Introduzione

Gli spazi possono reali e immaginari. Possono raccontare storie e spiegare storie.

Gli spazi possono essere interrotti e trasformati attraverso pratiche artistiche e letterarie. Degli spazi ci si può appropriare.

Appropriazione e uso dello spazio sono atti politici

(bel hooks, Elogio del margine, scrivere al buio)1

 

(...) Potrei rappresentare le tappe della mia vita come una successione di finestre che si aprono...insisto invece perché le porte siano chiuse:

ogni stanza deve avere un uso proprio, ben delimitato. La mia “topica” soggettiva è insieme quella delle finestre aperte e della stanza per sé

(Jean-Bertrand Pontalis, Finestre) 2

 

Abbiamo immaginato questo scritto come un’introduzione che intreccia le diverse proposte attorno ad un tema centrale: gli spazi di cura. Spazi che non sono mai semplici contenitori fisici o luoghi neutrali, gli spazi sono a volte saturi di storie, spesso legate al dominio, alle gerarchie di potere o alla resistenza. Per esempio, uno spazio urbano può raccontare storie di segregazione razziale, di classe, o di genere o al contrario può parlare di cura, di scambio e di accoglienza. Ogni spazio può essere carico di significati contrastanti, e la sua interpretazione dipende da chi lo abita, lo vive e lo reinventa, facendo di ogni luogo una tela dinamica su cui si scrivono storie di speranza e di trasformazione. Prendere possesso di uno spazio — sia esso fisico, mentale, o simbolico — è un atto di potere. Si può prendere possesso di uno spazio per dare visibilità ad una voce silenziata, per resistere ad una storia dominante, o per creare nuove forme di comunità e di relazione.

Uno spazio di cura non è un luogo di gratificazione immediata, ma un contesto stabile e interumano che consente il movimento, la crescita, lo sviluppo delle potenzialità personali e collettive. È uno spazio che respira, che accoglie senza soffocare, che si sottrae alla rigidità delle prescrizioni per aprirsi alla vitalità del rispecchiamento empatico (Ferruta, 2019)3.
La riflessione sullo spazio di cura si intreccia con una questione più ampia: quali spazi permettono ai soggetti di esistere, esprimersi, trasformarsi? Nel 1928, la celebre scrittrice inglese, Virginia Woolf, viene invitata a tenere una serie di conferenze su Le donne e il romanzo che diviene occasione di riflessione sul tema della condizione delle donne nella società e nella letteratura. Il saggio offre in realtà molto di più, arrivando ad acute riflessioni sulla creatività e la mente umana.

La scrittrice inizia interrogandosi sui motivi della scarsezza di opere femminili in ambito letterario, e ci consegna un’analisi attenta, e attuale, sull’esclusione operata dalla cultura patriarcale che ha relegato le donne ai margini del sapere, impedendo loro di accedervi e di contribuirvi in maniera attiva.

Woolf (2016)4 parla della difficoltà dello scrivere per gli uomini e per le donne: «...per la donna, pensavo guardando gli scaffali vuoti, tali diffi- coltà erano infinitamente più formidabili. In primo luogo avere una stan- za tutta per lei, e non parliamo di una stanza silenziosa o a prova di rumore, cosa impensabile a meno che i suoi genitori non fossero eccezional- mente ricchi o molto nobili [...]. Tali difficoltà materiali erano terribili; ma assai peggiori erano le condizioni immateriali. [...] A lei il mondo non diceva, come agli uomini, Scrivi pure, se vuoi; per me non fa alcuna differenza. Il mondo sganasciandosi dalle risate le diceva: «Scrivere? E a che ti serve scrivere?» (pp. 107-109).

Nel saggio Virginia Woolf (2016) abbozza anche un interessante schema dell’anima umana: “in ognuno di noi presiedono due forze, una maschile e una femminile (nell’uomo predomina quella maschile e viceversa) ...
Lo stato più normale e più comodo è quello in cui le due forze convivono insieme in una armonia. Forse aveva ragione Coleridge quando osservò che la mente superiore è androgina. Ed è quando ha luogo questa fusione che la mente diventa pienamente fertile e può far uso di tutte le sue facoltà.

La mente androgina è risonante e porosa, è naturalmente creatrice” (p. 201).
Avere una stanza tutta per sè, potremmo dire con le parole di Winnicott (1971)5 vuol dire trovare quello spazio in cui “raccogliersi e esistere come una unità, non come una difesa contro l’angoscia, ma come espressione di io sono, io sono vivo, io sono me stesso. Da questa posizione ogni cosa è creativa” (p. 98). Avere una stanza tutta per sé significa godere di una dimensione intima di libertà e pace affinché si possano comporre opere, romanzi o poesie; ma anche avere uno spazio in cui vivere relazioni con oggetti d’amore e non di odio. Per far evolvere la cura, abbiamo bisogno di comprendere meglio cosa permette agli esseri umani di vivere bene insieme. Serve uno sguardo d’insieme che ci aiuti a superare la mera reazione ai segnali del disagio – dolore, sintomo, crisi – per riconoscere che la risposta alla sofferenza non sta in un semplice opposto, ma in un ripensamento profondo dello spazio in cui la cura può avvenire. Uno spazio che non esclude, ma accoglie; che non impone, ma permette di essere.

Raccogliendo il materiale della giornata di studi del Nove novembre 2024, è nata l’esigenza di aprire ulteriori finestre per includere nuovi spazi, che possano dialogare insieme, in un arricchimento reciproco: Virginia Woolf ci ha insegnato l’importanza di “una stanza tutta per sé”, ma anche la necessità di portare ciò che nasce in quello spazio privato verso l’esterno, in un luogo di incontro e condivisione con l’altro. Il suo scritto è stato concepito come una riflessione nata in una dimensione intima e pensata per aprirsi ad una sfera collettiva nella condivisione con altre donne in una conferenza. Così rileggendo i lavori del convegno, abbiamo pensato di coinvolgere nuove voci che ci sembra possano allargare il campo includendo ulteriori spazi in cui pensiero e riflessioni possano circolare: la voce di operatrici che si occupano sul territorio della presa in carico di situazioni di violenza, con diversa formazione e all’interno di diversi contesti, la voce di realtà sociali impegnate in progetti di ripensamento dello spazio urbano in un’ottica di genere, la voce della letteratura che sempre offre occasione di osservare e ripensare alla realtà e ai ruoli di genere.

Vogliamo immaginare questo numero come un contributo per mantenere vivo il pensiero su questi temi, farlo circolare in contesti diversi e alimentando contaminazioni germinative. Ci piace pensare ad una psicoanalisi che possa tessere fili e offrirsi come pratica etica e sociale-politica, consentendo di riflettere su ciò che accade nella società contemporanea, una psicoanalisi che lavori per favorire l’apertura di uno spazio che respira in cui le polarità opposte non si escludano (rischiando di collassare una sull’altra in una dimensione di violenza), ma restino in tensione dialettica, trasformandosi in una forza creativa anziché distruttiva.

 

1 Hooks, b. (2018). Elogio del margine, scrivere al buio. Tamu Editore

2 Pontalis, J.B. (2001). Finestre. Roma: Edizioni E/O

3 Ferruta, A. (2019). La cura psicoanalitica contemporanea. Dialoghi aperti

4 Woolf, V. (2016). Una stanza tutta per sè. Torino: Einaudie

5 Winnicott, D.W. (1971). Gioco e realtà. Roma: Armando editore, 2005

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