Gli studi classici e il racconto platonico dell’androgino hanno avuto una certa influenza nella storia del pensiero e possono aiutarci a cercare valide alternative ad un rigido binarismo che dopo tre secoli di storia sembra essere entrato in crisi.
Alessandro Mulieri
A consultare molte pagine che trattano di sessualità e genere prima dell’età moderna (e per età moderna deve intendersi in questo caso il periodo che segue il XVII-XVIII secolo), viene il dubbio che buona parte delle discussioni contemporanee su identità e orientamento di genere si siano inventate poco o niente. Il binarismo di genere, l’idea, cioè, che esistano due generi ben precisi, il maschile e il femminile definiti dalle caratteristiche anatomiche degli organi sessuali e modellati sul tema della riproduzione, è un’acquisizione relativamente recente nel pensiero occidentale, vantando appena (si fa per dire) tre secoli di storia. Prima del Settecento, la definizione dei generi sessuali era strettamente legata alle riflessioni non sull’anatomia ma sulla natura del seme e del suo calore e sulle diverse complessioni dei corpi umani, entrambe maturate all’interno della teoria galenica degli umori. In sostanza, semplificando un dibattito medico che in realtà aveva al proprio interno diverse posizioni e orientamenti, si riteneva che esistesse un unico genere/sesso e che le divere gradazioni di questo genere/sesso unico, dovute alle diverse quantità di calore vitale necessario a scaldare il seme, condizionassero la formazione del maschile e del femminile (De Leo, 2021; Deslauriers, 2022). Per questo motivo, Aristotele, le cui idee nel pensiero premoderno condizionano molti aspetti essenziali del discorso scientifico, ci spiega che donne e uomini hanno complessioni diverse e che le prime hanno una complessione fredda perché il seme non ha avuto il livello adeguato di riscaldamento necessario alla formazione della complessione dell’unico genere biologicamente determinato da una gradazione perfetta di calore, e cioè quello maschile.
Il fatto che il maschile e il femminile siano i risultati di due complessioni diverse e quindi si configurino nel discorso scientifico premoderno come diverse gradazioni di un unico genere ha due conseguenze dalle implicazioni molto diverse tra loro. Da una parte, l’affermazione dell’esistenza di un unico genere si accompagna all’idea che esista soltanto una gradazione perfetta, quella che dà origine al maschile, rispetto alla quale tutte le altre gradazioni, compresa quella femminile, devono essere considerate imperfette o inferiori. Questo costituisce, in essenza, la ragione biologica e organica utilizzata dalla stragrande maggioranza di pensatori, scrittori, scienziati, intellettuali per giustificare la misoginia pervasiva che accompagna qualsiasi ambito del sapere nel mondo premoderno. Da Aristotele a Lombroso, dalla filosofia greca all’Ottocento positivista, gli uomini (e persino alcune, poche, intellettuali che hanno la ‘fortuna’ di saper scrivere) sono tutti o tutte d’accordo: è come se le donne fossero degli uomini difettosi, biologicamente e psicologicamente inferiori rispetto alle loro controparti maschili (Un’ottima ricostruzione del tema è Ercolani, 2016). D’altra parte, però, il non binarismo della teoria del genere unico porta con sé tutta una serie di implicazioni che, paradossalmente, favoriscono un certo grado di ‘fluidità’ nell’interpretazione dei generi sessuali, i quali non possono essere ridotti al rigido binarismo dell’epoca moderna. Se infatti non esistono il maschile e il femminile come categorie definite dall’anatomia, ma delle gradazioni contingenti che determinano biologicamente un unico genere, è almeno in teoria possibile attribuire a forme che appaiono difficili da classificare all’interno di un rigido binarismo di genere la stessa dignità biologica di esistenza del maschile e del femminile (naturalmente al netto di un peso sociale, culturale e politico ben diverso). E’ questa, in sostanza, la differenza fondamentale tra l’anti-binarismo del mondo pre-moderno e il binarismo che nasce anche in conseguenza della rivoluzione scientifica del Sei-Settecento, quando, come dimostrato implicitamente già da Foucault (2000), la distinzione dei generi nei due sottotipi essenziali del maschile e del femminile emerge come una risposta discorsivamente costruita che riflette una serie di problemi e preoccupazioni di natura sociale e politica legati al concetto di biopolitica. E’ questa stessa differenza che motiva opinioni di filosofi pur tra loro così diversi e distanti nel tempo come Platone e Aristotele, da una parte, e Rousseau dall’altra. Le posizioni di Rousseau sulla differenza dei generi, e dunque indirettamente su qualsiasi forma ibrida di genere, sono interamente collocabili in una forma di binarismo definito. Nell’Emilio, Rousseau insiste molto sulla necessità che la differenza di genere tra sesso maschile e femminile abbia una funzione di mantenimento sociale e politico e sottopone i corpi femminili a un rigido controllo da parte del legislatore (Rousseau, 2013). Nel Simposio, invece, Platone fa pronunciare ad Aristofane un discorso in cui la celebrazione dell’amore passa attraverso il racconto del famoso mito dell’androgino (Platone, 1987). Secondo l’Aristofane platonico, in origine gli esseri umani avevano una forma sferica e i generi erano tre, maschile, femminile e androgino. Ciascun essere umano sferico era composto da quattro gambe, quattro braccia e due facce poste su lati opposti, sopra a due organi genitali. Queste ‘sfere’ umane potevano essere solo femmine, solo maschi oppure avere un lato con fattezze e genitali maschili da una parte e con le stesse caratteristiche al femminile dall’altra. Quando gli esseri umani tentarono di sfidare il potere degli dèi, questi ultimi li punirono e decisero di tagliarli in due parti per renderli più deboli e umiliarli. Da allora le metà tagliate degli esseri umani sono costrette a vagare inquiete e a cercare disperatamente le altre proprie metà originali, unendovisi sessualmente per ricreare quel legame perduto. La cosa interessante in questo racconto è che, tramite esso, l’Aristofane platonico giustifica l’amore eterosessuale attraverso il ricorso proprio alla figura dell’androgino. Infatti, è perché esistevano degli esseri umani sferici con i due organi genitali maschile e femminile sui due lati che ora certe metà cercano di unirsi con persone dell’altro sesso.
