“La psicoanalisi fondata sul binarismo ha delle responsabilità: non c’è un alfabeto per la transizione di genere. Per raccontare mi sono immerso quattro anni con questi ragazzi”
Nicolò Bassetti è uno che, prima di tutto, si immerge nel contesto. O forse lo diventa. Prima di creare Sacro Gra ha girato il Raccordo anulare della Capitale per tre anni. A piedi. Per Nel mio nome, docufilm che racconta la transizione di genere di quattro adolescenti bolognesi, il regista ha seguito la vita quotidiana dei ragazzi per quattro anni. Il minimo, per chi vuole intervistarlo, è che lui faccia gli fare un paio di giri.
Il primo, osservando la biblioteca stipata di volumi psicoanalitici, con il sorriso:
“Prima di cominciare devo dirvi che i ragazzi protagonisti del film, quando hanno saputo che venivo qui da voi psicoanalisti, mi hanno guardato con sospetto e mi hanno avvertito: “Stai andando nella tana del Lupo!”.
Il secondo, sempre sorridendo: “Troppo a lungo la psicoanalisi ha trascurato la questione di genere. E non ha proprio considerato quella della transizione. Anzi. Ha basato gran parte del suo lavoro, della sua teoria, quella freudiana in particolare, sul binarismo, sulla differenza sessuale. I quattro ragazzi del film e anche mio figlio, che non è nel film ma è stato con me e ha seguito tutta la lavorazione, secondo la psicoanalisi sono tutti “in transizione dal femminile al maschile”. Il punto è che questa definizione loro non la riconoscono. Sostengono che la psicoanalisi ha delle colpe, ma chiamiamole responsabilità, importanti. Di non aver colto in tempo un’occasione. Di non aver visto una situazione che ora sta andando da sola. E’ un po' questo il tema del film”.
E con la testa che ancora gira, cominciamo l’intervista.
Che senso dà all’operazione svolta con questo film?
Il senso che ho trovato, nella mia doppia responsabilità sia di genitore sia regista, è quello di due sguardi che dovevano sovrapporsi. In quanto genitore il mio sguardo doveva essere totalmente immerso nell’ascolto di Matteo, per cercare di capirlo. Lì ho sentito che a livello culturale e sociale mancava proprio un linguaggio, un alfabeto.
Come si è avventurato da quelle parti senza l’alfabeto?
Mi sono avvicinato il più possibile a mio figlio e quando ha fatto coming out ho avuto un moto di grande felicità perché ho capito che lui aveva trovato le parole per dirlo. Prima c’era chiaramente un momento di difficoltà: si è trasferito dall’Italia in Olanda perché passava un anno travagliato, poi in Olanda ha trovato la forza e il linguaggio per esprimere il coming out. Ed è stato lui a cercare di rassicurarmi, sapeva mi sarei spaesato. Incredibile, ma mi ha tradotto: “Papà io sto lasciando il genere femminile e sto iniziando un viaggio alla ricerca di me”. Ovviamente non poteva chiamarsi Matteo e avere il seno, in questo nostro mondo c’è un codice del corpo che non consente ancora questo.
Che reazione ha avuto?
Per lui questo era un passaggio molto importante e io sono stato dalla sua parte. Subito. La storia dei ragazzi trans che fanno coming out spesso invece è caratterizzata dal rifiuto. Lui aveva paura che io potessi avere una reazione di questo tipo, e mi ha detto “fidati di me e stammi vicino”. L’ho fatto.
Nasce da qui l’idea del docufilm? Da questo mettersi in ascolto di qualcosa fuori dal codice e dalla matrice culturale?
Con questa esperienza ho capito che eravamo soli. Gli ho chiesto “Matteo, secondo te ha senso che noi ci mettiamo insieme a fare un documentario? Avevo molta paura che mi mandasse a quel paese. Che mandasse a quel paese lo sguardo del regista, che per forza di cose mantiene una distanza. Gli ho detto: “Stammi vicino tu adesso, stiamoci vicini insieme”. E così è nato questo progetto, durato quattro anni.
Come l’ha sviluppato?
Sono andato a Bologna, ho conosciuto questi ragazzi e Matteo è stato sempre al mio fianco. Ecco quindi l’idea di tenere insieme e trovare un equilibrio tra questi due sguardi, del genitore che deve stare vicino, e quello del regista, che è un testimone.
