non ho nessun avere e non potrò dire senza orrore. tu non mi deluderai
tu non mi tradirai dappoiché certo che a ogni istante è d’amore il mio discorso con te e mai di potere
(Jolanda Insana, La tagliola del disamore)
Non è possibile parlare di Daddy (Daddy, Random House, New York, 2020; Daddy, trad. it. di Giovanna Granato, Einaudi, Torino, 2021) e White noise (White noise, The New Yorker, June 1, 2020; Harvey, trad. it. di Giovanna Granato, Einaudi, Torino, 2020) - sua diretta, autonoma quanto consequenziale appendice -, se non attraverso quella porta stretta che The Girls (The Girls. A novel, Random House, New York, 2016; Le ragazze, trad. it. di Martina Testa, Einaudi, Torino, 2016) rappresenta.
Del suo romanzo d’esordio, The Girls, che racconta il coinvolgimento, per quanto periferico in relazione ai fatti, di un’adolescente californiana in una setta simile a quella di Manson alla fine degli anni Sessanta, della sua singolare padronanza del linguaggio, delle immagini e delle sfumature psicologiche capaci di trasportare il lettore in quella sorta di trance ipnotica che la migliore scrittura sa regalare, si è scritto e detto tantissimo, tanto da consacrare immediatamente Emma Cline, fin dall’apparizione di questa singolarissima opera prima, come autrice di culto. The Girls è questo sguardo laterale sulla famiglia Manson nell’estate del millenovecentosessantanove, attraverso il quale Cline, ricorrendo all’eliminazione dei nomi e alla falsificazione di altri dettagli, costruisce una speciale distanza e riadatta la storia, concentrandosi su Evie, la protagonista che si aggrappa agli altri membri adolescenti della famiglia, in particolare a un vagabondo che la attira nel loro ranch polveroso e pieno di rifiuti, ma che di fatto la protegge anche dall’impegnarsi troppo. Fin dal titolo, The Girls presenta un esempio estremo di un enigma comune: perché le giovani donne sono troppo spesso soggette - e a volte complici - di atti a cui non acconsentono pienamente, o di storie d’amore che non hanno creato loro? “È il copione più facile per le donne”, ha risposto Cline. “Anche se non si adatta del tutto”.
Nel suo secondo lavoro, la raccolta di racconti intitolata Daddy, Cline approfondisce gli stessi temi che hanno ossessionato il suo primo romanzo The Girls: l’agency, la rappresentazione del genere e il suo costo sociale e interiore, la corrente di violenza che si agita sotto la superficie di una vita ordinaria. Soprattutto, i personaggi di Daddy - un’aspirante attrice che vende la sua biancheria intima a degli sconosciuti, un regista cinematografico fallito che si confronta con i suoi giudizi crudeli sul figlio, che vuole seguire le sue orme, l’ex tata di una celebrità che si rifugia a casa di un amico dopo che la sua relazione con il datore di lavoro viene rivelata dai tabloid, un redattore di riviste caduto in disgrazia che viene assunto per collaborare alla stesura delle memorie di un imprenditore tecnologico, un’opportunità che lui vede come un’ultima possibilità di redenzione - lottano per il controllo, a volte sugli altri, ma in gran parte su loro stessi, sulle proprie narrazioni e soprattutto sul modo in cui vengono percepiti. Le azioni che compiono per imporre una parvenza di controllo sono scioccanti, commoventi e profondamente umane.
