La definizione di maschi dai corpi stonati è stata prelevata dalla riflessione di un uomo sulla sessualità e il corpo dei maschi. In questo mio lavoro sono stata ispirata dalla parola degli uomini su se stessi.
La separazione di soggetto umano ed ambiente non umano, così come quella tra soggetto ed oggetto, anche nel caso siano entrambi umani, appaiono come la costruzione fittizia che dà origine al dominio sul mondo e sugli altri. Con gli esiti perversi assolutamente evidenti nella crisi ambientale, che tale finzione genera. Tutto ciò conduce la riflessione alle problematiche della differenza e del genere, anche a partire dalla riflessione su queste. Infatti è emersa la crisi del paradigma dominante, l'esigenza di rifondare il modo di intendere la relazione tra osservatore e osservato, la critica in breve al positivismo che fonda le scienze moderne e, tra queste, le scienze sociali (Pieroni, 2002).
Il paradigma della scienza moderna si presenta come dispositivo di rimozione, modi di conoscere costruiti per escludere o marginalizzare l’esperienza soggettiva e incarnata. A questo proposito, ci sono importanti contributi nel campo della filosofia della scienza e degli studi di genere che hanno provato a smontare questa apparente neutralità del discorso scientifico. Ho scelto tra questi pochi autori che ho sentito congeniali ma motivi di spazio non mi permettono di ampliare in questa sede il campo dei contributi che hanno preso come riferimento il pensiero di questi autori. Anche se non in modo esplicito la loro critica della neutralità della scienza è giunta ad introdurre il tema oggi centrale di come la scienza moderna sia stata costruita secondo logiche androcentriche.
Imprescindibile Kuhn (1962) che mostra come la scienza non sia un processo lineare e oggettivo, ma sia guidata da paradigmi che si impongono attraverso dinamiche sociali e storiche. Questo apre la strada ad una critica della scienza come costruzione culturale, influenzata da valori e interessi dominanti.
Altrettanto fondamentale Latour (1987) che analizza il modo in cui la scienza viene costruita nella pratica, smontando l’idea di un sapere puro e neutrale. Mostra come la produzione scientifica dipenda da reti di potere, interesse e retorica. Questo suggerisce che anche il genere possa giocare un ruolo nel definire cosa sia considerato conoscenza legittima.
Sia Bruno Latour che Thomas Kuhn, in modi diversi, mettono inoltre in crisi l’idea che la scienza sia puramente razionale. Kuhn lo fa mostrando come i paradigmi scientifici siano costruzioni sociali soggetti a cambiamenti storici, mentre Latour evidenzia il ruolo delle reti di potere e delle strategie retoriche nella costruzione della conoscenza. Le sue teorizzazioni aprono la strada ad una critica più ampia della scienza come struttura patriarcale e al riconoscimento del ruolo del genere nella produzione del sapere.
Evelyn Fox Keller (1985) ci dimostra come il linguaggio scientifico e la sua epistemologia siano stati costruiti su una logica di separazione tra soggetto e oggetto, epistemologia spesso associata ad una visione maschile del sapere. Critica la metafora della scienza come “dominazione della natura” e propone un modello più relazionale. Mentre Connell (2016), sociologa australiana, nata come Robert William nel 1944 e successivamente conosciuta come Raewyn, dopo la sua transizione di genere ha lavorato sulla teoria della maschilità egemonica, un concetto chiave negli studi di genere. Connell analizza il concetto di maschilità egemonica, ovvero il modello dominante di maschilità che rafforza le gerarchie di genere e il potere patriarcale e contrappone la maschilità egemonica a forme subordinate di maschilità, come quelle associate ad uomini omosessuali, uomini di classe operaia o uomini non conformi agli standard dominanti. L’autrice ha ridefinito il modo in cui comprendiamo la maschilità, non come una caratteristica biologica fissa, ma come un insieme di pratiche sociali e culturali che variano a seconda del contesto storico e sociale. Analizza la costruzione sociale della maschilità e il suo rapporto con il potere, suggerendo che l’epistemologia scientifica sia un prodotto delle strutture patriarcali. Studiare la maschilità significa quindi anche smontare il mito della scienza neutrale.