Il regista è qualcuno che “coglie” e mette in luce. Il genitore è qualcuno che si sintonizza. Questo sguardo binoculare giova da entrambe le parti. C’è attenzione, ma anche cura delicatezza nel regista. Quanto al genitore, non è scontato schierarsi subito a fianco di un figlio. Qui il documentarista abituato a esplorare la realtà, con curiosità, forse ha aiutato.
Quando ho deciso di farlo, ho detto “scommetto su questi ragazzi, voglio dare loro voce, senza dare una chiave di lettura a priori…”
Si vede bene come lei eserciti la capacità negativa di andare per sottrazione. Però alcuni messaggi arrivano molto forti. Per esempio, sembra che non sia il soggetto che è in transizione, ma tutta la sua famiglia.
In assoluto è tutta la società che si dovrebbe mettere in transizione. Il film è stato fatto per creare uno specchio. Ho voluto raccontare l’euforia gender. Ma quando ho iniziato a cercare fondi ho trovato un produttore. Tra l’altro un produttore gay, e pensavo avrebbe avuto una particolare sensibilità. Ha letto la struttura e il soggetto e ha detto “bello, mi piace…però c’è qualcosa che non mi torna, dove è la sofferenza?”.
Già, la sofferenza…
Ma per me non era quello il punto. Io volevo raccontare attraverso questi ragazzi la felicità di trovare se stessi. Poi in trasparenza è chiaro che c’è una sofferenza, chi non ce l’ha? Tutti sono in transizione, sempre! Io sono diverso da quello che ero quando avevo 15 anni, ma davvero non sono lo stesso “lo”. Per niente. E anche dal punto di vista del genere! A 15 anni dovevo performare come un maschio, ora molto meno…Da adolescente le prime fidanzate mi dicevano: ma come sei femminile. E mi dava fastidio! Dopo 30 anni ho capito che noi siamo fatti di tante cose, ognuno di noi ha diversi componenti. Nel film c’è Nico, il ragazzo che fa la transizione, che dice: “Adesso che finalmente sono riconoscibile come un uomo, sono ricollocato come uomo, non ho più il problema di farmi riconoscere, ora posso finalmente recuperare la parte femminile che è in me”. Le persone transgender incredibilmente sono davvero una meraviglia di pluralità e ricchezza.
Lei dice sempre transgender, lo trovo un modo corretto in realtà rispetto a “transessuali”.
Si perché è così, ci sono varie sfumature, e la stessa comunità trans ogni tanto è insofferente con le varie definizione. Ma la questione è l’identità di genere. Quando parli di una persona transessuale, a parte che c’è un immaginario del trans che sta per strada come sex worker, e da questo bisogna allontanarsi, il punto è che non è questione di sesso, è una questione di genere. L’identità è diversa dal sesso.
Colpisce del documentario sia l’euforia gender di cui ha parlato, anche la capacità di prendersi in giro. C’è stata una battuta…
Quella in cui dicono che si sono scordati il cazzo a casa…
Si quella lì! Stupenda!
Ti fa capire che non è quello il punto!
Io ci ho visto che se tu sei il soggetto di questa forma, transgender, ci sono una serie di cose che per la società sono difficilmente comprensibili. A quel punto, la possibilità di poterci scherzare sopra… è un motto di spirito! Ti prende dall’angoscia e ti tira su.
Il loro uso dell’ironia è altissimo. Infatti, quando vado ai festival generalisti il pubblico ride per alcune cose, ma un pubblico etero cis gender in alcuni passaggi non coglie fino in fondo…a macchia di leopardo qualcuno che ride. Quando lo proietti in un festival queer cambia totalmente la percezione, ridono tantissimo. Ci sono più passaggi dove c’è il tema dell’autoironia, dove c’è la presa in giro di se.
Come è cambiata la vita di questi ragazzi, secondo lei, durante le riprese? Essere filmati ed essere parti di una narrativa da una parte fornisce un alfabeto, ma dall’altra parte ci può essere l’effetto grande fratello.
Li c’è il mestiere del documentarista, infatti la questione è di costruire un rapporto di fiducia dato dal fatto che io ho un figlio transgender e quindi loro si sono fidati. Mio figlio era garante per me.