Dal duemilasedici molto è cambiato, e anche la prosa di Cline ha subito una certa evoluzione. La critica aveva definito The Girls troppo “overwritten”: nei racconti che compongono Daddy, opera matura e lungamente maturata, le virtuosistiche descrizioni sensoriali di Cline sono ridotte sensibilmente e appaiono decisamente più controllate in modo da permettere alle sue penetranti intuizioni psicologiche di brillare. Nella pagina regna un umorismo satirico e asciutto e le atmosfere ronzano come se fossero attraversate dall’elettricità; i luoghi informano la psicologia e viceversa. Come accadeva già in The Girls, attraverso la sua evocazione vaporosa ma precisa della Los Angeles del millenovecentosessantanove, Cline esibisce un modo di descrivere le cose che sembra allo stesso tempo elegantemente casuale e estremamente puntuale. Le storie di Daddy sono state elaborate e raccolte nel corso del tempo, molte anche pubblicate in riviste prestigiose, ma le sue preoccupazioni presentano una tale unità e una siffatta coerenza che potrebbero essere state scritte in una sola notte. A differenza del primo libro, con il suo punto di vista ristretto, questo secondo affronta le questioni del potere e della connivenza da una miriade di angolazioni diverse. La postura con la quale Cline cesella i suoi racconti fa venire in mente quella di un agopunture: si tratta di lavorare con piccole correnti di energia, un lavoro più sottile e più ambientale; le storie sembrano scaturire da una singola immagine: sono molto più circoscritte - a una precisa dinamica o a una specifica ambientazione - e focalizzate su “momenti granulari”. I dettagli sensoriali e le descrizioni dei luoghi sembrano spesso fungere da specchio per gli stati emotivi dei personaggi: basti pensare al racconto “Los Angeles”, in cui Alice nota che i prati stanno diventando marroni e il bacino idrico si sta svuotando, insieme a un crescente disincanto nei confronti della città. C’è una connessione intensa tra i mondi e i moti interni dei suoi personaggi e gli eventi esterni del paesaggio, che però appare quasi inconsapevole, come se vedessimo all’opera una qualche logica del sogno, capace di restituire la sensazione che i singoli episodi si rivelino quasi da soli.
Daddy, lo si è detto, è molto diverso da The girls: il suo stile è più nitido rispetto all’onirismo del romanzo precedente, eppure condivide con il suo predecessore una sensazione sotterranea e continua di terrore: in ogni storia si respira l’angosciante presentimento che qualcosa in bilico stia per cadere. Quando stava montando tutte le storie insieme, Cline racconta di aver pensato: “Oh merda, la mia visione del mondo è così cupa? Sicuramente non è il modo in cui vivo la vita momento per momento. Ma vedo cose che mi portano a credere che spesso le forze che stanno dietro al modo in cui viviamo le nostre vite sono minacciose, o hanno una qualità di oscurità. Per me è così”.
Nel raccontare come è nata l’idea di intitolare Daddy la raccolta - anche se nessuna delle storie contenute nel libro contiene questa parola - Cline spiega: “La parola ha un significato dolce e innocente, ma si è anche caricata di un bagaglio culturale, di una strana identità psicosessuale e di dinamiche di potere. Vedo che [questi argomenti] vengono fuori nel mio stesso lavoro, più e più volte”. È un titolo, e questo Cline sembra saperlo bene, che potrebbe mettere chiunque un po’ a disagio, proprio per la fortissima ambivalenza e ambiguità che ormai connota quella parola, nella quale risultano condensati tanto significanti relativi a una versione innocente e infantile quanto quelli che riportano a una carica di allusioni volgari e sessuali.
Diverse storie riguardano uomini anziani inariditi - un regista un tempo potente scartato dall'industria, un padre i cui figli cresciuti si scrollano di dosso il suo amore troppo tardivo - o predatori che ora languono in un limbo di cancellazione. Il tipo di uomini che chiamano le linee telefoniche per i suicidi dopo una caduta di stile solo per raccontarlo alle loro ex fidanzate. Cattivi padri, padri sfigati, padri fuori dal mondo.
Altri racconti raccontano di giovani ragazze che mettono in scena la loro sessualità quando non la sentono davvero. In “Los Angeles”, Alice lavora in un negozio simile ad American Apparel, dove le viene quotidianamente ricordato di far valere la sua bellezza, di far leva sull’idea che lei è ciò che i clienti comprano davvero. Le giovani donne in pieno terremoto pubertario di “Marion”, di appena undici e tredici anni, si mettono in posa a vicenda con i corpi nudi, con nastri rossi legati intorno alla gola, come hanno visto su Playboy. “Siete giovani”, si dicono l’un l’altra mentre le polaroid escono dalla macchina fotografica, “davvero fantastiche”. Ogni storia lascia una patina appiccicosa, qualcosa di seducente che si ha un po’ paura di toccare. Sarebbe facile leggerle come parabole di #MeToo condite con la giusta dose di arsenico e di cinismo, ma molte sono state scritte ben prima del duemiladiciassette e soprattutto Cline non sembra interessata a farne cassa di risonanza per rigurgitare il fatto ormai ovvio che gli uomini di potere fanno cose spregevoli alle donne.