Pieroni (2002) scrive: “la posta in gioco non è soltanto il mantenimento del potere, ma almeno per una parte di uomini che nel potere patriarcale riconosce la propria subordinazione o la propria marginalizzazione, la posta in gioco è la riconquista di sé, ovvero il potere su se stessi in quanto persone individuali, o, più profondamente, la perdita di un sé costruito, come self astratto e disincarnato aggrappato alla parola, e la conquista della consapevolezza incarnata di maschilità”. (p. 18). Il concetto di consapevolezza incarnata si riferisce all’idea che la nostra identità e il nostro sapere abbiano le prime radici nell’esperienza corporea. In altre parole, è il riconoscimento che il corpo non è un semplice involucro, ma la sede primaria della percezione, delle emozioni e della relazione con il mondo.
Tradizionalmente, il discorso dominante ha promosso una visione del sé come qualcosa di astratto e disincarnato, aggrappato alle parole, ai simboli e alle norme sociali. Questa impostazione tende a fissare ruoli e identità in maniera rigida, trascurando il ruolo fondamentale del corpo e delle esperienze sensoriali nella costruzione dell’identità.
In questo tempo presente alcuni uomini, pur beneficiando del potere patriarcale, possono riconoscere una loro subordinazione o marginalizzazione interna. La posta in gioco, per questi, diventa la riconquista di sé: il recupero di un’autonomia personale che implica un potere su se stessi, inteso non più come imposizione di norme esterne, ma come consapevolezza autentica del proprio corpo e delle proprie emozioni. La consapevolezza incarnata invita a riconoscere la dimensione emotiva, sensoriale e relazionale dell’individuo, rendendo visibile e centrale ciò che viene altrimenti nascosto dietro una facciata di razionalità e distacco.
Una maggiore consapevolezza incarnata può inoltre contribuire a superare le rigide divisioni di genere imposte dai sistemi patriarcali, favorendo relazioni basate su un riconoscimento reciproco della dimensione corporea e dell’esperienza personale. In questo quadro, sia uomini che donne possono liberarsi dalle costrizioni di un’identità predeterminata e andare oltre la logica binaria del maschile\femminile.
La costruzione di un'identità libera e consapevole riferita al corpo deve molto a Maturana (2024) che rovescia l'assunto secondo il quale la razionalità, il comportamento razionale, definisce l'homo sapiens, rigetta altresì il principio che siano le tecnologie a costruire la specificità umana e quella delle successive civiltà. Il comportamento razionale ha un inizio come una caratteristica del vivere dei nostri antenati con il linguaggio, nell'uso che essi fecero delle astrazioni nella loro vita quotidiana nella misura in cui agivano come esseri parlanti. Maturana, con la sua teoria dell’autopoiesi e della cognizione biologica, sposta il focus della comprensione dell’identità umana dalla razionalità astratta alla configurazione emozionale. In questo modo, mette in discussione l’idea, profondamente radicata nella tradizione occidentale, che la razionalità sia l’elemento distintivo dell’essere umano.
L’autore sottolinea infine che l’identità umana è legata all’essere incarnati in un contesto di relazioni e di emozioni. Questo è particolarmente rilevante nel discorso sul genere, perché implica che le identità non possano essere ridotte a costruzioni meramente razionali o culturali. Il richiamo a Maturana rafforza l’idea che la consapevolezza incarnata non sia solo una questione individuale ma, oltre che emozionale, relazionale.
L’esistenza umana ha luogo nello spazio relazionale del conversare1, tuttavia si ha l’impressione che nella conversazione gli uomini siano invisibili a se stessi, incapaci di pensarsi oltre un senso comune normalizzante, come non ci fosse alcun rapporto tra le esperienze del corpo e l'io. Sembra che la loro soggettività si appiattisca entro confini serrati per cui in fin dei conti si è – rassicurantemente? – tutti maschi, virili, eterosessuali e quelli che escono da questo perimetro in definitiva non sono veri maschi. Tuttavia questa – probabilmente inconscia- omologazione al modello patriarcale non li protegge da un crescente disagio che si manifesta con l’aumento di stati depressivi o atti di violenza distruttiva. L’insicurezza è accompagnata da un’ansia che porta ad ampliare i margini di appropriazione rispetto ad altri esseri viventi.