Il racconto platonico dell’androgino ha avuto una certa influenza nella storia del pensiero e le diverse trattazioni di questo mito hanno prodotto interpretazioni tra loro diverse e persino opposte. Per esempio, alla fine del Quattrocento, Marsilio Ficino, che riprende la filosofia del neoplatonismo per riproporla in una prospettiva cristiana, tende a edulcorare il mito aristofaneo per trasformarlo in una celebrazione dell’eros intellettuale e contemplativo (Ficino, 914). Nel Cinquecento, tuttavia, proliferano altri scritti in cui, invece, gli aspetti erotici e passionali dell’androginia come tema anche filosofico vengono esaltati in una chiave più mondana e all’insegna di un’idea estrema e decisamente più triviale dell’eros, per esempio in Pietro Aretino (Bottorni, 2002). Il contrasto con i diversi trattati che proliferano a partire dal Settecento come studi anatomici e scientifici sull’androgino, che però non viene più tanto considerato un prototipo fisico quanto una condizione in cui le caratteristiche psicologiche e affettive dei due sessi non sono più rigidamente determinate, è in questo senso ancora più significativo. Mentre medici e pensatori sette-ottocenteschi preferiscono concentrarsi sull’androginia per ribadire i più rigidi codici del binarismo allo scopo di costruire un tema da medicalizzare (Goldstein, 1991), molti autori premoderni preferiscono enfatizzare gli aspetti immaginifici e quasi mistici evocati da questa figura che sfida il binarismo maschile-femminile. Insomma, il contrasto tra un Platone che, tramite Aristofane, racconta la genesi dell’amore attraverso l’androginia e molti autori sette-ottocenteschi che invece categorizzano l’androginia come un problema del comportamento che deve essere curato è evidente. Oggi che siamo di nuovo in un mondo in cui il binarismo costituisce sempre meno il criterio principale di riferimento nella definizione dei generi, questa breve riflessione sull’anti binarismo premoderno può aiutarci a riflettere su un pregiudizio che si trova in parte della letteratura contemporanea sui temi dell’identità e dell’orientamento di genere. Secondo una certa vulgata, prima del Novecento nessuno si sarebbe mai immaginato di mettere in discussione la rigida distinzione binaria maschile-femminile che caratterizza le teorie di genere sviluppatesi a partire dagli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo e dunque la novità inedita degli studi di genere sarebbe un altro riflesso, l’ennesimo, della rottura culturale e antropologica che distingue un premoderno retrivo (qui inteso come unicum dall’Antichità alla prima parte del Novecento) e un postmoderno concentrato su una prospettiva emancipazionista. Intendiamoci. C’è sicuramente una fortissima rottura politica tra questi due momenti. Mai come oggi rivendicare la ‘fluidità’ sessuale e l’intersessualità significa mettere in discussione concetti (patriarcato, disparità di genere ecc.) che hanno costituito l’ossatura fondamentale di tutta la storia del pensiero e della società occidentali. Tuttavia, va ridimensionata l’idea che il superamento contemporaneo del binarismo maschile-femminile rappresenti un punto di vista inedito dal punto di vista culturale e filosofico. Leggere i classici del pensiero può, anzi, aiutarci a cercare alternative interessanti a un rigido binarismo che dopo tre secoli di storia è ormai entrato definitivamente in crisi in questa fase dell’Antropocene. Naturalmente, questo non vuol dire sostenere che i pensatori pre-settecenteschi teorizzassero la fluidità di genere e sessuale ma semplicemente riconoscere che, prima di noi, avevano già pensato il genere e il sesso in un’ottica non-binaria. Insomma, Butler, Foucault, Platone e forse perfino San Tommaso sarebbero stati tutti tendenzialmente d’accordo sul non binarismo. Mentre molti nostri amati moderni, Rousseau, Kant, Marx, Freud hanno avuto qualcosa da ridire su quest’idea.
Bibliografia
Bottoni, L. (2002). Leonardo e l’androgino. L’eros transessuale nella cultura, nella pittura e nel teatro del Rinascimento. Milano: Franco Angeli.
De Leo, M. (2021). Queer. Storia culturale della comunità LGBT+. Torino: Einaudi
Deslauriers, M., (2022). Aristotle on Sexual Difference: Metaphysics, Biology, Politics. Oxford: Oxford University Press.
Ercolani, P. (2016). Contro le donne: storia e critica del più antico pregiudizio. Padova: Marsilio.
Ficino, M. (1914). Sopra lo amore ovvero Convito di Platone. A cura e con prefazione di Giuseppe Rensi. Lanciano: R. Carabba Editore.
Foucault, M. (2000). Storia della sessualità: L'uso dei piaceri. Vol. I-II, tr. it. di L. Guarino. Milano: Feltrinelli.
Goldstein J. (1991). The uses of male hysteria: Medical and literary discourse in nineteenth-century France. Representations, 34, 134-165.
Platone (1987). Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone. A cura di Ezio Savino. Milano: Mondadori, pp. 67-77.
Rousseau, J.J. (2013). Emilio. Milano: Mondadori.
(1) la complessione essendo l’armonia degli elementi che compongono i corpi degli esseri viventi formati da quattro umori fondamentali (bile nera, flegma, bile gialla, sangue), vd. Deslauriers, Aristotle cit.