ER: Pattinando sull'orlo dell'abisso
di Luisa Cerqua
Joker è un film pluripremiato e pluricommentato, è stato definito una sinfonia di tematiche. Il palcoscenico in cui ci appare il protagonista futuro Joker, al secolo Arthur, è Gotham, una città contornata da uno skyline multi turrito, fosca, distante e minacciosa; un non luogo degradato e indifferente alla sofferenza umana come può esserlo solo una città senza occhi per vedere i suoi figli (così come la madre di Arthur) assordata dall’incessante traffico e governata da un sindaco/padre, distante e preso solo dai propri interessi.
In questo film, diversi temi s’intrecciano con quello centrale della maschera indossata dal suo protagonista assoluto: Arthur/Joker. Ma cosa nasconde l’innocua maschera da clown che Arthur indossa ogni giorno?
“Spero che la mia morte abbia più senso della mia vita”, annota il futuro Joker sul suo diario.
Vediamo Arthur svolgere il lavoro di clown, ogni giorno indossa il suo costume e finge di essere felice come un bambino spensierato, l’esatto contrario di ciò che egli è: un paziente psichiatrico dal lungo passato di ricoveri, sotto copertura farmacologica e anoressico, non più giovane, solo e infelicemente consapevole della sua triste condizione, al punto che sul suo diario di paziente annota: “Il lato peggiore della malattia, è che la gente si aspetta che ti comporti come se non lo fossi”.
Ogni giorno, attraverso il clown, egli impersona il ruolo di Happy affibbiatogli nell’infanzia dalla madre delirante e violenta, quale tragica realizzazione /caricatura del bimbo felice al servizio della felicità materna.
La cosa più vera di Arthur è la sua dolente disperazione. Una disperazione che trapela dalla sua inquietante risata/pianto, sintomo che lo affligge quando le emozioni dolorose lo sommergono. E’ una sorta di ghigno irrefrenabile che lo soffoca, evocando l’urlo di Munch: “Io rido soltanto esteriormente - dice Arthur /Joker - Il mio sorriso è solo a fior di pelle. Se tu potessi vedermi dentro, io sto piangendo”.
Sembra riso ma è pena disperata, dolore invivibile trasformato in ghigno indecifrabile.
Credo che la temibile pseudo risata compulsiva di Arthur non ancora Joker, esprima il nucleo più vero di questo personaggio che, aldilà di quella risata non è Nulla, se non un grumo di dolore invivibile.
Solo diventando Joker e pubblicamente riconosciuto in quelle sembianze, Arthur potrà dire di sé: “Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto. E la gente comincia a notarlo”
Non so se possiamo definire Joker un criminale o un vendicatore di diseredati, certamente è un anti eroe.
E’ un’anima sola “su un corpo celeste”, come potrebbe dire la Ortese, prigioniera della sua condizione.
Il mondo per lui è un incubo pieno di persecutori, la casa un rifugio dominato dalla follia materna, figura evanescente che vive alla luce di uno schermo TV troneggiante su tutto (lo definirei fossile guida del xxesimo secolo).
Nel mondo solitario di Arthur le star televisive fungono da figure parentali, sono portavoce di una realtà fantasma, alfieri dell’ovvio, del pensiero semplificato che fa da contraltare alla complessità caotica e cangiante di un mondo ostile governato dal non pensiero.
Proprio le fauci dello schermo tv, sempre avide di prede da sbranare e da immolare sull’altare del “ridicul”, diventano il luogo in cui si svela il mostruoso di questa vicenda. Accade spesso di vedere come l’Apparire, l’essere personaggio in TV, possa diventare l’ultima spiaggia che fa sentire reale, quindi esistente, anche chi dentro di sé non sente di esserlo. “Video ergo sum”, si potrebbe dire parafrasando Cartesio.
La compulsiva risata di Arthur, inverso dell’urlo disperato di chi non ha mai vissuto un’infanzia e si rifugia in un’infanzia immaginaria, irreale e senza fine, come quella del clown, fin dall’inizio ci annuncia Joker.
Una sorta di falso sé ha finora permesso ad Arthur di vivere rimanendo sospeso nel vuoto, senza identità e fuori dal tempo, ma fragile oggetto di scherno.
Sarà la distruttività, paradossalmente, a rendere reale quell’irreale esistenza, e la violenza farà da stampella al vuoto identitario: Joker è il doppio dell’uomo-nulla deriso, la furia distruttiva dell’uomo senza qualità non visto e inascoltato, finora!
La metamorfosi che trasforma Arthur da vittima in carnefice, trasforma in vittima-bersaglio il suo idolo televisivo (De Niro) la violenza distruttiva di Joker, offre ad Arthur la fuggevole illusione di essere esistente attraverso la morte, di trionfare sul vuoto identitario. Purtroppo la violenza può diventare il tragico modo per sentirsi esistenti e la follia può diventare una fuga dal dolore che annienta.
Vediamo allora che la stessa maschera che cancella il volto reale di Arthur, gli offre il volto surreale di colui che, dando la morte, per un istante si sente vivo.
Il regista Todd Phillips (trilogia Una notte da leoni) con Joker propone un modo alternativo di guardare ai supereroi dei fumetti.
Il suo è un Joker distante da quello di Batman o di altre realizzazioni filmiche. E’ un curioso tipo di “villain”, un cattivo-malvagio forse vendicatore, triste e innocente come può esserlo solo il clown.
E’ l’antieroe che, “a sua insaputa”, diventa simbolo di masse inascoltate di emarginati urbani.
La maschera di questo Joker sembra ispirata ai cattivi introdotti negli anni 20’ dall’espressionismo tedesco (Fritz Lang, R. Wine). I Cattivi che mettono in risalto il contrasto tra uomo e mostro, tra umano e disumano, che svelano il disumano dell’umanità e la perdita della coscienza, l’affermarsi di ciò che può nascondersi dentro di noi. Per alcuni, perdersi nella malvagità e nella distruttività, diventa il modo arrogarsi un mortifero diritto a sentirsi esistenti ( kamikaze, Isis etc.).
L’orrore, il terrore e la megalomania distruttiva, allora, diventano l’antidoto al vuoto esistenziale, alla solitudine cosmica e alla desolazione di esistenze anaffettive e derise perché tali. “Non sapevo se esistevo- dice Joker/Arthur- ma esisto!”
Il tema della maschera ci affascina e quella di Joker è una maschera forte, vivificata dai colori del costume e del trucco, dal raffinato gesto di mimo, dalla fisicità di Joachin Phoenix che per questa interpretazione è dimagrito venti chili. Lo vediamo accennare leggiadro i passi di danza di Fred Astaire e quelli di Chaplin che, aggraziato, pattina sul ghiaccio bordeggiando su un baratro, così come la mente di Arthur sull’abisso della follia.
Sotto la maschera dunque c’è il doppio di sé: l’estraneo che abita in noi, segreto e temuto, negato e proiettato sull’altro da sé. Il dark side terrifico perché distruttivamente violento, perciò scisso e scagliato lontano da sé, preferibilmente depositato in ciò che viviamo come lontano da noi e alieno, straniero.