Bambini e adolescenti

La disabilità e il senso della vita

Psicoanalisi e disabilità. La necessità di mantenere una tensione attiva tra il continuare a nutrire speranza e il senso del limite nel rapporto tra genitori e figli disabili.


La disabilità e il senso della vita

di Riccardo Chiarelli[1]

 

Durante gli anni di lavoro clinico ho avuto modo di conoscere tanti genitori di figli con disabilità, ascoltare i loro dubbi, perplessità, sentire messa in discussione la loro identità genitoriale, la difficoltà, per molti di loro, a comprendere empaticamente i propri figli disabili durante le varie tappe di crescita, a calarsi nei loro bisogni, a vivere periodi di disperazione, di assenza di speranza o, per contro, di speranze illusorie. Potrà crearsi, nei primi stadi dello sviluppo, quell’area dell’illusione di cui parla Winnicott (1971)?

Senza dubbio essere genitori di figli con disabilità richiede coraggio. Fin dall’inizio intuiscono che il corso della propria vita sarà profondamente diverso da come potevano prevedere, che probabilmente certi danni saranno irreparabili, che bisognerà impegnare buona parte della propria vita per le cure/terapie/riabilitazioni/programmi educativi per il proprio figlio, e chissà poi con quali esiti, con la consapevolezza che i problemi di dipendenza saranno più complessi e che coinvolgeranno loro in primo luogo.

Uno dei motivi di angoscia e disperazione dei genitori alla nascita di un figlio con grave disabilità è l’idea spauracchio della sua totale impotenza, o totale isolamento, che la sua vita non avrà senso per lui, che soffrirà per tutta l’esistenza. Un genitore confidò che all’inizio aveva sperato che il proprio figlio morisse, avrebbe terminato di soffrire ed anche loro genitori; poi le cose cambiarono.

Questo fatto deve farci riflettere sul raffronto tra ‘gravità’ in senso clinico/biologico e ‘gravità’ in senso esistenziale. La gravità su un piano biologico dipende dal rapporto tra l’entità della limitazione delle funzioni e la dotazione delle risorse. La gravità nella dimensione emotiva/esistenziale è data dalla quota di sofferenza che non si è più in grado di sostenere.

Questa distinzione nel concetto di gravità rende ragione del fatto che non c’è necessaria corrispondenza tra situazioni clinicamente gravi e dolore da sopportare, cioè non è affatto detto che chi si trova in una condizione più grave (da un punto di vista biologico) per ciò stesso debba di necessità soffrire di più, o che la sua vita non abbia senso.

Uno dei fattori di malessere, che più ricorre e che può riguardare sia il genitore che il soggetto stesso disabile o pluridisabile, è dovuto allo scarto tra aspettative e realtà personale, fatta di potenzialità, interessi, disposizione, dotazione psicofisica di base. Se prevale l’assenza di speranza, c’è il rischio della resa. Altre volte, invece, nel tentativo di trovare compensi alla disabilità (e questo rappresenta un diritto di tutti), si va oltre, anche di molto, si cerca di strafare, di riempire tutto l’arco dell’esistenza quotidiana, settimanale con attività in eccesso, si cerca di raggiungere risultati ad ogni costo. È negare il limite, perché assumerlo sarebbe insopportabile. Le attività intraprese, sia in qualità che in quantità, possono non essere in armonia con la realtà personale del soggetto.

L’aiuto che si può dare è incontrare i genitori nel loro dolore, aiutarli ad entrare in contatto con la realtà psichica, emotiva del figlio disabile, che spesso non è come essi la immaginano, non è così catastrofica. Nello stesso tempo accogliere il limite non significa assenza di potenzialità. Quando il rapporto tra ciò che si attende dal proprio figlio e la sua realtà personale è armonico, sicuramente la vita acquista senso e risulta essere più gradevole.

 

Bibliografia

Winnicott D. (1971). Gioco e realtà. Roma: Armando Editore, 2006.

 

 

 

[1] Neuropsichiatra Infantile, Psicoanalista, Membro Associato SPI e IPA, socio del Centro Psicoanalitico di Roma



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