Nel racconto “A/S/L”, la trentacinquenne Thora si trova in una struttura “non proprio di riabilitazione” nel sud-ovest del paese. Nelle chat online finge di avere diciotto anni, posando con la mano sui capezzoli e collegandosi come DaddyXO. Quando G., uno chef televisivo accusato di molestie e atti osceni, si presenta nella struttura, Thora lo aggiunge alla sua lista di cose da fare. Lui piange spesso e se ne sta per conto suo, facendo il suo lavoro. Lei procede a smantellare sistematicamente il suo recupero. “Cerco di scriverli come personaggi completi”, ha raccontato Cline, “non perché voglio redimerli o perché credo alla loro versione di sé o penso che siano stati maltrattati. Li scrivo così perché voglio scrivere personaggi che occupano la loro piena umanità”.
Durante la stesura del libro Cline racconta di aver letto il saggio “Into That Darkness” di Gitta Sereny, un libro basato su settanta ore di interviste con Franz Stangl, un comandante nazista nel campo di concentramento di Treblinka. “È uno dei libri più folli, intensi e umani... e funziona, perché [Sereny] è - credo che “rispettoso” sia la parola giusta, per quanto possa sembrare strano”. “È ovvio che non è un mostro, ma il modo in cui concepisce sé stesso e la storia che si racconta della sua vita...”. Come scrittrice è stata ispirata, come essere umano, è stata respinta. “Penso che la narrativa tragga vantaggio dall'ambiguità...”, dice, “mentre ovviamente la vita non lo fa”.
Se in The Girls Cline si era concentrata - come suggerito già dal titolo - maggiormente sulle donne, in Daddy rivolge la sua attenzione principalmente agli uomini. Anche se una piccola parte dei suoi protagonisti sono effettivamente donne, in questi racconti Cline si occupa di restituire l’interiorità maschile in un modo molto specifico, e spesso profondamente scomodo, che mi è parso particolarmente interessante. La scelta della autrice è stata quella di abitare alcuni “uomini mostruosi”, anche perché l’attualità ha costretto tutti a immaginare la vita interiore degli uomini e a chiedersi perché fanno quello che fanno. Basti pensare alla quantità di energia spesa per cercare di decodificare cosa pensa Donald Trump e perché si comporta in modo così irregolare: è una sorta di contemplazione forzata dell’interiorità maschile. Vedere un intero posto di lavoro alle prese con le azioni di un singolo uomo e tutta l’energia e gli sforzi profusi da tutte queste persone per cercare di capire cosa possa accadere nella mente di quest’ultimo. Cline scrive di uomini che non si sentono così in sintonia con il loro mondo emotivo o con quello degli altri.
I racconti sono stati scritti nell’arco di un decennio, ma nel momento in cui li ha raccolti si è resa conto che il tema generale del libro è “il crepuscolo di una certa figura maschile”. Nel racconto di apertura, “What Can You Do With A General” (Il titolo deriva da una canzone omonima, tratta dal film White Christmas del millenovecentocinquantaquattro, che parla dell’irrilevanza di un generale dell’esercito in pensione), un padre un tempo violento, ormai stanco dall’età, sopporta la mancanza di rispetto dei suoi figli adulti. In “Son of Friedman”, un ex dirigente cinematografico affronta le delusioni della sua vecchiaia, tra cui un amico di maggior successo e un figlio deludente e fallimentare. In “Menlo Park”, Ben, che è stato pubblicamente svergognato per qualcosa di imprecisato, tenta di ricominciare come ghost writer, usando ingenti quantitativi di psicofarmaci per dimenticare come ha distrutto la propria vita. “È stata una delle ultime storie che ho scritto e probabilmente è quella più legata a fatti accaduti di recente”, ha dichiarato Cline riferendosi al movimento #MeToo. “Non era una cosa consapevole [scrivere di uomini], ma penso che sia una funzione del vivere in questa società, sei costretto a immaginare cosa succede nella mente degli uomini”.
Le storie sono in gran parte raccontate dal punto di vista degli uomini, in modo che il lettore sia al corrente di come essi vedono il loro comportamento: “Quando [la cameriera] si ritirò, lasciando Richard da solo con suo figlio e la ragazza che piangeva, gli venne in mente, con la logica ritardata di un sogno, che la cameriera doveva pensare che fosse lui il cattivo in tutto questo”, pensa un padre in “Northeast Regional”, dopo aver maltrattato la ragazza del figlio adolescente in un ristorante. “Credo che vivendo la vita da donna si abbia un’idea abbastanza precisa di come pensano gli uomini, purtroppo”, ha detto Cline. Eppure, presenta le sue figure maschili senza giudicarle, non le interessa descrivere i suoi personaggi in modo che il lettore possa sentirsi moralmente superiore a loro. Cerca solo di riprodurre qualcosa della loro vita interiore: “Torno sempre alla mia coscienza, a come ci si sente quando si è dentro una testa, e a come ci si sente quando si è dentro un’altra testa”.