Però poi la fiducia si è stabilità con il fatto che io in 3 anni ho girato pochissimo, ho passato più del 95% del tempo senza girare. Io ho passato 3 anni con loro, spesso la cinepresa me la portavo dietro ma rimaneva nella borsa. Questa è una tecnica che si chiama generalmente “fly on the wall” la mosca sul muro.
Come un antropologo…
Si. A me interessava vivere con loro, ascoltarli. Quando capivo che cosa mi interessasse filmare ne parlavo con loro e gli dicevo “a me interessa quella cosa li”. Quindi adesso io tiro fuori la macchina e filmo quando fai quella cosa li. Però è una cosa di cui hai bisogno. Per esempio, quando Raffaele si inietta il testosterone, io volevo filmarla, io gli avevo detto che avevo bisogno di essere un po' didascalico, ma mi hanno detto che non andava bene, che era una cosa voyeristica, e quindi la scena è lui che parla con il compagno e quando si deve iniettare il farmaco esce di scena. Il tema è che io mi sono dovuto conquistare la loro fiducia e conquistare la loro fiducia.
E mi sembra che sia stata la vita, il processo vitale, a selezionare il materiale in qualche modo. Non ci sono autori dietro.
Io ho girato pochissimo. Non ci sono autori, c’è una struttura, e la scelta delle persone. Ho fatto 6 mesi di ricognizione, ho scelto questi ragazzi e quando loro mi hanno dato l’ok io gli ho proposto la struttura del film, che era intorno alla loro vita. E gli ho detto che sarei entrato piano piano nella loro vita. Inoltre, volevo lavorare sulla loro memoria infantile, cioè metterla in relazione. Perché l’idea del podcast è il traino di tutto il film. infatti Leo raccoglie con il podcast le memorie infantili di ragazzi trans.
A livello narrativo il film usa una sorta di trans-testualità. Dal podcast di uno dei protagonisti al documentario e viceversa, i contenuti sembrano poter migrare in un flusso.
L’idea che ho avuto è partita dal fatto che chi compie una transizione, non si dice di abbandonare non solo il nome, che diventa un “dead name”, ma in un certo senso tutto il passato. Io volevo dare testimonianza delle memorie che avevano preceduto la transizione. E mi è venuta l’idea di chiedere a ogni ragazzo di parlarmi della loro ossessione. Ognuno ne ha una, a prescindere dal genere. Quella di Leo riguardava i podcast.
Quindi i podcast sono nati nella relazione con il tuo sguardo. Questo colpisce perché l’impressione è che dovesse essere rimossa o incapsulata, come se una parte proprio come il “dead name” dovesse essere fatta morire. E in più, da genitore, quello che viene “ucciso” è anche la storia che ti ha legato all’origine a un figlio a cui, proprio tu hai scelto il nome…
C’è una necessità impellente che riguarda la decisione di fare la transizione, che è quella di performare la propria identità. Se chiedi a una persona che ha fatto la transizione della sua identità precedente, la risposta che otterrai è uno sbarramento. D’altra parte, man mano che si consolida l’identità queer io vedo che ad esempio per mio figlio, poter parlare di un prima può diventare una sua scelta ed è sempre più possibile parlarne.
Come se con il tempo fosse possibile una maggiore integrazione…
Diciamo che c’è sempre una tensione con la cultura, diciamo con la società, che dal momento in cui nasci ti attribuisce un nome e un ruolo a partire dall’anatomia. Ti chiede di performare il genere in cui ti ha inquadrato. Se questa posizione non corrisponde alla tua identità di genere, da quel momento tu devi lottare per performare la tua identità di genere. E il paradosso è che per la legge italiana tu devi essere binario. O maschio o femmina. E in più sta a te l’obbligo della riconoscibilità del tuo genere. Se entro in un negozio, devo far sì che mi si individui come maschio o femmina. L’altro paradosso è che per la legge italiana, se vuoi accedere alla transizione devi presentare un certificato di disforia di genere! Cioè devi dichiararti malato…
Questo nel documentario è messo bene in evidenza, il senso di umiliazione e di rabbia che questo processo mette in moto.
