Attualità e nuove sofferenze

"Linguaggio, relazione, collettività" di Tommaso Romani.

Cinquanta sfumature di significante per cogliere il corpo. Lavoro presentato nella serata scientifica del 5 giugno 2024 “Dal logos all'oggetto, verso una clinica del Reale e del godimento” con Carmen Gurnari.


"Linguaggio, relazione, collettività" di Tommaso Romani.
Otto Dix, Autoritratto con garofano (1912; olio su carta montato su tavola, 73,7 x 49,5 cm; Detroit, Detroit Institute of Arts)

 

Linguaggio, relazione, collettività

 

 

La bellezza del mondo

se ne sta lì, nascosta

nelle cose che cadono,

nelle cose che nessuno nota,

nelle cose che tutti

buttano via.

 

Rainer Maria Rilke

 

Il problema da Hegel in poi è: come conciliare l’astrattezza della forma logica, del linguaggio, dell’algoritmo, con la concretezza singolare dei fenomeni viventi. Ovvero: c’è qualcosa dell’essere umano che sfugge alla presa dei dispositivi anonimi, che cercano di controllare ogni momento della nostra esistenza?

Una soluzione ingenua è: pensare che esista una vitalità originaria, al di qua del segno. Hegel inverte questa relazione. Il concetto precede la vita. D’altronde è come se ci si chiedesse se ha senso per un insetto porsi la questione della libertà, dal momento che non c’è nessun dispositivo che cerca di controllarlo.

Di quale dispositivo stiamo parlando? L’apparato simbolico è il dispositivo che umanizza l’infans, lo rende un animale umano. Questa operazione non è senza costi. Comporta infatti la rinuncia ad un godimento non regolato dalle norme sociali. Noi psicoanalisti la chiamiamo Castrazione. L’ordine sociale è sempre anche un ordine sessuale, tanto che divenire un soggetto sociale per un individuo non è altro che accettare questa subordinazione della sessualità. L’altra condizione è la lingua che apre alla consapevolezza dei legami reciproci con gli altri, istituendosi come l’Altro (maiuscolo).

Ogni volta che l’umano si confronta con il desiderio allora si mette in moto un dispositivo antropogenico, un’operazione mai data una volta per tutte, ma che si rinnova in un differimento indefinito, dal momento che non c’è fine alla castrazione.

Differimento vuol dire trascendenza, in quanto il corpo umano non può mai coincidere con la condizione che vive, proiettandosi oltre il momento presente. Il desiderio (castrato) è sempre altrove. Sebbene il corpo sia qui e ora. Il sintomo allora, in quanto fenomeno semiotico, è retto da questo meccanismo trascendente del rimando. La cura analitica è rottura del meccanismo trascendente implicito nella semiosi, trasformazione del segno in corpo. O almeno lo è su un piano teorico, come ben mostrato da Felice Cimatti, i cui lavori accompagnano molte delle mie riflessioni. Il corpo si presenterà non più parassitato da un dispositivo che lo allontana da se stesso. Per Lacan il Sinthomo è questa operazione.

Ma entriamoci meglio.

Stiamo intuendo che la vita umana diviene una vita singolare, Una vita per dirla con Gilles Deleuze, solo attraverso un lavoro continuo sul linguaggio. Lavoro che va nella direzione di un “impossibile” linguaggio “privato”, come ricorda Wittgenstein nel Tractatus. In quanto se il linguaggio fosse realmente privato non sarebbe linguaggio, perché nessuno potrebbe comprenderlo. Ma per l’umano, ecco la questione, solo costruire un linguaggio privato è il modo di vivere la propria indicibile unicità.

Quale postura tenere diventa centrale. Una possibile via è quella della decostruzione: stare nel linguaggio per smontarlo e rimontarlo. La via di Derrida se vogliamo. Qui si rinuncia a tematizzare il Fuori però e potremmo dire che non è questo il caso di Lacan.

L’altra via è rimanere nel linguaggio cercando un uso non linguistico della lingua. Il che vuol dire disattivare la potenza identificatrice e prescrittiva del linguaggio. Un’operazione radicalmente politica. Non a caso su questa strada incontreremo anche Guattari. Qui il Fuori è dentro il linguaggio.

Si parla di zone di indiscernibilità, nelle quali soggetto e oggetto non hanno alcuna identità.

Non ricorda le sedute in alcuni momenti? Non viene alla mente Winnicott?

“Sto ascoltando una ragazza. Io so perfettamente che lei è un uomo, ma io sto ascoltando una ragazza. Io sto dicendo a questa ragazza: ‘Lei parla dell’invidia del pene’. L’effetto immediato fu di accettazione intellettuale, di sollievo. Poi il paziente disse: Se parlassi a qualcuno di questa ragazza direbbero che sono matto”. DW: “Non è lei che lo ha detto a qualcuno; sono io che vedo la ragazzina e sento una ragazzina che parla quando nella realtà c’è un uomo sul mio lettino. Il matto sono io”. Il paziente replicò che si sentiva sano in un ambiente matto.”