Del resto, è chiaro che il suo principale intesse è alle storie che le persone si raccontano, a come si vedono. È un aspetto che ultimamente è più sentito, perché soprattutto gli uomini hanno dovuto scusarsi pubblicamente e presentare le loro auto-narrazioni. La generosità di Cline nei confronti di questi uomini è particolarmente notevole, anche per il fatto di avere a sua volta parlato delle proprie esperienze di molestie sessuali: lo scrittore che l’ha palpeggiata dopo aver vinto un premio letterario, il fotografo che l’ha tormentata per farla posare su un letto fino a farla piangere, il fidanzato che l’ha soffocata durante una lite: “Penso che con la violenza che ho vissuto, fisica o di altro tipo, se ne estrai una morale, la convalidi quasi come qualcosa che aveva un significato più grande, qualcosa che seguiva la logica, e se c’è una cosa che so degli esseri umani è che non seguono la logica”. Invece, afferma, e con i suoi racconti ce lo mostra, come le persone agiscono in modi “motivati dall’aggressività o dalla paura”. Non ha neanche tempo per le teorie attualmente in voga secondo cui scrivere di questi uomini conferisce loro una dignità e un’attenzione che non meritano: “Leggere e scrivere non sono un appoggio. Continuo a tornare alla curiosità, e l’idea che non si possa essere interessati a come questi uomini pensano a sé stessi è molto bizzarra per me, soprattutto quando la cultura è affascinata da questi uomini”.
Spesso l’autrice decide di non rivelare esplicitamente quale “cosa cattiva” abbia fatto un certo personaggio: si pensi a “Northeast Regional”, in cui non sappiamo mai esattamente cosa abbia fatto Rowan per giustificare la richiesta di lasciare il suo collegio, e a “What Can You Do With A General”, in cui gli abusi del padre sono accennati ma mai dichiarati apertamente. Spesso, come già accadeva in The Girls, il fulcro della storia non sta nella preparazione di un evento terribile, ma piuttosto nell’esplorazione delle conseguenze che lo circondano e della psicologia di coloro che ne sono colpiti. La scelta di nascondere certe informazioni al lettore è in fondo una questione di sensibilità. Nelle sue stesse parole: “Trovo che spesso sono attratta da queste situazioni estreme, come l’omicidio di una setta, o uno scandalo di una celebrità, o Harvey Weinstein - eventi drammatici, sconvolgenti e scandalosi - ma la loro scrittura, per me, è in parte: “Come posso mediare l’estremità di questo incidente in un modo che serva il tono della storia che sto cercando di scrivere? Una versione della scrittura di questo momento sarebbe la versione “fissare il sole”, in cui lo si guarda in faccia, ti brucia, ti travolge, è l'esplorazione completa ed esplicita di ciò che sta accadendo. Ma per me, penso sempre ai fattori di mediazione. È un po’ come quando si può guardare un’eclissi solare solo attraverso una scatola speciale. È necessario mediare questo evento travolgente per renderlo digeribile. Oppure, come posso rendere l’effetto più obliquo, come quando si fanno rimbalzare i riflessi su più specchi: la luce arriva comunque a destinazione, ma si è creato un diversivo. Penso molto a questo tipo di approcci artigianali quando penso a come scrivere questi momenti o incidenti estremi - e un’altra parte è che trovo interessante lasciare al lettore questi spazi vuoti da riempire, soprattutto quando si parla di cose così orribili o violente. Lasciare questo spazio permette al lettore di riempirlo con la sua versione dell’orrore. Potrei sicuramente scrivere quello che ha fatto il ragazzo, ma mentre lavoravo alla storia ho pensato: “Aggiungerebbe qualcosa? O avrebbe chiuso la storia in un certo modo? Perché all’improvviso quello che ha fatto sarebbe stato qualcosa che il lettore avrebbe potuto giudicare da solo dal punto di vista morale, tipo: “Oh, non è stato così grave”, oppure “È stato davvero grave”. Per me non era questo il fulcro della storia, quindi non vedevo lo scopo di inserirlo”.