Tra uomini che parlano di uomini c’è sempre la presenza dell’uomo socialmente riconosciuto, il boss, il calciatore o la squadra del cuore, la geopolitica. L’uomo che parla di sé è oggetto di scienza e non di vita.
“Non esiste un’identità di genere preesistente, ma l’identità è performativamente costituita dalle espressioni che la compongono” (Butler, 1990). Con queste parole, Butler afferma che il genere non è una qualità intrinseca o una sostanza fissa che definisce la donna o l’uomo, ma il risultato di una serie di atti, gesti e pratiche sociali ripetuti nel tempo. Il genere stesso è un costrutto culturalmente negoziato e non un’essenza naturale, ciò che dovrebbe aprire la strada ad una rinegoziazione dell’identità sia maschile che femminile.
Se l’identità sessuale è il prodotto di una performance sociale, l’identità maschile quanto – anche se non come – l’identità femminile, può essere decostruita e ricostruita oltre il modello standardizzato che impone virilità, eterosessualità e uniformità.
Le parole di Butler invitano inoltre a riconoscere che il disagio degli uomini nel sentirsi ridotti a modelli omogenei – dove il corpo e l’esperienza personale vengono annullati da un discorso normalizzante – è sintomo di una rimozione imposta dalla storia e dalla cultura che preme e rende urgente la necessità di nuovi significanti, che le pratiche discorsive tra uomini che parlano di uomini possono inaugurare. Gli autori di questo nuovo linguaggio non possono che essere uomini abbastanza motivati da sopportare il senso di vertigine e la destabilizzazione che pervadono l'uomo la cui identificazione con il padre\patriarca si rivela ineffettiva.
Alla perdita di un centro d’attrazione delle identificazioni si può osservare – nella clinica ma non solo – l’emergere di un rancore inaspettatamente fomentato da un sentimento di invidia, la stessa che tanta parte ha in fenomeni sociali come il razzismo, la xenofobia e la stessa misoginia. L'oggetto d'orrore è quindi anche oggetto di un'inconfessabile invidia per il sesso femminile.
Invidia per che cosa? Per il modo con cui l’altro mostra di sapersela cavare con la vita. È come se alla base del rancore covato dall'uomo e celato sotto l'orrore della mancanza lavorasse un'oscura consapevolezza, e cioè che la donna sia il ricettacolo di un bene, esattamente quel di più di vita, che a lui, assoggettato al fallo, sarebbe stato negato o sottratto. Tuttavia, a differenza della femminile invidia del pene, che riguarda un'assenza oggettiva, l'invidia del maschio contiene non tanto il possesso di qualcosa quanto una certa qualità dell'essere, una possibilità di godimento che, lo ricordiamo, non sarebbe tra l'altro negata a nessuno, a patto che voglia assumersela. Come si vede, si tratta di un curioso rovesciamento, perché sul piano di quella che è la sostanza delle cose, ora il derubato è lui, l'uomo, e il sesso deficitario è quello maschile. “L'odio e l'invidia sono dunque manifestazioni proiettive tipiche del senso d'impotenza nel far fronte a ciò che di sé sfugge al controllo (…) L’idea che l’odio verso le donne sia in realtà una forma di paura e invidia ribalta la prospettiva tradizionale, che interpreta la misoginia come un semplice desiderio di dominio (...)” (Stoppa, 2017, p.136).
Il rancore maschile nei confronti delle donne non deriva dunque solo da una questione di potere o di controllo, ma da una più profonda e inconfessabile consapevolezza: le donne sembrano sapersela cavare meglio con la vita. Da questo punto di vista un uomo non ha bisogno di sospettare il “tradimento” della donna con un altro uomo, i femminicidi sono largamente conseguenza dell’invidia dell’uomo quando è sostituito presso la donna dal rapporto che lei intrattiene non con la sopravvivenza ma con la vita.
