Gli algoritmi cancellano il debito incommensurabile tra il vivo e morto. Esempio di traiettorie del desiderio sociale oggi sempre più ibrido e inumano
Notizia bomba, la morte non esiste. Almeno secondo il delirio di Flavia Vento. Che l’algoritmo di Instagram ha diffuso su milioni di bacheche nei nostri profili social, nutrendosi dell’attenzione (ipnotica) suscitata in migliaia di rilanci, commenti, critiche, parodie, sberleffi. Un fenomeno che deve molto all’estetica trash, ma che - dopo essersi scandalizzati - conviene smontare per capirne la logica. Si tratta infatti di un esempio eclatante di quello che attualmente lavora come un inconscio impersonale ed esteso nel rapporto tra noi, i nostri dispositivi elettronici e gli algoritmi.
La cronaca. Flavia Vento, personaggio televisivo noto per essere stata la “ragazza sotto il tavolo”, bionda svampita e muta rinchiusa in una teca di plexiglass nella trasmissione di Teo Mammuccari, Libero, diventa virale dopo aver rilasciato alla conduttrice di Belve Francesca Fagnani un’intervista-delirio. Qui parla di amori (inesistenti o presunti) con Tom Cruise, Francesco Totti e Bruce Willis, spiega che potendo tornare indietro rimarrebbe Vergine come Maria perché “c’è qualcosa di satanico nel sesso”, di rivelazioni e apparizioni mistiche sulla via del minigolf e perfino di una poesia che le sarebbe stata dettata a Recanati direttamente da Giacomo Leopardi. Per inciso, quando la conduttrice, non senza un certo sarcasmo, le chiede se abbia mai pensato a fare un po’ di psicoanalisi, Vento ribatte secca di essere “contraria”.
Tutto comincia con la domanda: "Che belva si sente?". A cui la showgirl risponde: “Io non sono mai stata una belva, ero una dea e vivevo nell'antico Egitto. Ero Iside alata, metà donna e metà falco". Più avanti svela: “A un anno nuotavo già, perché in un'altra vita ero una sirena". E finisce con la domanda: “La cosa che le sta più a cuore è scoprire cosa c'è dopo la morte?", a cui Vento risponde: “La morte non esiste, ti do questa notizia”.
A questo punto le strade sono due: si può fare la morale del senso, o anche del non senso, rispetto all’ottusità dell’algoritmo che va a braccetto con la nostra voglia di stupidità. Il successo virale di Flavia Vento deriva dalle stesse istruzioni, codificate in un linguaggio logico-matematico, che favoriscono i messaggi più semplicistici, polarizzati e radicali: l’algoritmo è cieco rispetto alla “qualità”, privilegia i contenuti che attirano l’attenzione più a lungo e con più facilità, rispetto ai tentativi di comunicare la complessità.
Oppure ci si può chiedere come si sia prodotto il fenomeno Flavia Vento a partire dalle traiettorie di un desiderio sociale che oggi fa i conti con quel compost inconscio - umano e tecnologico, vivente e inorganico - in cui siamo solo una delle parti in causa.
Freud per primo ci ha insegnato che lo scambio di denaro non è mai “solo” una transazione concreta, ma che va considerato all’interno di un’economia libidica. Questo implica che per ogni movimento di desiderio che può riguardare l’acquisto di oggetti, la fruizione di servizi o la scelta del partner ci siano flussi di segni. E che a governare la logica di questa economia fatta di desideri siano segni che gli uomini suppongono di usare, ma da cui sono di fatto sempre anche usati.
A livello semiotico - cioè di sistema di segni - noi esseri umani abbiamo supposto di usare i nomi, che sostituiscono la Cosa (o potremmo dire anche il vivente), ma che rispetto ad essa sono sempre in “debito”. I nomi “uccidono la Cosa” e la condizione di noi umani, immersi in un “bagno di parole”, come ci insegna Piera Aulagnier, è quella di intuire il vivente di cui siamo parte senza mai poterlo nominare.
C’è però anche un altro sistema di segni che a un certo punto noi umani abbiamo supposto di usare: i numeri, cioè gli algoritmi che oggi sono alla base di così tante innovazioni tecnologiche che ormai fanno da infrastrutture alla nostra vita quotidiana. Essi costituiscono una serie parallela rispetto alle cose: contano e distribuiscono. Non sostituiscono ma semplicemente associano.
Lo vediamo bene nel web, che rappresenta una rete di infinite connessioni, concatenamenti di un inconscio impersonale e ibrido, nel quale però l’economia del desiderio continua a produrre, associando liberamente elementi eterocliti: silicio, flussi pulsionali, immagini affettive, impulsi elettrici, catene di significanti e polarità emotive. L’algoritmo è laico rispetto a ciò che associa e connette materiali eterocliti. Un frammento semiotico vale quanto una stella cadente, una vespa o uno stuzzicadenti, Flavia Vento o una poesia di Rilke.
Gli algoritmi cancellano il debito incommensurabile tra il vivo e morto, tra Dio e soggetto. Storicamente, come dice Federico Leoni, questo ha inizialmente fondato il grande sogno umanistico, e poi illuministico, che le singole donne e i singoli uomini siano degli “assoluti” (Pico della Mirandola), dei fini in sé (Kant). Ma li ha consegnati, ci ha consegnati, al destino di un consumo senza restituzione e di una crescita illimitata. “La propria stessa vita, non essendo più una vita che restituisce" diviene, grazie alla potenza del numero e alla struttura dell’esperienza che ne deriva, linearmente infinita e infinitamente prolungabile, dunque non più strutturalmente prolungabile, ma strutturalmente malata".
Durante un altro passaggio della famigerata intervista, Flavia Vento dice a Fagnani: “Hanno detto che sono stupida. In realtà io sono un genio, è stupido chi non se ne è accorto… “. E se sulle qualità intellettive della soubrette è quanto meno insidioso trarre conclusioni, è certo che questa frase allude alla consapevolezza di sapersi muovere in modo tatticamente efficace dentro la logica - perversa - dell’algoritmo.