebreo polacco) è il lipogramma “La Disparition”: un racconto di 300 pagine scritte senza la lettera ‘e’. La lettera che congiunge, ricorda Pontalis.
La butto difensivamente in “letteratura”?
Brunella mi racconta che la sua occupazione ossessiva negli ultimi mesi è quella di ‘cercare una casa'; il suo studio è nel centro di Milano, a pochi passi dal mio; lì vicino ha anche una casa, bellissima, ma non la sente sua. Ne fantastica una in campagna, in collina: passa ore sui siti internet di case, ma nessuna va bene. Con un certo allarme apprendo che medita di acquistare una cascina in un posto sperduto in alta Val Curone; me lo descrive minuziosamente: le linee delle colline, i calanchi argillosi, il colore dei boschi, le tipologie degli alberi. Lo riconoscerei a occhi chiusi: è a poche centinaia di metri dalla mia casa (lui non lo sa? ma come fa a conoscere quei posti sperduti?!)
C’è qualcosa di radicalmente iperbolico con cui Brunella mi confronta. Altro che ‘campo’, bi o poli-personale! Nessun ‘campo’ c’è ancora. Semmai un terreno pieno di geyser o una nebulosa ad altissima temperatura, che si dilata e restringe alla ricerca di una qualche organizzazione, che ogni tanto investe la mia mente.
C’è un troppo. Mi passano per la mente i vari psicoterapeuti e i diversi loro modi di evitare l’impatto: ‘Per terra, avvocato, i piedi per terra!’; ma anche il vecchio analista che se la dorme; o le 'vie brevi’ di risolvere la questione dei giovani analisti.
Nella mitigazione dell’intensità che turbina in seduta forse è in gioco qualcosa di importante.
Sulla mitigazione mi viene in mente la linguista pavese Claudia Caffi, allieva di Maria Corti, che scrisse un bellissimo libro quasi mezzo secolo fa. Me l’aveva presentata De Martis quando ero un giovane assistente (allora mi occupavo di linguaggio schizofrenico), perché lavorassimo assieme. Qui non si trattava di una ‘mitigazione’ retorica, di una strategia del linguaggio; neppure di un “ridimensionamento” intenzionale del tono affettivo. Era in gioco qualcosa che riguardava il sentire stesso, prima ancora che il suo rapporto col simbolico.
La mitigazione: “se uno non ce l’ha, non se la può dare”. Don Abbondio parafrasato.
Proprio in quel periodo facevo lezione ai candidati sulle prime fasi dell’analisi. Forse anche dottrina e immagini famigliari di chi ci ha preceduto potevano offrire un qualche conforto nella tempesta? La paziente tessitura della tela del lavoro di coppia, dell’ambiente analitico, i consigli di Freud di lasciare al paziente tutto il tempo per inserire l’analista tra le sue antiche identificazioni benevole. I saggi avvertimenti di tanti maestri (Gitelson, Etchegoyen, Di Chiara…) sulla mobilizzazione pulsionale che questa fase comporta: l’angoscia, i timori, le idealizzazioni, le attese, il materiale caleidoscopico con cui all’inizio il paziente spesso ‘sonda’ situazione analitica e analista, per verificare quanto siano stabili, affidabili, prevedibili: quali le aree di ricezione empatica, sensibilità, tenuta? quali quelle di opacità, di pregiudizio?
Con un certo sollievo dopo alcune settimane comincio a recuperare un po’ di attenzione fluttuante, a distrarmi, a vagare con il pensiero con la paziente, ma anche per i fatti miei, a scendere a tratti ‘sottocoperta’ lasciando le vele, invece di cercare di stringere il vento di burrasca.
Il vento continua forte, ma la mia attenzione viene sempre meno catturata dal tumulto di contenuti, quanto da altri aspetti del flusso affettivo del discorso: aspetti di ‘intonazione’, ad esempio, o di dinamica o andamento o ritmo. In questi aspetti mi sembrava si abbozzassero alcune gestalten.
Cerco di spiegarmi, scusandomi per la sovrapposizione di linguaggi cui sono costretto, in mancanza di alternative.