Il dispositivo allora viene disattivato mettendosi nel punto di articolazione tra i due poli del binarismo (ad es maschio/femmina, attivo/passivo). Crediamo che questo sia il grande lascito di Lacan alla riflessione filosofica e psicoanalitica. La psicoanalisi sa essere antibinaria quando vuole. Il riferimento qui è al Neutro di Roland Barthes, alle sue lezioni al Collège de France (1977/1978). Il neutro non è una categoria ma un campo indistinto che sfugge ad ogni categorizzazione. Non è una sostanza ma un particolare tipo di relazione che si stabilisce tra sostanze individuate, come loro via di fuga. Come dire che se il linguaggio è una prigione al tempo stesso produce anche i suoi fallimenti, le sue vie di fuga. Mi fa sorridere e mi rende felice pensare a come molte ragazzine e ragazzini oggi inseguano questo Neutro tratteggiato da Barthes.

Oppure da Foucault che nello stesso anno nella prefazione all’edizione inglese dell’anti-edipo scrive “ciò che serve è un costante generatore di disindividuazione”. Era il 1977…

Oggi Barthes, Lacan e Foucault si danno appuntamento fuori del Liceo Ripetta.

Possiamo dirla anche con Bataille: il punto è trovare espressione per quella parte maledetta che non può che essere singolare, mentre la parola dice sempre l’identico.

Potremmo dire allora che la seduta è il divenire minore della lingua maggiore che è quella del potere e del negativo. Minore è una lingua che non si identifica con nessun potere. Si tratta di accettare che una parte, quella che Bataille chiama “sovrana” e che coincide con la lingua minore nella riflessione di Deleuze e Guattari, sfugge al calcolo. Calcolo che sempre ha a che fare con il sociale e con la castrazione che ci riportano al generico e all’identico.

Il fatto è che il linguaggio è fatto di parole d’ordine e interdetti che, se pure è vero che concorrono a costruire l’umano, annullano come abbiamo visto la singolarità.

Ora un’ipotesi che possiamo fare è che questo “scarto” debba rimanere nella posizione di scarto, senza essere interpretato o conosciuto. E come si fa?

Lacan nel Seminario XIX ou pire sostiene che c’è almeno uno che dice no. Stiamo facendo riferimento ai passaggi sulla posizione maschile e femminile contenuti nel seminario. Detto in altro modo: la negazione della castrazione designa un almeno uno. Il singolare nega l’universalità della castrazione, la logica della definizione, mettendoci sul limite del linguaggio. Esiste qualcosa, che Lacan chiama godimento non fallico, che è semplicemente fuori dal controllo dell’io. Questo breve passaggio racchiude tutte le diverse tappe di un’intera tradizione filosofica che partendo dal linguaggio non po' che incontrare il corpo. Lo strutturalismo, il post strutturalismo, ciò che chiamiamo Linguistic turn e che esita nel post umano come epoca nella quale noi tutti viviamo.

Dunque si dirà che il tema di questo secolo, che il secolo scorso ci ha lasciato in eredità, è come fare i conti con la “brutalità” delle cose, con ciò che non ha senso, ma a partire dal senso.

Magari verso un limite, un eccesso che è niente, niente che si dia e si dica ontologicamente. L’oggetto piccolo a, il miracolo per Wittgenstein, il punctum per Bataille, così come il visuale per Didi-Huberman sono questo niente. O il lavoro di Derrida e Kristeva sul concetto di Chōra: ciò che è più situante che situato, che non ha nulla di proprio, che non dice e non pensa per noi, ma che permette di dire e pensare. Sono tutti tentativi, se vogliamo sognanti, di bordeggiare i confini del linguaggio e stabilire un rapporto col mondo.

Ma il grosso problema allora è il destino del soggetto cartesiano, il soggetto separato dalle cose. È pensabile un’individuazione non soggettiva? La cerchiamo nel corpo, che tuttavia è un corpo parlante.

Si tratterà di costruirlo allora questo corpo, come vedremo, fuori dal potere individuante della parola che istituisce ciò di cui si parla.

È evidente il ruolo centrale della politica in questo discorso. E d’altronde lo stesso Freud quando ci dice che la psicoanalisi è un mestiere impossibile come l’educatore e il politico non ci sta dicendo altro che questo. Che la psicoanalisi la pedagogia e la politica hanno a che fare con il dispositivo di costruzione dell’umano. Bisogna fare attenzione dunque.