È la condizione antropologica fondamentale, la prematurità alla nascita dell’animale umano, la neotenia, la maestra di vita per le donne, che da sempre non soltanto portano dentro di sé qualcuno che diventerà loro alieno, ma di cui garantiscono la sopravvivenza. Questa esperienza, che per le donne è una realtà inevitabile sia a livello biologico (la gravidanza) sia a livello sociale e culturale (la cura dei figli), dagli uomini è spesso evitata o delegata. Gli uomini tendono a posticipare il loro coinvolgimento con i figli fino a quando il linguaggio e l’interazione verbale diventano più strutturati.
Se pensiamo alla relazione con i figli neonati, questo spiega perché molti uomini preferiscano intervenire quando il bambino è più grande, cioè quando si può interagire con lui attraverso il linguaggio, senza dover affrontare il contatto diretto con la dipendenza assoluta del bambino. La cura neonatale, infatti, li metterebbe di fronte alla propria originaria fragilità, qualcosa che agli uomini è interdetto in quanto appartiene “naturalmente” al dominio del femminile materno. Il campo di indagine si allarga man mano che l’uomo fa esperienza delle cure primarie verso un neonato (ecco perché difendo l’uso di parte maschile della maternità surrogata, la GPA, perché è per l’uomo una opportunità di entrare in contatto con l’impotenza dell’animale umano). “Imparare ad essere padri tenendo fisicamente in braccio un bambino vuol dire imparare a percepire carnalmente (toccare ed essere toccati) l’altro (…) vuol dire essere aperti all’altro: toccare, essere toccati, esporsi ed aspettare’” (Pieroni, 2002, p. 11).
“L'idea di avere un corpo proprio significa per l'uomo…trattarlo fondamentalmente alla stregua di una macchina di cui fare uso. Questo spiega perché eventi come il dolore, l'angoscia, l'eccitazione sessuale, l'estasi, nei quali non gli è possibile astrarsi così facilmente dalla realtà della sua condizione corporea, mettono a repentaglio la certezza della sua identità. D'altronde, questa è, in certo qual modo, l'essenza del godimento nell'essere parlante, qualcosa che scoperchia le sue difese e lo mette faccia a faccia col mistero della corporeità che inevitabilmente porta con sé anche quello della propria esistenza. Si tratta di un momento di verità in cui lo strumento grazie al quale egli esercita la sua volontà di potenza, il linguaggio, non riesce a imbrigliare quel nucleo di vita che ci è sprigionato” (Stoppa, 2017, p.154).
La vulnerabilità non è esclusiva dell’essere umano, il momento della nascita è uno degli eventi in cui questa vulnerabilità si manifesta in modo più evidente, perché rappresenta la massima esposizione alla dipendenza.
Un film, Terra di Dio (2017), racconta la storia di una relazione tra due uomini in cui uno dei due più esperto mostra ad un altro uomo, sprovvisto dalla nascita, come creare per un agnellino nuovo nato un involucro in cui avvolgerlo per proteggerlo dal freddo in assenza della madre. Una pelle di pecora fa da nuovo involucro, segno evidente di un’invenzione e non di un istinto, il cui senso è istituito dal linguaggio che attraversa e taglia il corpo dell’animale umano.
Bibliografia
Butler, J. (1990). Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity. New York: Routledge.
Connell, R.W. (2016). Masculinities (2nd ed.). Berkeley Los Angeles: University of California Press.
Harari, Y.N. (2014). Sapiens. Da a animali a dei. Breve storia dell’umanità. Firenze: Bompiani editore.
Keller, E.F. (1985). Reflections on Gender and Science. Yale University Press.
Kuhn, T.S. (1962). La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Torino: Einaudi.
Latour, B. (1987). La scienza in azione. Torino: Einaudi.
Maturana, H., Varela, F.L. (2024). L’albero della conoscenza. Le radici biologiche della conoscenza umana. Sesto San Giovanni: Mimesis, 2024.
Pieroni, O. (2002). Pene d'amore. Alla ricerca del pene perduto. Maschi, ambiente e società. Soveria Mannelli: Rubbettino Editore.
Stoppa, F. (2017). La costola perduta. Le risorse del femminile e la costruzione dell’umano. Milano: Vita e Pensiero.
1 Vedi Hariri (2014) sulla funzione del gossiping nello sviluppo delle capacità linguistiche.