L’intensità
L’intensità procedeva a ondate: un ‘crescendo’ progressivo fino a un ‘fortissimo' in cui turbinavano temi vari. Seguiva un ‘diminuendo' in cui il frastuono si smorzava, fino a un pianissimo che talvolta svaniva in un ‘morendo al niente’. Poi l’onda ricominciava a salire.
Qualcosa di simile accadeva con l’ ‘agogica’ (per così dire), cioè con la velocità di questo andamento e i suoi cambiamenti: all’inizio era un perenne ‘prestissimo con fuoco’, ora cominciavano a comparire diverse transizioni, tra il grave e il presto.
Il ritmo dei temi
Il turbinio caotico dell’inizio cominciava a organizzarsi in una sorta di ritmo, fondamentalmente quaternario. Il ‘battere’ era su ciò che mi verrebbe da chiamare una ‘iperestesia dolorosa’ dell’esperienza: una particolare angoscia che non percepivo come una angoscia ‘di segnale’, ma come una sorta di ‘agonia primitiva’, di mancanza all’essere, anche se per trovare una prima raffigurazione ‘prendeva a prestito’ di volta in volta le forme più varie (ricerca spasmodica, angosce di invasione/infrazione primitive, minacce di derubamento, omosessuali ecc.). Seguiva la ricerca di una mitigazione; talvolta la commozione nel contatto (se raggiunto). Poi, di nuovo veniva accentata l’inevitabile perdita e, infine, il montare nuovamente minaccioso di smarrimento, ricerca, persecuzione… La battuta successiva aveva una analoga struttura di fondo (anche se con contenuti diversi).
Questi andamenti instauravano una sorta di ‘proto-regolarità’ nel caleidoscopio di comunicazioni di Brunella.
Intonazione, ritmo: temi cari a personaggi come Carl Stumpf (Tonpsychologie 1887-1890), allievo di Brentano, maestro di Husserl, relatore di tesi di dottorato di Robert Musil e fondatore della scuola berlinese della ‘forma’; o Karl Groos (Einleitung in die Aesthetik 1892), o Theodor Lipps (il fondatore della teoria dell’empatia). Tali autori li vedevano come elementi centrali nella ‘proto-intenzionalità’, nel ‘movimento dell’anima che si protende verso l’oggetto’ (Lipps, 1903, pp. 421-422). Quegli psicologi e estetologi tedeschi che Freud aveva letto (Grundtatsachen des Seelenlebens 1883 di Lipps è il libro che Freud stava divorando mentre scriveva l’Interpretazione dei sogni, come scrive a Fliess il 31 agosto 1898). Arrivato al capitolo centrale, dedicato al rapporto tra i suoni, Freud bruscamente chiuse, dicendo: ‘lì mi sono bloccato’. Freud si era incuriosito del pensiero di tali autori, di cui c’è traccia significativa nella sua opera, ma poi la sua strada era stata necessariamente un’altra.
In una seduta del secondo mese, tra le ondate del materiale di Brunella, mi viene in mente una situazione di qualche anno prima: non avevo consultato le previsioni del tempo (allora non c’era internet e alla partenza il tempo era perfetto) e traversando la sera il tratto tra Itaca e Cefalonia ero stato sorpreso da un mare molto grosso (seppi dopo che avevano perfino sospeso la navigazione dei traghetti). Onde alte diversi metri si susseguivano: a ogni onda si vedeva solo un muro d’acqua sul quale bisognava inerpicarsi, e poi giù, fino al muro successivo. Per fortuna il movimento era molto lento e le onde regolari e distanziate. Si trattava di adeguarsi al ritmo. Con un po’ di sangue freddo quella volta ce l’eravamo cavata (anche se chi era con me ancora ricorda quella traversata come un incubo).
Possibile che ‘il movimento dell’anima che si protende all’oggetto’ assumesse in Brunella quelle caratteristiche?