Perché l’io e il mondo non hanno un rapporto pacifico. La crisi climatica non è che una drammatica testimonianza di questo. Dove finisce l’io comincia il mondo.  E il mondo è molteplice, rizomatico. Ma, e questo è il punto, il soggetto è ciò di cui si ha bisogno, in apres coup, per riconoscere quel qualcosa che eccede nella situazione. Badiou parla di evento. È come se il linguaggio avesse la funzione di escludere la possibilità del Nuovo (evento) che però può darsi solo a partire dal linguaggio come una sua via di fuga. Pensiamo a tutta la tematica della ripetizione cara alla psicoanalisi.

L’evento allora è qualcosa che si costruisce, come nella pratica situazionista, come il corpo che non si è mai stati. E per continuare ad evocare Lacan si tratta di essere il corpo che si ha (non che si è). Che è un altro modo di dire l’accadere di qualcosa di Nuovo sui limiti di un sapere che non ha altra funzione che quella di bloccarlo. Per Manuela Fraire la differenza tra l’atteso e l’ospite.

Per Michel Serres il punto è che la caratteristica distintiva del linguaggio è il qui-altrove. Il soggetto parlante è sempre qui, nel corpo che parla ma proprio per questo è anche sempre altrove dove lo rilancia la rete del linguaggio. Ma per Serres “altrove” vuol dire in tutti gli altri corpi parlanti, in quelli che hanno già parlato e in quelli che lo faranno in seguito. Serres come Deleuze è un filosofo della congiunzione. Per loro non esistono termini della relazione indipendentemente dalla relazione. E sulla relazione la psicoanalisi ha molto riflettuto.

Tenendo la relazione come vertice quanto si può dire è che non esiste nulla prima della relazione, non c’è origine per le identità prima della relazione. Non c’è un prima in un certo senso. E allora dobbiamo fare a meno anche degli oggetti? Ma come si fa?

Serres parla di quasi oggetti. Un esempio è il virus. Il virus è la relazione stessa e Serres propone a questo punto un modello nel quale soggetto e oggetto sono costantemente decentrati, proprio perché parte della relazione. Ciascuno è sul bordo, l’analista soprattutto, ma senza precipitare da quel bordo. La soggettività sembrerebbe salva ma al prezzo, diremmo noi accettabile, della sua autonomia. Dice Serres “ci parassitiamo gli uni con gli altri nel parlare”. Serres cerca di riportare il linguaggio nei corpi parlanti.

Il modello futuro per ogni riflessione possibile è questo “essere tra”. Il discorso di Laplanche, allievo di Lacan, allora non si applica all’infans, ma in modo radicale a tutto l’umano. In termini psicoanalitici siamo presi in un continuo processo di individuazione disindividuazione.

Su un piano politico il concetto di Felix Guattari di enunciato collettivo consiste proprio in questa rinuncia alla volontà di identità. Occorre farla finita con un regime identitario dell’io, che può ripetere se stesso e basta.  L’enunciazione collettiva invece disidentifica il soggetto per ricostruirlo in un legame con parti separate umane e non umane. Macchinico lo definisce Guattari, perché appunto non ha nulla di naturale. Il punto qui è il concatenamento con qualcosa di inaspettato e creativo, con il “resto” del mondo, il suo scarto. In quanto il destino di ciò che è scartato nelle definizioni identitarie, oggi è in cima all’agenda politica.

Un dire collettivo che ribalta il modello antropocentrico basato sul divieto e la castrazione. Ribaltamento che avviene senza porre all’inizio un significante trascendente ma un desiderio di connessioni. Il desiderio spinge lì dove il significante taglia. Tutta la riflessione lacaniana non può che essere stata alla fine antiedipica. Guattari la chiama semiotica a-significante. Sarebbe interessante pensare quell’alfa privativo come oggetto piccolo a. È una macchina che continua a sostenersi sulla semiotica significante, quella della lettera rubata, ma servendosene come strumento di deterritorializzazione semiotica, che consentirà a flussi semiotici di trovare nuove connessioni materiali.

Non c’è, come è evidente, nulla di prelinguistico, ma si tratta piuttosto di trovare nuove forme di relazione tra semiotica e corpo, anzi corpi. Un superamento di una semiotica basata sull’uomo, di cui ancora la psicoanalisi non sa rendere conto, come ad esempio invece da tempo sta facendo l’arte, ma con cui la nostra disciplina inizia ora a fare i conti.

D’altronde questa semiotica a-significante di Guattari è molto vicina alla Lalangue di Lacan.

La lettera rubata alla fine non rimanda più al balletto dei significanti dentro una struttura ma diventa lettera, scrittura, coma già aveva intuito Derrida. Si fa corpo insomma. Balbetta.

Non ci si stupisca dunque se ragazzine e ragazzini oggi disidentificano le loro identità socialmente attribuite proprio sperimentando sui loro corpi.

Se non sono gigli, per dirla con De Andrè, sono pur sempre figlie e figli del linguistic turn e dell’epoca post-moderna nella quale abitiamo. Allora magari saranno erbacce, piante infestanti, rizomi.



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