Sì perché è come dover abiurare. Lo Stato dice, se rinunci a dire che tu nella tua identità di genere che ti sei scelto stai bene, se ammetti di essere sbagliato, allora io ti riaccolgo nella legge e puoi accedere alle terapie ormonali e alle prestazioni sanitarie che ti consentono la transizione.
Fa venire in mente le riflessioni di Foucault sulle strategie del potere che diventano dispositivi di controllo della sessualità e dei corpi…
Se pensiamo che la burocrazia ti mette in situazioni in cui devi fare colloqui con uno psicologo in luoghi dove accanto a te, a fare la fila, ci trovi l’antisociale e che ti costringono a rispondere a domande in cui ti si chiede se hai visto Satana. Tutto questo è traumatico in sé. In altri paesi come il Belgio, gli psicologi che fanno i colloqui per valutare le transizioni li esprime la comunità LGBT… E poi così potete capire che anche che mio figlio, per quanto riguarda il suo terapeuta, abbia voluto sceglierselo fra quelli di cui la comunità si fida.
Ci chiedevamo infatti se in una transizione si sentisse il bisogno di un percorso. Perché forse più che di un soggetto in transizione si deve parlare di una famiglia in transizione. Sarebbe bello poter parlare anche di una società in transizione…
Mi auguro che prima o poi la società e la cultura che si fonda sul binarismo vada oltre. Sicuramente come famiglia siamo in transizione. Mio figlio è nel pieno dell’euforia transgender. Ma lo sono anche io! Anche io sono in analisi e sono entusiasta. Lo è anche mia figlia di 16 anni, la sorella di Marco, con il quale si adorano e l’ho vista sbocciare.
Rispetto alla scelta, vengono in mente le parole di una persona queer durante la presentazione del libro Queer psicoanalisi: “Io vado solo da un terapeuta queer, devo essere sicur* che non abbia pregiudizi, altrimenti non ci metto proprio piede”, come se ci fosse un trauma che per la comunità è diventato “transpersonale”…
Credo sia così. Perché lo stereotipo è duro da scalfire. A un cisgender il terapeuta non chiedere di riflettere sull’origine della sua scelta, mettendola in questione e volendo risalire a chissà quali altri traumi. Ma facendo così il trauma e il disagio lo crei tu! Patologizzi quello che in realtà è un cammino che apre davvero all’euforia transgender.
Un’euforia che al di là delle possibili interpretazioni psicoanalitiche, lei ci sta avvertendo di non toccare. Nel film questo si vede molto bene. Là dove sembra esserci la possibilità di accedere a una dimensione di benessere e grande solidarietà reciproca.
Da regista, io sono stato tre anni con questi ragazzi e ho girato appena 60 ore (come dire che stai con una persona una giornata e giri pochi secondi) perché credo che alla forza della testimonianza, per me era fondamentale mettermi sul bordo con loro, ascoltarli e basta, prima di tutto per rispettare la loro dignità. Verso il dolore, vero o presunto può sempre esserci un voyerismo, che puoi evitare solo se trovi una chiave poetica.
Le scelte di regia lavorano in effetti per “sottrazione”, come se dopo essersi immerso, il suo lavoro fosse stato quello di esercitare una “capacità negativa” come la chiama Keats.
E’ proprio così, in fase di montaggio io lavoro moltissimo. Come per Sacro Gra, quando solo dopo aver percorso a piedi, per tre anni, il raccordo ho messo a fuoco la voce di alcuni individui ai margini, veri borderline, di cui però non ho voluto rappresentare le difficoltà per alimentare il pietismo, ma per esempio quel lato di creatività e saggezza esistenziale che sentivo rendeva viva e bella la loro vita.
E questo ci fa tornare all’euforia transgender, che mettendo da parte le entrate interpretative, le ha consentito ad esempio di cogliere una scena in cui i ragazzi fanno un vero e proprio motto di spirito del loro essere transgender!
Immagino si riferisca alla scena in cui Leo racconta la storiella di quando l’uomo transgender sta per andare a letto con una donna e dice: “Oddio aspetta! Mi sono scordato il cazzo a casa…” Lì quando proietti il film in un festival queer tutti ridono come i matti. Loro lo possono fare. E mi auguro che prima o poi chiunque possa prendere in giro una persona queer, perché significherebbe che la cultura e la società sono riusciti a uscire dal binarismo…