Perché quella associazione? Ero tranquillo nel mio studio, nella mia comoda poltrona; se con la calma e adattandosi al ritmo delle onde era stato possibile quella volta (quando tra onde alte c’ero davvero), figuriamoci ora, che i pericoli erano solo immaginari! Suvvia, dunque, non esageriamo…
Mi accorgevo di adottare una sorta di minimalismo interpretativo, non per scelta tecnica, ma perché mi veniva così e non sarei stato in grado di fare altro. Quando possibile, mostravo a Brunella l’andamento sopra descritto: il ritmo fondamentale binario (grandi ondate e vuoto) e l’altro quaternario che compariva dentro di esso, in modo da fare di Brunella se non un co-pilota almeno una compagna di viaggio più consapevole della navigazione.
Poi, mi trovavo a ‘ridescrivere’ le sequenze di Brunella con intonazione e intensità un po’ diverse, magari una quinta sotto o ‘in diminuendo’; talvolta introducendo qualche variazione, altre volte dilatando alcune sotto-sequenze.
Mitigazione?
Particolare attenzione poi ‘ci’ veniva da portare (uso il plurale ‘ci’ perché questa ‘attenzione condivisa’, remota all’inizio, mi era parsa un raggiungimento) ai momenti in cui l’iperestesia dolorosa si rilasciava in un attimo di contatto calmo, non subito occupato dalle ossessive ‘catalogazioni’. Erano momenti di commozione, in cui riaffioravano remote tracce di un’esperienza buona.
Quei punti di quiete riavviavano l’onda persecutoria. Mi pareva importante che durassero un poco di più e fossero più tollerabili. E poi ci eravamo abituati che da lì sarebbe ripartita, inesorabile, la sequenza successiva. Cominciamo pure a scherzarci, su questa dannazione…
Dopo poco più di un anno ho avuto l’impressione che rimodulazioni, organizzatori, discrimini, cominciassero a dare perfino frutti anche a livello rappresentativo, a sostenere un movimento più tradizionalmente interpretativo.
La “rompeolas”
Brunella ‘porta’ un sogno: proprio nel senso che lo racconta, mentre prima i sogni si mescolavano al torrente di altre comunicazioni. Brunella mi dice: “Questa notte ho fatto un sogno che le voglio raccontare”.
Nel sogno Brunella, piccolissima, è su una spiaggia dell’Ecuador; non c’è nessuno, si sente persa, l’oceano è agitatissimo. Poi lei è più grande, accanto ci sono io; su una macchina ci inoltriamo per una struttura che prima non c’era: una specie di “rompeolas” (frangi-onde), larga, che si inoltra nell’oceano. Non è chiaro dove porti, va avanti nel mare: da una parte grandi onde e dall’altra un mare calmo. Noi procediamo a lungo in macchina; siamo lontanissimi dalla spiaggia. Io ho un ripensamento, svolto a “U” per tornare indietro, Brunella è preoccupata: forse la rompeolas non è abbastanza larga e queste manovre non sono possibili? Il terrore riprende…
Quante associazioni! lo schermo parastimoli di Freud, Winnicott e Bion…
Di quali modelli disponiamo, per il costituirsi, in condizioni del genere, di abbozzi di contenitore come questa incerta rompeolas?
Freud nel suo breve scritto di ‘tecnica’ (1913), mise in guardia dall’illusione topografica: l’ingenuità di credere che l’analisi (tanto più il suo inizio) fosse una questione di ‘collegamenti’ cognitivi, di ritrovamento del giusto nesso tra rappresentazioni rimosse e parole per dirle.
Freud parlava dell’inconscio rimosso. A maggior ragione l’argomento si estende a ciò che non ha avuto ancora accesso alla rappresentabilità.
Che si parli di Wahrnehmungszeichen o di elementi beta, che lo si intenda freudianamente come Bejahung (‘ammissione preliminare’, il contrario della lacaniana forclusione) o bionianamente come trasformazione in alfa, questo passaggio non può essere adeguatamente inteso come un passaggio ‘schematico’, in cui un materiale informe riceve ‘dall’esterno’ il suggello del simbolico. Esso presuppone altro: il lavoro sulle pre-condizioni della pensabilità, la costruzione delle condizioni della sua tollerabilità affettiva.
