Che significa per un popolo salvare l’adolescenza? A questa domanda, la risposta di questa serie è spietata: un mondo distopico che segnala un rischio reale.
“Noi non siamo più vivi”, 2022 di Lee Jae-Gyu e Kim Nam-Su
di Lucia Maulucci
Inquadratura dall’alto. Piccolissime figure che si agitano. Insetti? No, sembra la folla ad un concerto: adolescenti accalcati – senz’altro – la cinepresa si avvicina, mani rapaci provano a ghermire, bocche digrignate: sono un’orda di zombie.
“…in alcune civiltà in caso di scelta si salva il bambino, in altre l’adulto…perché il bambino è la speranza, l’adulto la saggezza. Per noi cosa varrà, la speranza o la saggezza?”
Questa è la domanda che pone uno dei protagonisti nelle prime puntate della serie Netflix made in Corea del Sud, ai primi posti tra le più viste dell’ultimo periodo.
Il ragazzo è chiuso in uno dei laboratori della scuola con un gruppetto di coetanei, spera che gli adulti possano salvarli dopo che una terribile epidemia ha infestato la loro scuola trasformando i compagni in zombie che, ciechi, dinoccolati e famelici, si aggirano per i corridoi.
Tutto è iniziato con un padre. Un professore di Scienze, moderno Victor Frankenstein, ha deciso di creare un virus per potenziare l’aggressività del figlio, pesantemente bullizzato dai compagni di scuola, incapace di reagire e non tutelato dal sistema scolastico.
Ci appaiono adolescenti invisibili, bidimensionali, a volte macchiettistici, pressati dal sistema che non li sostiene né cerca di sintonizzarsi con i loro bisogni: li vuole primi in tutto.
Chi non è primo non esiste.
Anche i primi però, i più bravi, appaiono lontani da se stessi, protesi soltanto ad adeguarsi alle aspettative degli altri.
Dunque adolescenti che non esistono, come nella domanda iniziale del protagonista, che neppure nomina la fase della vita in cui egli stesso si trova e non si chiede che cosa essa possa rappresentare per una società. Vale la pena salvare l’adolescenza, gli adolescenti? Che significa per un popolo salvare l’adolescenza?
La serie Netflix risponde a questa domanda in modo spietato. Infatti, nel tentativo di controllare l’epidemia i militari, accecati dal dubbio che gli studenti sopravvissuti possano essere infetti, e quindi incapaci di vedere altre soluzioni, invece di salvarli decidono di bombardare quattro punti strategici della città: il liceo, il complesso sportivo, l’incrocio principale della città e il future college (!).
È quasi immediato, nella rappresentazione di questa cieca sordità dell’adulto, pensare alle recentissime violenze accadute durante le manifestazioni di studenti che chiedevano di essere visti e ascoltati, dopo la tragica morte di un loro coetaneo in un progetto scuola-lavoro.
Noi non siamo più vivi, declinato in prima persona plurale, ci appare riferibile ad adolescenti non più vivi perché invisibili/spariti al nostro sguardo, trattati e percepiti dall’adulto come un’orda impazzita e senza controllo.
Certo, il virus è terribile. Sono forti i riferimenti alla pandemia, pescano nell’immaginario collettivo di un contagio inarrestabile e senza cura, creato nel laboratorio di una città orientale. Le persone contagiate si ammalano in pochi secondi: la morte/virus prende possesso di loro e loro stessi diventano il virus dimenticando tutto ciò che è umano. Senza memoria e senza parola: si trasformano in fame, in bisogno di mordere e diffondere l’infezione. Di nuovo echi della pandemia da Covid 19: come si fa ad essere vivi, a diventare vivi, in un mondo di zombie con un virus che contagia e che toglie la vita, la possibilità di amarsi, di stare insieme e di trovare se stessi?
Solo Nam Ra, la Rappresentante degli studenti, morsa anche lei, riesce a non trasformarsi, combatte il virus e si trova nella condizione di essere una mezzombie, a metà quindi, finalmente: un’adolescente assolutamente imperfetta, umana e zombie insieme. Il gruppo non la distrugge, anzi la accoglie. È da questo momento che lo scenario cambia e si può cominciare ad essere vivi.
In un mondo in cui gli adulti hanno voltato le spalle ai giovani condannando a morte i sopravvissuti, la salvezza sarà nell’alleanza tra compagni di scuola, da sempre conosciuti e ora riscoperti anche nella loro profondità umana, e quindi imperfetti e perciò anche invidiosi, distruttivi o violenti.
Nam Ra è combattuta tra spinte emotive interne diverse e violente, tra il lasciarsi andare agli istinti famelici di divorare i compagni e il poter riconoscere il valore essenziale delle relazioni umane, del contatto, della bellezza del potere so-stare insieme, magari seduti attorno ad un fuoco.
Soltanto alla fine della serie Nam Ra, potrà rispondere alla domanda iniziale concludendo un duro percorso di formazione, proprio e dei compagni, e solo allora potrà dire non sono una bambina e non sono un’adulta, non sono viva ma non sono un mostro.