La profondità, la messa a nudo dell’interiorità in Daddy è sbalorditiva. Il lettore è preso in una eccitazione voyeuristica che entrare nella mente di questi personaggi porta con sé: assistere alle loro acrobazie mentali mentre lavorano per inquadrare le situazioni in un modo particolare, trascurare o fissarsi su certi dettagli e scrivere storie su sé stessi e sugli altri. Sembra che ci siano molte false percezioni e molti giudizi errati da parte di ognuno dei protagonisti. In fondo un tema portante del libro è proprio quello che ha a che vedere con la tendenza umana a costruire false narrazioni; questo appare come un grande interesse di Cline: le storie che le persone si raccontano continuamente sia su sé stesse che sulle persone che le circondano, come giustificano queste narrazioni, da dove provengono e come le narrazioni le tengono effettivamente separate dalla realtà. Si pensi al personaggio di “Menlo Park” o al padre di “What Can You Do With A General”, questi uomini che hanno chiaramente causato dolore, ma non possono assorbire questo fatto nella loro auto-narrazione perché sarebbe troppo pericoloso e troppo conflittuale dover assimilare queste informazioni che ricevono dalle persone che li circondano - tu hai causato dolore, o tu sei stato violento. Queste difese che vengono costruite per proteggere l’immagine di sé sono al centro dell’analisi di Cline che ha riflettuto molto su questi temi durante la vicenda #MeToo e le scuse che ne sono seguite. Si è interessata ad esempio ad alcuni libri scritti da persone che cercavano di raccontare le loro storie, nei quali sembrava che mostrassero sempre i loro margini irregolari. Si vedeva quanto sforzo era stato fatto per far credere loro di essere una brava persona. “Penso che sia un istinto umano del tutto naturale, che ogni persona ha, ma trovo che sia un ricco alimento per la narrativa, per il modo in cui ti mette in contrasto con la realtà e può impedirti di avere una vera intimità con le persone che ti circondano, o di vederle chiaramente”. L’enorme quantità di sforzo emotivo che possiamo spendere per proteggere il nostro sé, per proteggere questa idea di noi stessi. Questa è ovviamente una versione estrema, ma possiamo imparare molto di più sul perché queste cose accadono se capiamo che le persone non sono cattivi da cartone animato, non sono malvagie al cento per cento: sono persone normali le cui auto-illusioni possono però generare una vera distruzione, “Penso a questo in modo molto più ampio con quello che sta succedendo al Paese in questo momento, che stiamo subendo questa morte dell’ego. La storia che ci siamo raccontati per tanto tempo su quanto l’America sia progressista, democratica o avanzata, si è rivelata un’assoluta falsità. Vedere le persone ancora così poco disposte ad accettare la morte di quella storia, e aggrapparsi così ferocemente e brutalmente a questa falsa narra zione, mi affascina e mi rattrista molto”.
Cline gioca su questa fascinazione culturale in modo evidente in una storia che non è presente in Daddy, ma che è stata pubblicata come racconto autonomo dal New Yorker lo stesso anno in cui è uscito il libro: si tratta di White Noise, che descrive la vita interiore di Harvey Weinstein la notte prima del verdetto del processo. All’inizio Weinstein sembra semplicemente patetico, mentre si aggira da solo al buio, immaginando il suo trionfale ritorno. Poi ricorda come era solito intimidire le persone per costringerle a dargli cose che non volevano dare: “Alcune persone resistevano, altre no. Alcuni rimanevano immobili, impassibili; altri si mettevano a ridere, per il disagio. Gli piaceva tutto questo, anche le vittorie più lievi: era come i diversi gusti di gelato. E, alla fine, era sempre sazio, l’altra persona respirava a fatica, strizzava gli occhi, si muoveva, con una nuova vergogna in faccia”.
White Noise, porta il lavoro di Cline a un punto più netto. Se in The Girls Manson ha un nuovo nome e il predatore di celebrità in “A/S/L”, “il centro morale della storia”, ha solo un’iniziale in White Noise - un profilo fittizio di una vera celebrità - segue un giorno nella vita di un Harvey Weinstein post-caduta e pre-processo. Si aggira in una tenuta del Connecticut e ricorda a sé stesso il suo potere, la sua innocenza, il suo dannato e costoso team di avvocati. “Credeva davvero che sarebbe stato scagionato. Come avrebbe potuto non esserlo? Questa era l’America”.