In una seduta successiva, in una delle pause elencatorie (diventate più rare e più brevi) sono io che ossessivamente comincio a cercare di ricordare un ‘Mottetto’ di Montale; il pensiero mi accompagna per tutta la seduta, come una specie di basso ostinato.
Non capisco perché. Forse l’aggancio associativo erano state le descrizioni dei cantieri e dei moli dove il padre di Brunella lavorava, delle loro atmosfere ‘ferrose', come quelle di Sottoripa, il quartiere genovese del mottetto, delle loro ‘oscure primavere’ che non fiorivano (malgrado i posti esotici)? O il ‘tiro aggiustato' (mirato ben bene) del padre gran cacciatore?
Perché mi ostino a ritrovare quei versi che non mi tornano in mente? Una familiarità rassicurante? Montale era la mia passione da ragazzo… La sto di nuovo buttando in letteratura?
Subito dopo la seduta vado a rileggerli. Mesi dopo vi ho intravvisto il presagio di interruzione.
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un ‘tiro aggiustato’ mi sommuove
ogni opera, un grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera di Sottoripa…
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro
Un ronzio lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia ai vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
E l’inferno è certo.
Gianfranco Contini chiamò questo mottetto ‘la ricerca del segno perduto’. Il ‘segno’ proprio nel suo significato più forte, quello scritturale di ‘Signum’ (miracolo di presenza concessa, per un attimo, ‘in Grazia'). Solo molto dopo mi accorsi che il penultimo verso si spezza proprio sull’Oggetto della ricerca fallita: quel te che l’ossitono sembra appuntire come una scheggia dolorosa.
Dopo poche sedute accadde. Non sono ancora sicuro da ‘chi’ provenne il fraintendimento. Era stata Brunella a non voler intendere che quei quattro giorni non ci sarei stato, o ero stato io a non spiegarmi chiaramente? Io ero sicuro di averglielo ‘comunicato’, ma evidentemente non lo avevo fatto abbastanza efficacemente. Avevo forse lasciato un margine di equivoco?
Quando tornai (era morta mia madre, cosa di cui nulla Brunella sapeva), Brunella non venne in seduta. Mi mandò un biglietto formale, col saldo e una riga: mi ringraziava, ma non poteva tollerare quel che era successo.
L’ho re-incontrata spesso, da allora. Mi saluta illuminandosi per un attimo e quasi contemporaneamente scantona, con l’aria di chi non può rischiare di ri-avvicinarsi: ‘Lo sai: debbo riperderti e non posso’.
Brunella mi è parsa un testimone di come le premesse dell’analisi siano questione che riguarda più l’estetica della ricezione (reciproca) che l’ermeneutica. È infatti su un terreno pre-cognitivo che si gioca il prodursi, prima ancora che del senso, di un reticolo di pre-significazioni, di ri-condivisioni di esperienze da cui può nascere, forse, un riconoscimento “efficace” di significati. Modulazioni di “Stimmungen” (accordature, intonazioni, atmosfere, stati dell’anima, umore…) che, come scrisse Merleau-Ponty, ‘precedono il loro significato’; o per usare il gergo di alcuni estetologi (questa volta contemporanei: S. Borutti 2006; A. Barale 2008; F. Desideri 2012) reticolo di ‘proto-oggetti’ espressione di un ‘commercio estetico’ col mondo che precede qualsiasi linguaggio, ma che non per questo è una cognitio minor (o almeno lo è solo nell’ottica di un abbaglio ‘mentalistico’, che taglia fuori la costituzione del senso dal suo terreno vitale).
Ritorna la domanda: a distanza di 100 anni da L’Io e l’ Es, di quali modelli disponiamo, adeguati a questa dimensione?
Certo, dopo Freud ci sono state tante cose preziose: l’atteggiamento “diatrofico” di Gitelson (che rielabora in senso evolutivo le indicazioni freudiane), l’holding e la transizionalità di Winnicott e poi Bion, con il contenitore, la rêverie, la capacità negativa…
Ma c’è ancora molta strada da fare per entrare più all’interno di questa fase costitutiva.
Non ho risposte. Ho l’impressione che quel che possiamo tentare, intanto, sono ulteriori descrizioni di questa dimensione, che sta prima di qualsiasi distinzione tra interno ed esterno, soggetto e oggetto, analista e paziente, conscio e inconscio, affetto e rappresentazione… qualcosa che sta al ‘limite’ dell’intenzionalità stessa (Desideri 2011) e di cui, senza adeguate ‘costruzioni’, facciamo fatica a parlare; e quando cerchiamo di farlo facciamo delle forzature, delle riduzioni (al mentale, al culturale, allo psicologico…) o goffe trasposizioni di linguaggi (come le mie, ora).
Dunque? Dobbiamo rassegnarci all’ineffabile? Freud non vorrebbe… Ricordate la lettera a Groddeck?
Nell’analisi di Brunella il primo reticolo di contenitore analitico, la ‘rompeolas’, avviene, con un linguaggio bioniano, attraverso alcuni ‘fatti scelti’ a forte valenza estetico-affettiva.
Ma perché quel ‘fatto scelto’? Qual è la fonte attrattiva o attenzionale che organizza quel fatto scelto, quel primo reticolo? Perché quelli e non altri? Da dove quella scelta? Ė una arbitraria ‘individuazione’ che l’analista, con la sua sensibilità ed esperienza (o addirittura le sue attese teoriche) ‘impone’ come orizzonte di senso al materiale informe del paziente?
Oppure il suo carattere di ‘sorpresa’ (Valery, 1937) che risuona nel corpo (e nel corpo della relazione transferale - controtransferale) spiazza qualsiasi riduzione intellettualistica?
Incontriamo qui problemi le cui formulazioni spesso soffrono esse stesse di ‘illusione topografica’: trattano la questione come se un orizzonte simbolico-linguistico-rappresentativo di cui qualcuno è portatore dovesse catturare una esperienza pre-simbolica fornendole lo ‘schema’. Visione buona per i cognitivisti, ma insoddisfacente.
Segnalo come non si tratti affatto solo di questioni teoriche, perché le diverse opzioni corrispondono non solo a diverse concezioni, ma anche a diverse disposizioni dell’incontro e all’incontro.
Ma qui mi fermo. Perché questi interrogativi volevano innanzitutto essere un omaggio a Freud; ma, per ‘riperderlo’, ci stiamo allontanando troppo da lui.
Bibliografia
Borutti, S. (2006). Filosofia dei sensi. Cortina, Milano
Barale, A. (2009). La malinconia dell'immagine: rappresentazione e significato in W. Benjamin e A. Warburg. Firenze University Press, Firenze
Desideri, F. (2011). La percezione riflessa. Estetica e filosofia della mente. Cortina, Milano
Desideri, F. (2018). Origine dell'estetica. Carocci, Bologna
Freud, S. (1914). Introduzione al Narcisismo. OSF, 7
Freud, S. (1915). Metapsicologia. OSF, 8
Freud, S. (1920). Al di là del principio di piacere. OSF, 9
Freud, S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. OSF, 9
Isler, W. (1987). L'atto della lettura. Una teoria della risposta estetica. Mulino, Bologna
Stumpf, C. (1887-90). Tonpsychologie. Cambridge University Press. Cambridge, 2013
Gross, K. (1892). Einladung in die Aesthetik, in Aestetisch und Schoen, Classsic Reprint. FB&C, Monaco, 2018
Lipps, T. (1903). Aesthetic. Voss, Hamburg, 1903-6
Montale, E. (1939). I Mottetti. In Le Occasioni, Einaudi
Valery, P. (1937). Discorso sull'estetica. In La caccia magica. Guida, Napoli, 1985
[1] Freud scriveva a Groddeck (in una lettera del giugno 1917): ‘Temo che Lei sia un filosofo, affascinato dall’unità, spinto dalla Sua tendenza monistica a minimizzare tutte le belle differenze della natura. Ma crede, con ciò, che ci possiamo liberare dalle differenze?’