L’Harvey di Cline ricorda sì il dolore a cui sottoponeva le donne, ma è pietoso, incespicante, sciupato. Una dose di ketamina lo scioglie fino all’idiozia. Scambia un anziano vicino di casa per il grande scrittore Don DeLillo e fantastica come un adattamento cinematografico del suo romanzo “Rumore bianco” possa rilanciare la sua carriera. È un ritratto umiliante, più dannoso per le sue sfumature. “Tendo a evitare di scrivere di persone reali per qualsiasi motivo”, ha detto Cline, “Ma non avrebbe funzionato se fosse stata una versione vaga di Harvey Weinstein. Qualcosa della sua specificità era importante”. Dipingere un predatore sessuale di qualsiasi tipo avrebbe comunque attirato paragoni con Weinstein. In questo modo, Cline ha centrato contemporaneamente una serie di obiettivi: una nuova finestra emotiva sulla banalità del male, un omaggio a un eroe letterario e un colpo ben assestato sulla mascella di vetro dell’uomo nero.
Peculiare è il modo in cui i suoi finali resistono alle conclusioni nette, eppure spesso sembrano pugni allo stomaco, portando rapidamente la storia in una direzione diversa da quella che il lettore avrebbe potuto sospettare. È interessante chiedersi come l’autrice arriva alla fine di una storia, sembrando resistere a un arco narrativo ordinato, o a un tipo di finale che leghi insieme la storia che l’ha preceduta. E solo pensando al modo in cui viviamo le nostre vite, o il momento culturale, o la vita delle persone che amiamo e che ci circondano, che realizziamo come la vita raramente segue un qualche tipo di schema riconoscibile o di conclusione piacevole. C’è oltretutto un’eco sociale in questa modalità di scrittura che attiene con quello che sta accadendo in questo momento negli USA, dove tutte queste narrazioni iper-pulite, questo slancio in avanti di una vita che diventa sempre migliore, questi percorsi molto chiari, sono improvvisamente cambiati in modo profondo. Cline sta cercando una narrativa che lo rifletta per questo non può ambire a un finale limpido e soddisfacente: “Credo che il massimo che si possa sperare sia la risonanza, o un lento girare intorno a un momento o a un’emozione”. È qualcosa di molto più atmosferico e diffuso, e molto meno concreto.
Un’altra caratteristica della scrittura di Cline è la sua capacità di individuare il pericolo e il degrado all’interno di ciò che è apparentemente bello. Ci si potrebbe domandare se questa sensibilità sia, in parte, una funzione dell’essere cresciuta in California. Questo paesaggio che nell’immaginario culturale viene dipinto come un paradiso assolato e che invece è profondamente instabile dal punto di vista geografico. Il paesaggio risuona profondamente nell’autrice e nella sua scrittura: la California è così bella e sensualmente così ricca, eppure costruita su fondamenta decisamente instabili. È una dualità molto interessante che si rivela nei suoi racconti, nella sua attrazione per situazioni apparentemente idilliache che mostrano sempre una qualche sfumatura di oscurità. L’essere cresciuta in un contesto rurale, dove si è confrontati con la solitudine e si è molto più esposti agli elementi e all’indifferenza e alla ferocia del mondo naturale - basti pensare ad esempio ai terremoti - ha prodotto una scrittura nella quale riverbera continuamente questa sensazione che tutto possa scomparire o cambiare all’improvviso.
Ciò che più seduce e turba nei racconti di Cline è come l’autrice non sia mai portata a sentire la necessità di sgomberare il campo da alcuna ambiguità, ma, anzi, come sembri piuttosto obbligare il lettore a sostare inchiodato nel punto esatto in cui nessuno vorrebbe stare: costretto a guardare, a subire il fascino e l’angoscia di pulsioni dalle quali ci si vorrebbe dire immuni. Ma va da sé che esplorare il desiderio significa proprio aprire all’ambivalenza, alle ambiguità, alle contraddizioni, e a tutto ciò che non si mostra in maniera semplice o univoca. Daddy costringe a porsi domande molto scomode legate alla volontà di controllo e di dominio sull’altro che albergano in ognuno di noi, alla forza della seduzione, esercitata nei suoi aspetti più coercitivi e magnetizzanti, talvolta senza ombra di tenerezza o reale interesse per l’oggetto, e, va da sé, a accettarne la plurivocità di risposte.
Come ha scritto giustamente Sara Marzullo, Daddy non è “un libro di Bret Easton Ellis in cui tutti sono orribili, è piuttosto un libro in cui tutti sono orripilati da quello che potrebbero fare, se solo fosse permesso, se solo non ci fossero conseguenze”.
Storie che, se volessimo farle precipitare in una singola frase e condensarle in un tono aforistico, coinciderebbero con uno degli epigrammi di Elio Pagliarani; del resto, nel mondo nessuno può dirsi innocente e non è possibile salvare nemmeno noi stessi: “non so se avete capito: siamo in troppi a farmi schifo”.
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